venerdì 29 dicembre 2006

ANCHE I PARENTI DEI MALATI SONO UNA RISORSA, PARTENER PREZIOSI PER UN LAVORO CHE VALORIZZA OGNI ASPETTO DELL'ESISTENZA UMANA

Articolo di Avvenire del 28 dicembre 2006

"Il malato è anzitutto una persona, e ogni istante ha un valore infinito. Qui si accompagna alla vita, non alla morte, anche se la morte è un esito che molti hanno davanti agli occhi. E che può terrorizzare».
L'esperienza del dolore già provato, la paura di quello futuro, il terrore di finire la propria esistenza annichiliti dalla sofferenza, la preoccupazione per la qualità della vita che resta da vivere, la disperazione e la solitudine: situazioni oggettive e stati d'animo che possono far nascere la tentazione dell'eutanasia. «Ma in quattro anni nessuno dei mille pazienti che è passato di qui l'ha mai chiesta "

Qui sotto viene riportato l'articolo integrale.


Dal Nostro Inviato A Forlimpopoli (ForlÌ)
Giorgio Paolucci
Nel linguaggio ovattato della medicina lo chiamano «trattamento dei sintomi e delle fasi critiche di malattia non gestibili a domicilio». Nella pratica, chi è ricoverato qui fa i conti da tempo con la sofferenza, spesso con mali inguaribili, a volte con la morte che fa capolino dietro l'orizzonte estremo della vita. L'Hospice Valerio Grassi di Forlimpopoli fa parte dell'Unità sanitaria di Forlì. Inaugurato nel 2002, è uno dei 111 centri per le cure palliative aperti negli ultimi anni in Italia, e che continuano a nascere per dare sollievo ai malati e ai loro cari. Quarto piano del piccolo ospedale romagnolo, sette stanze singole e due doppie che si affacciano su un corridoio ingentilito dalle riproduzioni di quadri di Chagall, Matisse, Friedrich. Situazioni pesanti dal punto di vista clinico, ma si avverte un clima di positività che finisce per contagiare chiunque entri qui. Siamo in un reparto d'ospedale, ma si respira aria di casa. Sguardi lieti, cura dei particolari. In quattro anni sono passate di qui mille persone, per molti è stato il capolinea della vita. Un capolinea a cui si arriva portando in corpo, oltre alla sofferenza fisica, la disperazione, la rabbia, ma anche l'irrinunciabile speranza che si possa arrivare ancora un po' più in là. E magari, guarire. Racconta il dottor Marco Maltoni, direttore del centro: «Prestiamo tutte le cure mediche del caso: terapia del dolore e dei diversi sintomi, ma soprattutto un approccio globale alla malattia, fatto di attenzione ai bisogni fisici e alle esigenze psicologiche, relazionali, affettive, fino a quelle spirituali. La sofferenza non viene medicalizzata, ma affrontata in una dimensione esistenziale. Il malato è anzitutto una persona, e ogni istante ha un valore infinito. Qui si accompagna alla vita, non alla morte, anche se la morte è un esito che molti hanno davanti agli occhi. E che può terrorizzare».
L'esperienza del dolore già provato, la paura di quello futuro, il terrore di finire la propria esistenza annichiliti dalla sofferenza, la preoccupazione per la qualità della vita che resta da vivere, la disperazione e la solitudine: situazioni oggettive e stati d'animo che possono far nascere la tentazione dell'eutanasia. «Ma in quattro anni nessuno dei mille pazienti che è passato di qui l'ha mai chiesta - racconta Maltoni -. La polemica in corso sulla cosiddetta buona morte è in gran parte figlia di una strumentalizzazione ideologica e politica, e i casi singoli vengono usati per far passare principi generali che modifichino in maniera radicale l'approccio alle malattie terminali».
L'hospice di Forlimpopoli è un piccolo gioiello di efficienza e di accoglienza. Per assistere 11 pazienti ci sono 2 medici, 8 infermiere e 6 operatori sociosanitari: un rapporto che permette di tenere alta la qualità delle cure. Finanziamenti pubblici sono arrivati prima dal ministro Bindi, poi da Sirchia: riconoscimenti bipartisan per un lavoro che raccoglie consensi in tutta la zona, e che viene sostenuto anche da istituzioni private come l'Istituto oncologico romagnolo, l'Associazione Amici dell'hospice, associazioni imprenditoriali e singole aziende. Non una cattedrale nel deserto, come rischiano di essere strutture analoghe nel nostro Paese, ma il punto di riferimento di una rete territoriale che coinvolge ospedali ed esperienze di assistenza domiciliare.
I parenti non sono un peso da sopportare ma una risorsa da valorizzare, partner preziosi di un lavoro teso a valorizzare tutto ciò che può rendere più dignitosa l'esistenza, in qualsiasi condizione di salute. Osservando le dinamiche che si creano e si consolidano nel reparto, s'intuisce che c'è un gioco di sponda tra personale sanitario da una parte e familiari dei pazienti dall'altra. E le numerose e commoventi attestazioni di stima contenute nei registri dove ciascuno può annotare esperienze e sensazioni maturate stando qui dentro, ne sono un'eloquente testimonianza (vedere altro articolo nella pagina).
In un libro scritto insieme al neonatologo Carlo Bellieni - «La morte dell'eutanasia» (Società editrice fiorentina) - Maltoni scrive che «la dignità del malato è nell'occhio del curante. È fondamentale l'approccio che noi medici abbiamo con i pazienti. Per loro c'è molta differenza tra l'essere identificati con la patologia (come a volte si dice tra colleghi: "è un cancro del colon") o addirittura con l'organo malato ("è una mammella", "è un polmone"), e il veder emergere la loro identità umana, il loro patrimonio di interessi e di passioni, la loro figura di padri, mariti, nonni, in relazione con gli affetti profondi della vita». È quella che lo psichiatra canadese Chochinow ha chiamato dignity therapy, e si basa su un intervento individualizzato di tipo psicoterapeutico, che consiste nel far emergere dal paziente gli elementi di preoccupazione legati alla malattia e insieme le possibilità pratiche di conservare la «consistenza» personale, in sintesi tutto ciò che ridà dignità e significato al vivere. Quando la morte fa capolino all'orizzonte, ci si interroga come mai era capitato prima sul significato della vita. E se si ha la fortuna di incontrare tipi umani come Maltoni, come i suoi collaboratori, come don Nino, l'anziano e solido cappellano dell'ospedale, anche questa diventa una stagione dell'esistenza da guardare in faccia, non una maledizione. Mettete tutto questo insieme, e capirete perché qui si respira aria di casa. E forse capirete perché il 20 per cento dei pazienti oncologici olandesi richiede l'eutanasia, mentre i malati terminali che venivano assistiti da Teresa di Calcutta raccontavano di «sentirsi amati come figli e trattati come re.

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