domenica 31 dicembre 2006

LA CARITA? SARA? SEMPRE NECESSARIA ANCHE NELLA SOCIETA' PIU'GIUSTA


CIAO
qui sotto riporto un intervento di "carron""la carita' sara' sempre necessaria anche nella societa' piu' giusta" Ritengo sia importante capire il gesto della carita'

"La carità è un’esigenza, la nostra esigenza, che ci fa interessare degli altri. «Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri» (Il senso della caritativa, p. 5); quando vediamo un bisogno ci sentiamo spinti a rispondere, e questo è così corrispondente alla nostra natura che noi ci sentiamo spinti, non perché qualcuno ce lo dica, ma per il desiderio di comunicare. E don Giussani aggiunge che quanto più noi viviamo questa esigenza tanto più diventiamo noi stessi"

E' vero e' talmente corrispondente nella nostra vita di tutti i giorni.
E' un esperienza che con la nascita di Giovanni diventa piu' vera ogni giorno.
Fatica dolore non mi sono risparmiati ma dentro quest'abbraccio si trasformano.
Aderire e' cosi' corrispondente alla mia natura che mi permette di vivere in letizia anche i giorni piu' dolorosi."(Mi diceva proprio oggi una persona:'Come è difficile capire, sentire in che modo il sacrificio dentro un rapporto fa essere il rapporto più vero, e perciò può fare il rapporto più godibile, più fruibile, può rendere il rapporto più sperimentalmente bello. Com'è difficile capire questo!'. Io le ho risposto che non è difficile capirlo: prima di tutto, bisogna mendicarlo da Dio e, in secondo luogo, bisogna avere la pazienza del tempo. (Luigi Giussani, pag.109 "Dal temperamento un metodo" BUR 2002)"

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La carità sarà sempre necessaria, anche nella società più giusta

Appunti dall’intervento di Julián Carrón all’assemblea dei responsabili delle Tende Avsi 2006/2007 e degli Avsi Point.
Milano, 18 novembre 2006

Il titolo delle “Tende” di quest’anno ci può introdurre veramente a capire il senso di questo gesto: «La carità sarà sempre necessaria, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo» (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28). Trovarsi davanti a un uomo che ha bisogno di amore, di affezione, di un abbraccio, ci fa capire che il servizio di questo amore, di questa affezione non sarà mai abbastanza, non sarà mai superfluo e che non possiamo costruire una civiltà dove di questo non ci sia più bisogno, perché un uomo, forse, può non avere bisogno di soldi, ma di questo abbraccio sì, sempre.
Per capirlo abbiamo quello che don Giussani ci ha detto ne Il senso della caritativa. Lì abbiamo tutti gli spunti sintetici per comprendere le ragioni di un gesto come le Tende. Non soltanto le ragioni del gesto, perché per comprendere le ragioni di un gesto siamo costretti a capire noi stessi e la totalità, perché in un gesto sono coinvolti tutti i fattori: dall’io al tutto, al senso e al significato di tutto.
La carità è un’esigenza, la nostra esigenza, che ci fa interessare degli altri. «Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri» (Il senso della caritativa, p. 5); quando vediamo un bisogno ci sentiamo spinti a rispondere, e questo è così corrispondente alla nostra natura che noi ci sentiamo spinti, non perché qualcuno ce lo dica, ma per il desiderio di comunicare. E don Giussani aggiunge che quanto più noi viviamo questa esigenza tanto più diventiamo noi stessi. Questa è la prima ragione per cui facciamo un gesto come le Tende e per cui andiamo in “caritativa”. Perciò non è qualcosa di esteriore a noi, come un dovere, ma qualcosa che coincide con noi stessi: noi siamo fatti così, abbiamo questa struttura, questo modo di essere, e quanto più viviamo secondo la modalità con cui siamo stati fatti, tanto meglio «realizziamo noi stessi», dice don Giussani.
Questo darsi, questo comunicarsi, questo interessarsi all’altro, fa parte della nostra natura così come la sorprendiamo nell’esperienza; non lo peschiamo, come concetto, in non so quale enciclopedia, ma lo sorprendiamo – quando abbiamo bisogno di comunicare qualche cosa di bello o quando rispondiamo a un bisogno – nella nostra esperienza, se noi siamo attenti. Qual è la legge di questo? Che siamo più noi stessi. Prima che risposta a un bisogno, a una necessità, questo comunicarsi è una legge del nostro io: «La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l’essere degli altri, è mettere in comune se stessi» (Il senso…, p. 7). Ci interessa fare così attraverso un gesto, che ci consente di imparare a farlo in tutto il resto della vita, perché così siamo noi stessi. E questo, che è la legge dell’Essere, si è rivelato – dice don Giussani – in maniera evidente nel modo con cui l’Essere stesso si è dato a noi: il Figlio dell’Uomo, diventando uomo, Cristo, incarnandosi, non ci ha dato prima di tutto qualcosa, ma «ha “condiviso” – dice don Giussani in modo bellissimo – la nostra nullità» (Il senso…, p. 7). La prima cosa che ha fatto è stata diventare uomo, farsi carne, e così ci ha svelato qual è la vera natura dell’Essere, che noi percepiamo, sorprendiamo in noi e che vediamo in Cristo realizzato in modo chiaro, senza ambiguità, in un modo assolutamente evidente se ci fermiamo a pensare a questo sorprendente e assoluto mistero – che il Verbo si sia fatto carne –, se per un istante non lo diamo per scontato come qualcosa di già saputo.
Che cosa vuol dire questa condivisione? Ho raccontato altre volte un episodio che mi è capitato durante un viaggio in America Latina. Era la festa della Madonna e la prima Lettura della messa era dalla Lettera ai Galati: si diceva che Gesù, il Mistero, è diventato carne attraverso la Madonna. Io l’avevo subito accolto, dicendo: «È vero!», con tutto il mio desiderio. Ma poi mi sono reso conto fino a che punto questo può essere riduttivo, fino a che punto questo non era tutto, dal sobbalzo che ho avuto ascoltando il Vangelo della stessa messa (era quello della Visitazione): la Madonna arriva a casa di Elisabetta e il Vangelo dice che, appena sentito il saluto, il bimbo – Giovanni Battista – ha esultato di gioia nel grembo della sua mamma. Mi sono detto: «Ecco: questo è il cristianesimo!». Non è un’affermazione teorica. E che cosa è? Questo esultare di gioia di un bimbo nel ventre della sua mamma. Qui si vede benissimo qual è stata veramente la condivisione più grande. Non è qualcosa che Cristo fa, qui lo si vede nella sua essenzialità, ma soltanto la Sua presenza che condivide il nostro nulla. La Madonna era andata soltanto a visitare la cugina, sembrerebbe quasi nulla, ma in questo gesto, portando la Sua presenza, ha fatto esultare di gioia quel bimbo.
Vediamo, allora, che la vera carità è questo entrare, questo condividere il nostro nulla da parte del Figlio di Dio. Quando ce ne rendiamo conto, questo ci fa esultare. Perciò qual è la radice di questa passione, dove può pescare la passione di condividere? Soltanto in quello che noi riceviamo da un Altro, in quello che trabocca dal cuore di quello che noi riceviamo, di quella tenerezza del Mistero verso di noi. È importantissimo capire bene questo, affinché non diventi soltanto un attivismo quello che facciamo, perché tante volte diamo per scontato questo, pensiamo di saperlo già, e allora passiamo all’operatività.
Una volta, durante un’assemblea sul capitolo dedicato alla carità di Si può vivere così?, ho domandato ai ragazzi: «Prendete un foglio e scrivete in una frase quello che vi ha colpito di più». In un minuto ho avuto il flash della situazione: «Tu che cosa hai scritto?». «Questa frase». «In quanti avete scritto questa frase?»… «Tu che cosa hai scritto?», è stato un test di un minuto: la maggioranza aveva dimenticato la questione, non aveva centrato il punto, perché tante volte si scivola su quello che si deve fare, ma chi aveva colto la vera questione di quello che dice don Giussani, che si poteva sintetizzare in quella frase di Geremia: «Ti ho amato con un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente»? Questa è la carità, come dice san Giovanni: la questione non è che noi abbiamo amato Dio, ma che «Dio ci ha amati per primo» (Deus…, n.1). È quello che ha detto il Papa nell’Enciclica in modo spettacolare: la nostra passione pesca lì, e se non pesca lì, pian piano ci stanchiamo. Perché la carità non è una generosità: la generosità parte da quello che a noi manca, che vogliamo riempire con qualcosa, e prima o poi ci stanchiamo. La gratuità, invece, parte da quello che sobbalza nel nostro cuore, da quello che ci riempie, da quello che trabocca di quello che noi riceviamo a nostra volta, da quello che abbiamo, tutto, all’inizio, cioè da quello che ci rende pieni. E perciò in questo darci ci realizziamo, si realizza la nostra persona. Altrimenti, se non è così, vengono fuori le pretese.
Per questo è importantissimo capire l’origine di questo nostro gesto, che ci fa diversi da qualsiasi altra Ong. Perché non basta tutto il nostro volontarismo per rendere contenti noi stessi e gli altri, perché tutto è poco, piccino, per la capacità dell’animo, anche quando siamo in grado di risolvere i problemi e le difficoltà. Per questo è vero che la carità sarà sempre necessaria anche nella società più giusta.
Perché oggi è così complicato capire questo? Per quello che dice don Giussani nelle pagine successive de Il senso della caritativa: noi riduciamo il bisogno dell’altro. «Qual è il bisogno altrui – dice lui –?» (Il senso…, p. 8). Ciò che io immagino? Ciò che io ho deciso? «Ciò di cui hanno veramente bisogno non lo so io, non lo misuro io, non ce l’ho io. È una misura che non possiedo io: è una misura che sta in Dio. Perciò – diceva don Giussani tanti anni fa – le “leggi” e le “giustizie” possono schiacciare, se dimenticassero o pretendessero sostituirlo l’unico “concreto” che ci sia: la persona e l’amore alla persona» (Il senso…, p. 9). La questione micidiale è che noi tante volte riduciamo il bisogno.
Se noi non allarghiamo la nostra ragione per essere disponibili a cogliere, a sorprendere, a lasciare venire fuori veramente il bisogno dell’altro (come fanno tanti politici, a volte, che ci dicono quali sono i nostri bisogni invece di essere in ascolto), ci sembra sempre che ci debba essere qualcuno che ci dice cosa dobbiamo essere o qual è il nostro vero bisogno – ci sono state delle società i cui capi pensavano di avere già chiaro di che cosa avevano bisogno tutti i loro Paesi, l’abbiamo visto chiaramente –. Se non ci rendiamo veramente disponibili ad ascoltare, ad accogliere il vero bisogno, come possiamo non imporre la nostra misura? Soltanto condividendo ci rendiamo conto che «non siamo noi a farli contenti – dice don Giussani –; e che neppure la più perfetta società, l’organismo legalmente più saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro, la bellezza più pura, la civiltà più educata li potrà mai fare contenti» (Il senso…, p. 10).
Per questo ci sarà sempre bisogno della carità. Perché il nostro bisogno è essere contenti, il nostro vero bisogno è la felicità. L’unica vera giustizia piena è quella che corrisponde alla nostra esigenza di pienezza; qualsiasi altra idea di giustizia è riduttiva, è una riduzione di questo. Perciò andare fino in fondo è come capire di più noi stessi, la realtà e il bisogno che abbiamo noi, e che hanno gli altri, dell’unica risposta, di che cosa mi corrisponde, perché attraverso questa condivisione, attraverso l’impotenza del mio tentativo, io capisco che quello di cui hanno bisogno è quello di cui ho bisogno io: Cristo.
Se si perde di vista questo, si fa un’Ong come le altre; forse si risponde a certi bisogni, ma con quella riduzione si perde la possibilità di rispondere al vero bisogno. Non è che non occorra rispondere, ma attraverso la risposta al bisogno concreto dobbiamo portare quello che tutti – come noi, avendo lo stesso cuore – aspettano. E come lo possiamo fare? Soltanto se l’abbiamo noi. È questo il livello dove pesca quello che noi possiamo portare: noi lo portiamo, se per primi lo riceviamo, se lo accogliamo dentro di noi. Portiamo a loro lo sguardo di Cristo, solo se noi ci lasciamo penetrare dal Suo sguardo. Altrimenti ogni nostra risposta sarà sempre insufficiente.
Mi colpisce il pensare che Gesù non ha guarito tutti gli ammalati del suo tempo: avrebbe potuto farlo, aveva la possibilità di farlo e non l’ha fatto. Quando sentiamo la nostra impotenza nel rispondere a tutti, non dobbiamo scoraggiarci, perché neanche Lui, che poteva farlo, l’ha fatto. Questo vale anche per noi: quando rispondiamo, quello che possiamo fare è come un segno attraverso cui portiamo tutto. Ma quello che a noi tante volte manca è vedere nel particolare, nel gesto concretissimo, la totalità. Per rispondere al bisogno Gesù ha fatto, a volte, dei miracoli; attraverso quei segni era come dicesse: «Guardate che ci sono io. Guardate che la realtà è più grande di quello che voi avete in testa, e non siete da soli con il vostro nulla: ci sono io qui». Questo rispondeva molto di più al vero bisogno, perché rispondendo al bisogno concreto, rendeva presente quella Sua presenza, che era la risposta totale.
Come dice il Vangelo a proposito della resurrezione di Lazzaro: «Perché non sei arrivato prima?», gli domandano. E lui: «Per poter svelare di più chiaramente la gloria, la verità di Dio che sono io, perché questo si svela di più se lo risuscito adesso che se lo avessi soltanto guarito». E che cosa risplendeva in quel fatto? Chi era Gesù. Perché Lazzaro doveva morire ugualmente, dopo: l’avete forse incontrato per la strada? Attraverso quel gesto voleva fare capire a Lazzaro che non era da solo con il suo nulla, che c’era la speranza non soltanto per questa vita, ma per l’eternità, perché Colui che aveva potuto farlo risorgere in quel momento, lo poteva fare risorgere anche alla fine. Gesù, rispondendo al bisogno, faceva emergere con chiarezza la verità del mondo, la realtà del mondo, cioè costringeva tutti ad allargare la ragione. Tante volte noi abbiamo una concezione anacronistica della realtà: come non ci sono carte geografiche vere, se non quelle che hanno già l’America dentro, così è come se non avessimo ancora aggiornato del tutto la nostra carta come conoscenza del reale: infatti non è vera una carta geografica del mondo in cui non ci sia la resurrezione di Cristo e in cui non ci sia questo Mistero che ha condiviso con noi il nostro nulla. Una realtà senza Cristo non esiste, non c’è, è soltanto una riduzione nostra. Non c’è.
Perciò attraverso il gesto delle Tende noi introduciamo alla realtà totale, attraverso questo gesto di condivisione introduciamo alla realtà. «Tutta l’attività della Chiesa – dice il Papa nell’Enciclica – è espressione di un amore che cerca [attenzione a questo punto!] il bene integrale dell’uomo» (Deus…, n. 20), la totalità del bisogno dell’uomo, e perciò «l’incontro con le manifestazioni visibili dell’amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce in noi dall’esperienza dell’essere amati» (Deus…, n. 17), di non essere da soli con la nostra impotenza. Perciò «la carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale – dice il Papa – che si potrebbe anche lasciare ad altri [questo è molto importante: non è qualcosa che possiamo lasciare ad altri], ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (Deus…, n. 25). Si può portare soltanto assistenza come qualsiasi Ong, ma questo non è la Chiesa. Se noi, attraverso quello che facciamo, non portiamo quello sguardo attraverso cui noi siamo stati guardati, siamo come tutti. Come dice quell’espressione stupenda di don Giussani: «Uno sguardo che dà forma allo sguardo». Questo è il cristianesimo! Non è la ripetizione meccanica di certi atteggiamenti, di certe cose moralisticamente intese, ma il fatto che un uomo è stato come generato da uno sguardo, che lo ha generato così alla radice che dà forma allo sguardo, in modo tale che chiunque – come noi – possa incontrarsi con Cristo, perché questo sguardo è la testimonianza che Cristo è presente ora. Per questo la Chiesa non potrà mai lasciare ad altri – allo Stato o anche a un’Ong – la carità, perché noi non facciamo soltanto assistenza sociale, così come Gesù attraverso i miracoli non faceva assistenza sociale («Ma non vedete? Guardate, le mie opere parlano di me»), perché Gesù sa il bisogno che abbiamo e non lo ha ridotto, sa che quello di cui abbiamo bisogno è Lui, che è la speranza del tempo e dell’eternità. Non abbiamo soltanto bisogni materiali, ma anche il bisogno di affezione, di sentirci voluti bene. «Non di solo pane vive l’uomo».
Per questo fare questo gesto è veramente un’occasione per tutti noi, e perciò dobbiamo aiutarci perché «l’amore – dice il Papa – ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (Deus…, n. 20). Occorre un’organizzazione, dobbiamo organizzare gli eventi, ma questo non sarà mai l’attività della carità della Chiesa, di un cristiano: mai! L’organizzazione è un presupposto, non lo scopo. Poiché il rischio di diventare funzionari dell’organizzazione è sempre in agguato, noi tutti che collaboriamo a questo gesto dobbiamo aiutarci, perché invece che incrementare la certezza della nostra fede, può accadere che essa sia la tomba della nostra fede, rendendoci più scettici.
Questa estate, parlando con un gruppetto di ragazzi, mi ha colpito il fatto che l’essere coinvolti nell’organizzazione di certe iniziative possa diventare non qualcosa che risveglia il nostro io, che ci introduce in un’aria nuova, ma qualcosa che – così presi dall’organizzazione, dai problemi e dalle discussioni tra di noi – diventa la nostra tomba. Viene da piangere soltanto a pensare che quello a cui diamo così tanto tempo, tanta disponibilità, tanta energia, possa essere qualcosa che non ci fa crescere.
Per questo in tutto quello che facciamo dobbiamo esserci, ed esserci con tutto noi stessi. E questo lo possiamo fare, solo se siamo travolti dalla presenza e dall’amore di Cristo. Perché quello che noi dobbiamo portare è ciò che noi abbiamo incontrato, che si sintetizza nella frase di sant’Agostino citata dal Papa: «Se vedi la carità, vedi la Trinità» (Deus…, n. 19). In qualsiasi gesto, qualsiasi persona ci incontra dovrebbe avere l’opportunità di vedere, attraverso la carità, la Trinità, perché è soltanto questa che risponde al vero bisogno umano, che non è altro che desiderio dell’infinito, cioè di Dio, non di un Dio astratto, ma dell’unico Dio: la Trinità.
Di recente in Brasile, a tavola con un gruppetto di amici c’era anche Cleuza Zerbini, che appartiene al movimento dei Senza Terra, formato da tantissime persone. A un certo momento, stavamo chiacchierando su come possiamo darci una mano, lei si sorprende a dire: «Ma come: io sono stata scelta?». «Sì, sì!». «Allora spiegami bene questo». Ho cercato di spiegarle quello che noi abbiamo sempre imparato da don Giussani, vale a dire, che l’elezione è il metodo di Dio, che Dio sceglie alcuni per arrivare – attraverso di essi – a tutti. Per facilitarle la comprensione, sono partito dal dipinto di Caravaggio, che mi piace tanto, “La vocazione di Matteo”, con Matteo che sembra dire: «Ma, proprio me?!». A un certo punto mi rendo conto che lei aveva incominciato a piangere, commossa che a lei fosse stato dato questo. Per me è stato come vedere nel presente quello che raccontavo della Visitazione: uno si sente commosso fino al midollo perché il Mistero ha condiviso il suo nulla.
Con questo gesto così concreto, così a volte faticoso, delle Tende, nella risposta ai bisogni concreti che vediamo, vogliamo portare qualcosa di questo amore, di questa commozione, di questa gratitudine per quello che a noi è stato dato.

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