Ripartire dalla gratuità che ci crea
Per capire la verità della vita e capire come ci è chiesto di viverla, bisogna sempre partire dall’origine, e l’origine di ogni cosa è une gratuità, è la gratuità, quella che ci ha fatto e ci fa, quella che ci ha generato e che ci genera, quella che ci ha dato e ci dà la libertà. Ripartire in un cammino è possibile solo ripartendo dalla consapevolezza della gratuità che origina tutto, da quella ragione di tutto che è senza ragioni, o piuttosto senza altre ragioni che se stessa
Questa gratuità è e può essere solo in Dio. Dopo la gratuità di Dio, c’è solo risposta, c’è solo responsabilità. Ma la parola più giusta è “accoglienza”. Dopo la gratuità di Dio, origine di tutto e di tutti, c’è solo l’accoglienza. Ma è sbagliato dire “dopo la gratuità di Dio”, perché non c’è un “dopo” là dove la gratuità è da sempre e per sempre, eterna. Ma per noi c’è il tempo, cioè quello spazio di coscienza in cui possiamo intuire che siamo originati, creati, che non c’eravamo e che ora ci siamo.
Il tempo allora è anch’esso un dono della gratuità originale, perché il tempo ci permette di renderci conto che siano originati gratuitamente e personalmente, come altro da Colui che è la nostra origine. Il tempo è per noi memoria costante dell’origine, memoria che siamo fatti, ma una memoria che cammina, per così dire, che si muove, è quindi da riprendere sempre di nuovo. Ogni istante di vita, è come se dovessimo riaccorgerci che siamo fatti, che siamo creati, per cui ogni istante dovrebbe essere per noi una sorpresa, come un sussulto di sorpresa per il fatto che siamo originati gratuitamente. E se non c’è questa sorpresa, il tempo che passa è come sprecato, vuoto, senza memoria; o piuttosto: una memoria vuota. In fondo è sbagliato dire, quando si invecchia, che si perde la memoria.
Non si perde la memoria perché non ci si ricorda più del passato, ma quando non si è più sorpresi di esistere ora, cioè non si è più coscienti di essere fatti gratuitamente in questo istante. Ci sono persone che hanno perso la memoria del tempo ma che sono piene di memoria dell’eterno.
Accoglienza: memoria della gratuità
L’accoglienza, dunque, è questa memoria della gratuità originaria dentro il tempo. È quel dopo l’Origine che rende l’Origine contemporanea al tempo che si vive, e quindi contemporanea a quello che si vive, ai rapporti che si vivono, al gesto che si fa, alla parola che si dice, al pensiero che si ha.
La prima e fondamentale accoglienza è dunque l’accoglienza della gratuità di Dio, ed è un’accoglienza che coincide con l’accogliere se stessi, con l’accogliere la creazione tutta, con l’accogliere tutto l’universo, con l’accogliere l’essere. Ma per ognuno, l’accoglienza dell’universo inizia, si coagula, nell’accogliere se stessi, perché se non ci si accoglie se stessi da Dio, viene meno la coscienza della gratuità di tutto il resto. Però l’accoglienza di sé è vera se coincide con l’accoglienza della gratuità che ci fa. Si accoglie se stessi se si accoglie l’amore di Dio.
Parto da queste considerazioni perché in tutte le vostre domande è soggiacente il desiderio di una ripresa, la consapevolezza della necessità di una continua ripresa, della necessità di une continua ripresa del cammino, e questo coincide col bisogno di orientarsi sempre di nuovo. Ora, per noi, lo scopo che ci orienta coincide con l’origine, e se non coincide con l’Origine che ci fa, il cammino non ha più consistenza, diventa paludoso o sabbioso, si illude e sogna, gira su se stesso, abbeverandosi alle cisterne avvelenate della pretesa e del volontarismo, che sul principio è generoso, poi scade in delusione di sé e degli altri, e in paura di continuare.
Quando ci si implica responsabilmente in un rapporto, quando ci si lega ad altri, sposandosi o avendo figli, adottando o accettando di assumersi un bisogno, o legandosi ad una comunità religiosa, prima o poi ci si viene a trovare ad un punto in cui ci si sente come sospesi sul vuoto, indecisi se andare avanti o tornare indietro, spesso con paura, o magari con rabbia per essersi impegnati, per aver impegnato la nostra generosità con persone che sembrano non darle alcun valore. Giustifichiamo allora la nostra infedeltà sulla base del tradimento, reale o presunto, di una nostra generosità. Giustifichiamo una nostra infedeltà ad un rapporto col tradimento della nostra generosità. Questo anche e soprattutto quando vediamo che a tradire la nostra generosità non è solo o tanto l’altra persona, ma noi stessi, il nostro cuore che di quella generosità non si soddisfa, che ne ha nausea, che non vi trova più gusto. Gli altri, al limite, sono sempre ancora contenti della nostra generosità, o almeno la sfruttano con esigenze senza fondo; ma il nostro cuore è spinto anche da questo ad esserne deluso.
Questa esperienza della delusione della propria generosità nell’accoglienza dell’altro è una purificazione positiva ed essenziale, perché è la purificazione che provoca il cuore a cercare e trovare la vera origine della sua capacità di amare. Il cuore è per sua natura capacità di amare, ma è nell’atto di amare che salta fuori il difetto, lo “scompenso cardiaco”, che affatica i rapporti e la vita.
Se però la fatica della delusione ci spinge solo ad una purificazione di noi stessi, non riprendiamo davvero il cammino, non facciamo l’esperienza di una novità. Anche i pagani purificano se stessi. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una purificazione del rapporto con l’Origine e il Fine di quello che facciamo. Abbiamo bisogno di ritrovare la verità del rapporto con l’Origine e il Fine di quello che siamo per rinnovare il rapporto con l’Origine e il Fine di quello che facciamo, di quello che viviamo.
Il contatto con Cristo che ci purifica e rigenera
Cosa ci purifica veramente? È la presenza di Cristo che, toccandoci, ci purifica, perché Cristo è l’Origine e il Fine dell’essere che si è fatto presente nella nostra vita, che ci tocca. Tutto il Vangelo è pieno di esempi di questo fatto, che si impone perché avviene, perché è così, innegabile. Uno è lebbroso, ed è mondato da Cristo, con una parola, con un gesto, con uno sguardo, cioè col segno della sua presenza, con la sua nuda e immediata presenza. E questo vale per il nostro cammino. È la vicinanza di Cristo che purifica, rigenera e rinnova il nostro cammino. Si riparte, in una situazione di arresto, di disorientamento, se ci si lascia toccare dalla prossimità del Signore.
Ma questo significa che se nell’accoglienza che vivo non sono rigenerato, è segno che in quell’accoglienza non accolgo il Signore.
Non dimenticherò mai la prima volta che ho potuto incontrare don Giussani per parlare con lui. Era una sera in via Martinengo e lui era distrutto dalla fatica. È arrivato che si trascinava, ha salito le scale senza fiato, faceva fatica a parlare. Alla fine era letteralmente scattante, come ringiovanito di vent’anni. Perché? Sicuramente perché accogliendo me e la persona che mi accompagnava, non ha accolto solo noi, ma Cristo. Ha toccato Cristo, ha abbracciato Cristo. Per cui, al contrario di come sovente vivo io gli incontri e i colloqui, per lui non era un’ora di fatica in più, una fatica in più da aggiungere a quella di tutta la giornata: era un’accoglienza di Cristo così evidente che fu come se in quell’ora si fossero cancellate tutte le fatiche del giorno.
È caratteristica dell’uomo di Dio, del santo, di non accumulare pesi su di sé ad ogni persona che vede e che incontra. Il santo ad ogni incontro desidera e accoglie l’abbraccio di Colui che lo genera e gli vuole bene, e questo lo purifica e rigenera in lui l’energia del vivere, la letizia nel vivere.
Io, nei giorni in cui sono più distratto e dimentico di Cristo, è come se ogni persona che accolgo e incontro me la caricassi sulle spalle, per cui, se vedo cinque persone, alla fine mi ritrovo con cinque persone sulla groppa, un po’ come l’asino dei musicanti di Brema…
È la fatica di Marta. “Che bello, viene Gesù!” Ma poi, dietro a Gesù, arriva Pietro, Giacomo, Giovanni, fino a Giuda, e poi magari anche le donne che Lo seguono, qualche miracolato che non Lo molla più, qualche fariseo che Lo tampina per incastrarlo. Per cui, il sorriso iniziale nell’accogliere Gesù, a mano a mano che la gente entra in casa, diventa smorfia, lamento, rabbia, così che alla fine Marta perde le staffe anche col Signore.
Il problema della nostra vita è che nell’accogliere l’altro (e c’è sempre un altro da accogliere, anche se non si è nelle Famiglie per l’Accoglienza), il problema è che in tutto non ci lasciamo sempre abbracciare da Colui che ci genera e ci vuole bene. Il problema, e direi il peccato, è che noi ci teniamo lontani da Colui che ci genera e ci ama. Tutta la fatica, tutta la tristezza, tutta la rabbia e la dissipazione, tutta la sterilità e il camminare sul posto, vengono da lì.
Lontani o vicini a Cristo
Mi impressiona sempre la nota di Luca nel racconto della Passione: “Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano” (Lc 23,49).
Il ladrone Gli sta vicino, il centurione glorifica Dio, le folle si battono il petto, e tutti i suoi conoscenti, i suoi compagni, i suoi amici, assistono “da lontano”!
Non so quali furono le vere ragioni di questa lontananza. Forse fu costretta dalle circostanze, forse era saggia prudenza. Ma se confrontiamo questa distanza con la vicinanza alla Croce di Maria, di Giovanni, di qualche altra donna, capiamo che fu anche una scelta, che avrebbero potuto avvicinarsi. La paura, il dubbio, li ha tenuti a distanza. E a distanza da Gesù che muore in Croce, che ama e salva il mondo morendo in Croce, per cui è una lontananza che non solo può far soffrire il Signore, ma che danneggia loro stessi, che li tiene lontani dal Redentore e Salvatore della loro vita. In un modo o nell’altro, dovranno convertirsi da questa lontananza, come hanno cominciato a fare Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e le donne che hanno partecipato alla sepoltura di Gesù.
L’atteggiamento opposto a questa distanza è quello che Gesù ha illustrato un giorno: “Sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse: ‘Chi accoglie questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato’.” (Lc 9,46-48)
Che cosa mette in luce Gesù presentando questo bambino? Tutto è espresso nel gesto di Gesù: “prese un bambino, se lo mise vicino”. Il bambino in questa scena è chi rimane vicino a Cristo, chi si lascia prendere e mettere vicino al Signore. L’opposto dei discepoli che stanno a guardare “da lontano”, che non si lasciano prendere e attirare vicino a Lui crocifisso, come Maria e Giovanni.
La natura del bambino è di lasciarsi prendere da chi gli vuol bene e rimanergli vicino. Il bambino, anche e soprattutto quando è stato “cattivo”, cerca nell’abbraccio di chi gli vuol bene il recupero totale della negatività in cui è caduto. E il bambino intuisce che il recupero non consiste nel suo approccio, ma tutto nell’abbraccio che riceve. Cioè, il bambino non analizza, non calcola le condizioni e le tappe del rapporto: lui pensa al rapporto, chiede il rapporto, l’abbraccio, e ci si abbandona, per cui l’avvenimento rigenerante dell’amore che lo genera può afferrarlo completamente, riprenderlo completamente nel suo ambito.
Nelle scene in cui Gesù accoglie e abbraccia i bambini, l’elemento da imitare è più l’abbraccio che il bambino in quanto tale. Il bambino è un modello nella misura in cui si lascia abbracciare da chi lo genera e gli vuole bene. È questo il punto, è questa la correzione dell’atteggiamento dei discepoli che stanno discutendo chi è il più grande; è questo il recupero e l’inizio nuovo sempre possibile, è questo che riduce la distanza fra noi e Cristo: lasciarsi abbracciare da Colui che ci genera e ci vuol bene, lasciarsi prendere e porre vicino a Colui che è la nostra origine e che ci ama.
Per questo, ogni nostro bisogno di ripresa, ogni urgenza di riforma, di rinnovamento personale o comunitario, alla lunga si riducono a sterile malumore se non sono riportati al bisogno di aderire a Cristo presente che ci ama. Se il bisogno di cambiare porta a quest’abbraccio di Cristo, allora non ci si limita ad un ritorno al punto di partenza, ma è reale ripresa, dal punto in cui si è, e nulla è sprecato, neanche gli errori commessi, neanche il peccato.
Solo Cristo ha questa capacità di recupero della nostra vita, perché solo Lui è Creatore e Redentore, vale a dire è in persona quella gratuità originale dell’essere che riaccade oggi, nella nostra vita, nella nostra storia.
Accompagnare
In ogni caso, penso che è da questa scena del Vangelo di Luca che dobbiamo partire per capire cosa vuol dire “accompagnare” le persone. Quando si è assieme ultimamente solo per discutere fra di noi, a parole o negli atteggiamenti, su chi è il più grande, è chiaro che non si “accompagna”.
“Accompagnare” infatti è una parola che, se non erro, contiene due preposizioni: ad e cum. L’ad suggerisce il progresso verso qualcosa, una direzione in avanti, verso una meta, verso un destino. Cum suggerisce la compagnia, l’essere assieme. Il tutto dà l’idea di un camminare insieme verso una meta, di un camminare assieme verso altro, verso un Altro.
Per questo, la disputa dei discepoli su chi sia il più grande è contraria alla realtà dell’accompagnamento, e sotto vari aspetti.
Da una parte perché chi vuole essere più grande non sta veramente con l’altro; non sta con nessuno, perché è teso a sorpassare tutti. Uno è solo teso a sorpassare l’altro, a passargli davanti per affermarsi e sentirsi più grande di lui. L’incontro con l’altro, lo stare con l’altro, dura solo il tempo della fase di sorpasso. E se dura a lungo, è solo perché l’altro va forte anche lui, per cui tutto il tempo che gli rimani accanto lo maledici perché non ti lascia passare davanti a lui come vorresti. È una fase infernale per l’uno e per l’altro, che a volte, in certi rapporti, in certi ambiti, può durare tutta una vita.
Se però l’altro è lento, il tempo del sorpasso si riduce a quell’attimo in cui lo guardi, se lo guardi, con disprezzo e boria, il tempo di dirgli: “Te l’ho fatta!”.
Dunque l’ambizione è contraria all’accompagnamento, perché non permette di stare veramente con l’altro, di starci con amore e pace.
Ma l’ambizione di essere più grande è contraria all’accompagnamento anche per un altro motivo: non solo perché impedisce lo stare con l’altro, ma anche perché blocca la tensione verso la meta, il destino. Colui che vuole essere e sentirsi il più grande, non tende più verso qualcosa o qualcuno di più grande di lui. Questo inibisce la tensione dell’accompagnamento, perché l’intenzione della compagnia che fai all’altro è come dirottata su te stesso. E stai con gli altri solo affinché gli altri si pieghino, per inganno o per forza, a prendere te o il tuo progetto come direzione del loro cammino.
Questo ci fa capire che la prima condizione per accompagnare un altro è la rinuncia a volerlo sorpassare, ma anche una purezza e decisione di intenzione, di tensione verso la meta.
Per questo, per accompagnare un altro, l’attenzione all’altro e la tensione al destino devono andare di pari passo, quasi sorreggendosi e correggendosi a vicenda. Non accompagno l’alto se penso solo al suo destino e non a lui, se penso solo alla meta e non ai suoi passi. Non c’è niente di più dannoso nell’educazione che pensare alla vocazione dell’altro senza guardarlo, come quei genitori che desiderano assolutamente avere un figlio prete e poi non si accorgono che il figlio non ha per nulla i requisiti necessari, per cui, alla lunga, anche il figlio non riesce più ad essere cosciente di se stesso, dei suoi limiti, dei suoi veri desideri, dei suoi veri talenti.
In questo la Regola di san Benedetto è di una giustezza incredibile, perché propone sempre lo scopo, e lo Scopo eterno, ma non perde mai l’attenzione concretissima al cammino del fratello, per cui è tutta la persona che viene abbracciata, in un’integralità di sguardo e di amore che è proprio il riflesso del Cuore con cui Dio guarda ogni uomo, perché lo stesso Creatore, e con lo stesso amore, crea il cuore teso all’infinito e lo stomaco che ha fame ogni giorno. Gesù, dopo aver resuscitato la figlia di Giairo, la prima cosa che dice non è di andare al Tempio a cantare un Te Deum ma di darle da mangiare! (cfr. Lc 8,55)
Questa integralità di attenzione, di sguardo, è una verifica da fare costantemente quando si accompagna qualcuno da vicino e dentro una responsabilità. Dobbiamo esaminare costantemente davanti a Dio la nostra attenzione all’altro, esaminarla alla luce di Cristo, del suo sguardo ad ogni uomo.
Provate, per esempio, a leggere il salmo 22 come esame di coscienza dell’accompagnamento che ci è chiesto. “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”: che attenzione all’altro traspare da queste parole. Possiamo chiederci se colui che accompagniamo “non manca di nulla”, e se siamo attenti a questo. Non nel senso odierno dove “non mancare di nulla” vuol dire essere viziati e infelici per la vita, ma nel senso di un amore al dettaglio della vita dell’altro che fa sentire all’altro che è davvero accompagnato e non solo sfiorato da un bolide che sfreccia a 200 all’ora accanto a lui facendogli mangiare la polvere della strada.
Ma questa tenerezza è appunto animata da una tensione al destino: “Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. (…) Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore [ecco il Destino!] per lunghissimi giorni.”
Vale a dire, il pastore è con te, talmente con te che è attento ad ogni filo d’erba che mangi, ma ti sta accanto per andare con te fino alla casa del Padre, fino al compimento della tua vita e del tuo cuore.
Lo sguardo pastorale, o paterno e materno, nel cristianesimo è uno sguardo al tuo destino di eternità che passa attraverso l’attenzione ad ognuno dei tuoi passi.
Lasciarsi accompagnare
Questo sguardo è possibile se uno è stato guardato così, se è guardato così, se si lascia guardare così. La Chiesa, in un modo o nell’altro, ci accompagna tutti e sempre, se glielo permettiamo. La maturità nella vita ecclesiale consiste dal lasciarsi accompagnare fino a ritrovarsi capaci di accompagnare gli altri, quasi senza accorgersene, come il traboccare di un essere amati che, invece di impantanarsi nell’infantilismo, viene a desiderare la responsabilità, non come peso, ma come compimento e fecondità della propria persona. Uno che ha fatto l’esperienza del buon pastore che conducendolo al Destino non gli fa mancar nulla, non può non desiderare di essere come lui. Non si accontenta più di essere amato, ma vuole amare. E se capisce che è stato amato da qualcuno che per lui ha perso la vita, anche il perdere la vita diventa affascinante, un tesoro da non lasciarsi sfuggire.
La “convenienza” per chi accompagna, è questa. San Paolo era intriso di questa consapevolezza nei confronti di tutte le sue comunità. “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno” (Fil 1,21). L’amore di Cristo, sperimentato in chi ti accompagna teso al destino e attento a tutti i tuoi passi, rende conveniente anche la morte pur di vivere questo. E la “morte”, la perdita della vita, per il buon pastore, per chi accoglie e accompagna, comincia là dove invece di fuggire in avanti, invece di sorpassare, rimane lì, accanto all’altro che avanza come può, o che spesso sembra non avanza per niente. Ma se tu stai lì, rimane oggettiva per lui almeno l’indicazione al Destino.
Per inciso: il problema del carrierismo nella Chiesa non sta tanto nella mancanza di umiltà, ma nel mancare di carità. Perché, per esempio, un prete che vive per far carriera, immancabilmente non starà veramente accanto alle persone o alla comunità che deve accompagnare. Ci sta per un po’, ma “gasando” già per sfrecciare lontano. Invece, è veramente autorevole chi si ferma anche col proprio desiderio di pienezza di vita accanto a chi il Signore gli affida per camminare verso il Destino. Non rinuncia così alla pienezza della vita, perché fa propria quella di Cristo.
Io credo che è proprio questo l’apporto specifico di realtà come le Famiglie per l’Accoglienza al “rifondarsi” del cristianesimo e della vita della Chiesa. Le realtà ecclesiali che salvano il mondo d’oggi sono quelle che, come il buon Samaritano, si “fermano” e “si fanno vicine” all’uomo che sta lì, per terra, distrutto dal male (Cfr. Lc 10,30-37). Tutti sorpassano l’uomo ferito, che poi è l’uomo tout-court. Lo sorpassano evidentemente i briganti che lo malmenano, lo sorpassano le persone importanti, i “sacerdoti” del potere, della scienza e dell’economia. Solo il Samaritano si ferma e si fa vicino, poi se lo carica sull’asino, e l’accompagna, attento ad ogni ferita, ad ogni contusione.
Non c’è nulla di più urgente di questo per salvare il mondo d’oggi. Perché è per mancanza di accompagnamento al Destino che nascono problemi e delitti come le manipolazioni degli embrioni, l’aborto, l’eutanasia, la violenza, il terrorismo, tutto. Se invece accade un amore che si ferma e accompagna l’uomo, si rigenera il mondo. Cristo ha fatto così, e manda la Chiesa perché faccia come Lui: “Che è il prossimo di colui che è incappato nei briganti? – Colui che ha avuto compassione di lui. – Va’ e anche tu fa lo stesso!” (Lc 10,36-37)
Se c’è questa decisione di permanenza di compagnia all’altro, allora il riconoscere che “l’accoglienza non la facciamo noi, ma il Signore attraverso di noi” diventa come naturale. Perché l’uomo che veramente si ferma ad accompagnare l’altro, è il primo, anzi: l’unico, ad accorgersi del proprio limite nella capacità di farlo. Chi passa oltre, chi non si ferma, continua ad illudersi di essere il più grande, perché non confronta la sua ambizione col bisogno dell’altro, e neanche col proprio bisogno. Chi si ferma, chi cammina con l’altro, sente più profondamente la ferita dell’incapacità ad amare, per cui col tempo diventa ancora più forte la tensione verso il Destino, versa la meta, come compimento di ogni nostro limite. E più questa consapevolezza, questo sentimento della propria fragilità, si approfondisce, si acuisce, e meglio uno accompagna, perché allora davvero è con l’altro tutto teso ad altro, all’Altro.
L’abbandono al Padre
Per cui è vero che “è l’altro che porta te”, come Gesù fu Lui, anche solo quando fu presentato al Tempio all’età di 40 giorni, o quando fuggivano in Egitto, o quando lo presentarono dodicenne al Tempio, fu Lui che portava Maria e Giuseppe: li portava al significato della vita proprio con la sua fragilità di bambino, con la sua impotenza ad occuparsi di se stesso, o con la sua dipendenza dal Padre, espressa quando ebbe 12 anni: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). È proprio perché chiedeva loro di più che li portava, perché li portava là dove non capivano più, non sapevano più cosa fare, dove andare. Cioè li conduceva ad un abbandono sempre più totale al Padre, come il suo nell’incarnarsi, nel mettersi nelle mani degli uomini, nell’essere in balia di nemici come Erode. Il significato della vita è diventare sempre più obbedienti al disegno misterioso del Padre su di noi e sugli altri, cioè diventare sempre più abbandonati al Padre.
La maturità nell’accompagnare e accogliere l’altro è nella preghiera di Gesù al Padre mentre è in cammino coi discepoli. Gesù, durante la vita pubblica, ha accompagnato i discepoli da vicino, e così pure le folle. Era con loro completamente, eppure era tutto teso al Padre, teso verso l’“Ora” che il Padre Gli destinava, e questa compagnia tesa al Padre ha condotto al significato tutti coloro che hanno almeno voluto seguirlo, anche se per un po’ sono fuggiti, Lo hanno rinnegato e abbandonato.
Per questo, il ritirarsi in preghiera di Gesù faceva parte dell’accompagnamento dei discepoli. Gesù non avrebbe potuto stare con loro senza comunione col Padre, senza preghiera, senza domanda e abbandono al Padre. È questo rapporto che Gli dava anche umanamente la forza e la letizia di accogliere tutti.
Ma questa coscienza non implica solo il continuare ad accogliere e ad accompagnare perché un Altro lo vuole; vuol dire anche che è l’Altro che accoglie e accompagna attraverso di noi. Cioè, uno accoglie l’altro e accompagna l’altro perché fa l’esperienza che è accolto e accompagnato lui dal Signore, attraverso tutte le mediazioni ecclesiali dell’abbraccio di Dio all’uomo.
Se non c’è questa coscienza, questo rapporto col termine ultimo dell’accoglienza dell’altro che è Dio come Padre, come Origine e Fine della vita, non si accoglie veramente l’altro, perché è come se mancasse la dimora, la casa. Non sono io la dimora dell’altro, non sono io la via al Destino, ma io sono uno che è stato accolto e accompagnato prima dell’altro, e la dimora che propongo è quella in cui sono accolto io per primo, e la strada su cui accompagno è quella sulla quale mi lascio accompagnare io per primo. Per cui, malgrado tutti i limiti e i peccati, uno si trova stupito a scoprirsi realmente capace di essere dimora e via per gli altri.
Domenica scorsa cambiavo treno a Zurigo alle sette di mattina, e mi trovo davanti una coppia di giovani, mezzi ubriachi, che visibilmente uscivano dalla discoteca. Ridevano, facevano stupidaggini, sono caduti per terra, gridavano. Ho visto che si dirigevano verso il mio stesso treno e mi sono tenuto ad opportuna distanza. Poi, quando ho visto su che vagone salivano, sono andato avanti per salire almeno tre vagoni più in là. Parte il treno e dopo un po’ la coppia arriva, con altri amici e amiche dello stesso genere e nello stesso stato, e, senza potermi vedere prima, si accasciano proprio di fronte a me. Attimo di disappunto reciproco: il mio di dover viaggiare con gente del genere, il loro di trovarsi davanti un religioso. Ammiccano, con qualche sorrisetto malevolo. Mi dico però subito che se veramente sono arrivati a ficcarsi davanti a me dopo tutto quello che avevo fatto perché non avvenisse, ci doveva essere una ragione, per cui ho pensato al Signore, a come li avrebbe guardati Lui, a come li avrebbe accolti Lui. Per cui, per miracolo, mi ha invaso una grande letizia. Non avevo più paura di loro, delle fesserie che avrebbero potuto dirmi, delle stupidaggini che avrebbero potuto fare, delle provocazioni che avrebbero lanciato. Li ho salutati sorridendo, poi guardavo dal finestrino: una giornata e una natura splendide, piene di gloria. Ho continuo a fare quello che stavo facendo, cioè cominciavo a scrivere quello che vi dico oggi. Cominciano a pormi qualche domanda: “Cosa” sono, cosa faccio, cosa scrivo: - Che lingua è? Ma capisce quello che scrive?! Che scrittura! Vuole fumare? - No grazie. - Perché? - Non mi piace. – Niente fumo… E l’amica ce l’ha? - Non ne ho solo una, ne ho molte. – Ah...! E se faccio un mucchio di stupidaggini, Dio mi perdona? Mi perdona sempre?...
Ma l’importante non è quello che ci siamo detti. Non so cosa hanno capito o preso sul serio. Però, ad un certo, punto per me era evidente una cosa: che quei ragazzi e quelle ragazze erano infelici e sapevano di esserlo; erano delusi dalla notte passata e della vita e sapevano di essere delusi; e era evidente che io ero lieto, e che era la mia letizia che li accoglieva e li accompagnava, perché la letizia che provavo era la pace di avere in Cristo la dimora e il destino della mia vita, e della loro vita, per cui in quel momento ne chiedevo anche per loro la manifestazione, perché ero certo che la dimora c’era anche per loro, e che se il Signore me li faceva incontrare sicuramente era perché voleva compiere il loro destino. Poco dopo sono dovuti scendere. Non so che ne è e che ne sarà di loro. Probabilmente non li vedrò più. Magari alla fine della loro vita non ci sarà stata per loro che quell’oretta scarsa di accompagnamento esplicito al loro destino. Ma se c’è stata, io sono sicuro che si compirà, magari solo per il fatto che hanno sentito che io ero lieto e tranquillo, e loro no, per cui c’è come un seme di domanda, una provocazione a desiderare altro, che sono entrati in loro, e noi sappiamo che a Cristo per salvarci basta un briciolo di desiderio.
Per questo, il “bucaneve” che emerge dalla “spazzatura” del mondo ci viene a sorprendere e stupire nella misura in cui viviamo per incontrare e far incontrare Cristo nei rapporti quotidiani della nostra vita, anche se magari sono proprio quei rapporti quotidiani i più impermeabili alla novità e alla fecondità dell’avvenimento di Cristo. Il “bucaneve” è proprio la conferma che quello che desideriamo per noi e per gli altri, e quindi quello per cui accogliamo e accompagniamo gli altri, e per cui abbiamo bisogno dell’accoglienza e dell’accompagnamento degli altri, proprio quello si manifesta come pienezza quando meno te lo aspetti, come io sul treno con quei giovani balordi.
Voglio dire che dobbiamo contare più sul nostro desiderio di bene per l’altro che sul bene che riusciamo effettivamente a constatare in noi e nell’altro…
La sfida del dolore
L’ultima vostra domanda parla della “sfida” del dolore che è sempre presente nell’accoglienza.
Su questo penso sempre ad una cosa che mi ha detto don Giussani una volta che l’ho incontrato avendo sul cuore una grossa sofferenza riguardo a un confratello. Gli dicevo che capivo che per essere padre bisogna soffrire. Ma lui mi ha risposto: “È vero, però non dimenticare che la paternità è sempre più grande della sofferenza che provoca in noi!” Poi aggiungeva: “Anche per Gesù, l’orizzonte del Padre era più grande che la sofferenza della Croce.”
Ho capito che per lui la sfida del dolore per chi accoglie e accompagna deve richiamare a vivere la paternità da figli, come Gesù stesso viveva la paternità nei confronti dei suoi discepoli e delle folle. Il dolore nell’amare deve richiamarci a rinnovare la consapevolezza di come siamo amati noi dal Padre, e di quanto abbiamo bisogno noi di essere amati e abbracciati da una paternità più grande che la nostra. Gesù, in ogni constatazione di fallimento del suo desiderio di salvezza e di pienezza per tutti, si stringeva al Padre, fino all’ultimo respiro; “Padre perdonali!” “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!” (Lc 23,34.46).
Il dolore ci sfida a non amare da soli, a non voler amare senza essere amati, senza memoria viva e fiduciosa della gratuità originale e eterna del Padre, della Trinità, così come la compagnia della Chiesa ce l’assicura sempre.
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