sabato 14 aprile 2007

RACCOLTA ARTICOLI


SONO MOLTI GLI ARTICOLI COMPARSI SULLA STAMPA DI OGGI CHE DESTANO INTERESSE
LI INSERISCO QUI SOTTO.
Se qualcuno vuole segnalare articoli lo faccia.
Se i lettori sono colpiti da qualcosa in particolare lo segnali ,se volete mandare vostre storie o testimonianze fatelo .
Sicuramente il blog diventerebbe un maggior strumento di approfondimento.
Se Fausto toglie il quadro della Madonna che vince
LIBERO 13 APRILE 2007
Al caffe’ dell’ateismo
Il Foglio 13 aprile 2007
L'altro genocidio :GLI ASSIRIstyle="color:#009900;">Tempi num.15 del 12/04/2007
Nell'ombra di un dipinto amato per vent'anni gli occhi di un figlio che nemmeno era nato
Premio Attila per l'istruzione alla Cgil che ha trasformato i prof in burocrati


Al caffe’ dell’ateismo
Il Foglio 13 aprile 2007
Gran serata a Londra con Scruton, Hitchens e Dawkins a parlare di religione. “La fede è come un ciuccio” ha detto il biologo evoluzionista. “Non sei altro che un bigotto oscurantista” la risposta del filosofo

Roma. Prendi un vanitoso rottweiler di Charles Darwin, un pugile ateista che porta il figlio in vacanza nel Kurdistan iracheno e un apologeta dell’illuminismo ratzingeriano. Mettili in uno dei più celebri templi metodisti di Londra, la Westminster Central Hall, sotto lo sguardo di duemila persone. E otterrai una delle fiere del pensiero più entusiasmanti degli ultimi anni. Loro sono Richard Dawkins, autore del bestseller “The God delusion”, il giornalista inglese Christopher Hitchens e il filosofo eduardiano di Princeton Roger Scruton. Il tema della serata era quanto vivremmo meglio senza la religione. Alla fine del dibattito il pubblico ha votato e a vincere sono stati gli ateisti, 1.205 contro 778, al motto di “meno Dio”. Secondo lo Spectator, che ha seguito l’evento, è stata la dimostrazione che l’ateismo è la nuova religione, con tanto di pulpito dice il Wall Street Journal. Novello Stirner con l’ossessione per le missionarie cattoliche, Christopher Hitchens a maggio pubblicherà “Dio non è grande. Come la religione avvelena tutto”. Nel suo inglese molto charming, che a dire il vero funziona molto meglio quando racconta i peshmerga di Jalal Talabani, Christopher “Hellbound” Hitchens ha spiegato che “da Baghdad a Beirut, da Bombay a Belfast, da Belgrado a Betlemme, da Bali al Bangladesh”, il massacro degli innocenti è sempre ispirato dalla fede. “Just say Bosnia”: così il columnist che vive a Washington ha tentato di liquidare come sediziosa e inquinante la dimensione religiosa.
La differenza principale fra Scruton e Hitchens non è solo il rapporto col comunismo, con il primo che finanziava i dissidenti a Praga, da cui veniva espulso, mentre il secondo si diceva “trotzkista”. A differenza di un conservatore inattuale come Scruton che si confronta sempre con questo mondo, un libertario attualissimo come Hitchens dimostra di vivere in un universo sospeso e presecolarizzato, in cui lo stato minaccia di tornare “cristiano”, la religione è una “barbarie medievale” che ha “ritardato lo sviluppo della civiltà”, la destra religiosa minaccia le libertà civili e il muro di separazione di stato e chiesa è diventato un nostalgico ricordo. Secondo Hitchens viviamo in un mondo di “equivalenti fondamentalismi”, nessuno migliore dell’altro. Da esperto materialista che cita Jefferson e Russell, Voltaire e Paine, Hitchens ha detto che “la fede non viene dalla rivelazione, è creata dall’uomo”. E’ arrivato a dire che “il fascismo è stato sostenuto dalla chiesa cattolica”. Si è salvato quando ha detto che stalinismo e khmer rossi erano fenomeni religiosi, “dove si decide chi è degno di vivere e chi no”. Ha però dimenticato di aggiungere che sta qui la differenza fra i cristiani evangelici e l’islamismo. “L’ateismo è la sola condizione necessaria per una conversazione sulla moralità”.

Il “virus” e l’evoluzione
Teorico del “virus della religione”, Richard Dawkins si è detto d’accordo con Hitchens nell’elencare i mali odierni della religione: “Il terrorismo in medio oriente, il sionismo, il genocidio in Yugoslavia, il sovvertimento della scienza in America, l’oppressione delle donne in Arabia Saudita e la chiesa cattolica romana”. Dopo aver paragonato il cristianesimo paolino alle molestie sessuali, Dawkins ha definito la fede come un ciuccio, una tettarella: “Non penso sia una postura dignitosa per un adulto andarsene in giro attaccato a un ciuccio”. Si è rivelato per quello che è, uno spaccone con il fiuto della pubblicità, un eccellente raccoglitore di applausi, uno stuntman dell’ateismo, un formidabile zelig dello scetticismo. “Trova sempre minoritaria la gloria di Dio rispetto al mondo della scienza”. All’obiezione di un rabbino secondo cui senza la religione non avremmo avuto neanche Michelangelo, Dawkins ha risposto: “Well, quando fu dipinta la Cappella Sistina voi sapete chi aveva i soldi. E gli artisti devono pur vivere”. Secondo il biologo evoluzionista la religione è solo “esortazione e consolazione”. Un’illusione.
Quando lo stilista del pensiero Scruton, giocando con l’ossessione biologista del dogmatico Dawkins, ha detto che un “gene religioso” è presente in ognuno di noi, il biologo ha alzato la voce, generalmente mite, oxfordiana: “Parla per te, quel gene non c’è nella maggior parte dei miei colleghi universitari”. Quella di Hitchens è “l’illusione dell’ateo”, ci ha spiegato Scruton, Dawkins è “bigotto”. La religione secondo il filosofo inglese, orante da ascoltare per ore senza mai stancarsi, coinvolge tre fenomeni diversi, ma legati tra di loro: rito, appartenenza e fede. “Una religione include parole, gesti e cerimonie, che devono essere esattamente ripetute e che definiscono il cuore dell’esperienza del sacro. Questa esperienza è uno strano sedimento nella coscienza umana; potrebbe avere una causa evoluzionistica, ma le cause non ci dicono cosa significa. Una religione definisce una comunità. Gli esseri umani hanno fame di questo tipo di appartenenza e il potere della religione consiste nel saperla dispensare. E’ naturale per l’essere umano credere che quelle parole si trovino al di là di questo mondo, in quella regione che chiamiamo ‘trascendente’”.
I greci la situavano sull’Olimpo. “Sì, ma i loro filosofi erano più inclini a pensare che fosse al di là dello spazio e del tempo. Fu questa idea a prevalere. Gli antropologi vedono questa fede nella divinità come uno sviluppo del rituale. Ed è certamente plausibile. La religione dell’antica Cina era più o meno così. E in un certo senso anche Roma. Ciò che è sacro diventa simbolo di una ‘vera presenza’. Non parlo solo della cristianità, Apuleio ne ha dato una bellissima descrizione e Mozart nel Flauto magico. La sopravvivenza della religione ha a che fare con la propria verità. Ma riferirsi alle antiche idee di destino, del sacro e di ciò che è intoccabile non ha la benché minima influenza su coloro che pensano che la biologia contenga l’intera verità della condizione umana. E’ la ridicola caricatura della moralità che vediamo nell’utilitarismo. La realtà diventa apparenza, la libertà umana sovrana indifferenza, implacabile casualità. Attraverso Dio, l’illusione diventa realtà, non siamo solo consolati, ma redenti”.
Scruton fa il caso che qualcuno dicesse che vivremmo meglio senza l’amore. “Dopo tutto, spesso l’amore tende a fare disastri: penso a Elena e Paride, porta alla gelosia, all’ossessione e alla vendetta. Risponderemmo che l’amore è un bene in sé, ciò che è importante è imparare ad amare correttamente. Ma prima dobbiamo imparare a capire cosa ‘noi’ siamo”.

Stalingrado e la ragione umana
Per Dawkins, teorico dell’uomo come macchina genetica, la religione appartiene a un mondo pre-razionale: “Secondo la visione darwiniana la mente umana è suscettibile alle infezioni proprio come un computer” spiega Dawkins. “Il cervello è programmato tramite la selezione naturale a obbedire e a credere a ciò che i genitori e agli adulti gli dicono. Il cervello del bambino è molto suscettibile all’infezione religiosa”. Ha quindi concluso dicendo che “il mondo sarebbe un posto migliore se la morale fosse fare del bene e non nuocere all’altro, non l’ossessione per il peccato e i mali della gioia sessuale. L’ateismo è legato a una alta istruzione, all’intelligenza e alla riflessione, che si oppongono a un comportamento criminale”.
“E’ una visione oscurantista della ragione umana” replica Scruton. “L’ateismo trova la propria dimostrazione a Stalingrado. Per rispondere a Dawkins e ai suoi seguaci, abbiamo bisogno di mostrare che la nostra natura non è adeguatamente rappresentata dalla sua teoria del ‘gene egoista’, che la religione non è un virus irrazionale ma una dottrina che ha a che fare con la verità, anche se la verità va al di là del mondo empirico. La scienza, la matematica e la logica non sono le uniche sfere in cui la ragione rivela se stessa. Come esseri umani cerchiamo delle cause, ma anche dei significati. Abbiamo principi morali, gusti estetici, visioni e aspirazioni che chiamiamo ‘spirituali’. Queste cose non sono irrazionali, anche se facciamo fatica a trovare loro una giustificazione logica e razionale. E’ solo l’essere razionale che fa una simile esperienza del mondo, in termini di significato, come tensione fra la vita e gli ideali. Il sorriso è sempre qualcosa di più della sola carne”.
Contro Dawkins, Scruton non pensa che la teoria dell’evoluzione abbia dimostrato che la ricerca di un significato è solo una chimera. “La nostra storia genetica ci insegna a sacrificarci per i nostri figli e non il contrario, a guardare alla forma umana come qualcosa da trattare con venerazione e non come un oggetto di manipolazione, ci insegna che l’uomo è irripetibile e non un clone. Come esseri razionali guardiamo al mondo in termini di connessioni, armonie e simmetrie, vogliamo che il mondo abbia un senso e non solo secondo le leggi fisiche e di natura di uno scienziato, ma anche secondo le leggi dell’armonia di un musicista. E’ la cristianità che ha precorso l’illuminismo, non l’illuminismo come residuo della cristianità. E’ il Dio del monoteismo: un soggetto autocosciente che si confronta con gli altri direttamente, elevandoci al livello della realtà trascendente a cui naturalmente aspiriamo. E’ nell’incontro con altri soggetti che si trova il nostro divenire uomini. La nostra ragione sovrasta i confini della scienza e questa non è una deficienza della ragione, ma della scienza stessa. Come esseri razionali distinguiamo fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, fra il bene e il male, la virtù e il vizio. Dalla finestra del mondo empirico ci affacciamo sul trascendente. Ha ragione Hitchens, la religione che sprona ad abbracciare le armi è una minaccia per tutti noi. Ma per la maggior parte degli esseri umani la religione è sempre stata l’umiltà davanti al volto della creazione”.

Se Fausto toglie il quadro della Madonna che vince
LIBERO 13 APRILE 2007

di ANTONIO SOCCI
«Chi controlla il passato», diceva George Orwell, «controlla il futuro». Per questo i comunisti sono sempre stati molto disinvolti nel riscrivere la storia a proprio uso e consumo e magari nello "sbianchettare" le immagini scomode del passato. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha "rimosso" dalla sala di Montecitorio dove riceve (...) le delegazioni una tela rappresentante la battaglia di Lepanto, quella vittoria cristiana che nel 1571 ci salvò dall'invasione turca. Pare che Bertinotti ne fosse imbarazzato per spirito pacifista. Ma che accadeva se nessuno si opponeva loro? Lo si vede nella cattedrale di Otranto, in Puglia, dove si conservano le ossa degli 800 uomini (per primo il vescovo Stefano Pendinelli) a cui i saraceni di Maometto II, 90 anni prima di Lepanto, tagliarono ferocemente la testa, mentre i loro figli e le loro mogli finirono in schiavitù. Il 15 marzo 1570, alla vigilia di Lepanto, l'impero turco, smanioso di conquistare tutto il Mediterraneo, dichiarò guerra anche alla Serenissima invadendo Cipro, territorio di Venezia: «Nicosia», scrive Alberto Leoni, «si trasformò in mattatoio dove furono trucidate con crudele fantasia 20mila persone. I superstiti, 2mila donne e ragazzi, vennero destinati all'harem». E l'altra città dell'isola, Famagosta, subì lo stesso macello con il comandante, Siil grande Marco Antonio Bragadin, che fu torturato orrendamente. Gli tagliarono orecchie e naso e infine fu scorticato vivo: «Non emise un lamento, mormorando il "Miserere" fino a che il cuore cedette quando il coltello del boia era arrivato all'ombelico». È la storia gloriosa di Venezia cristiana. Non rendendo onore a questo passato, l'attuale sindaco di Venezia, Massimo Cacciari (oltretutto post-comunista), è arrivato a dichiarare che è stata la religione cristiana, non l'islam, che «si è imposta agli altri con la violenza» (parole che fanno indignare). Filosofia pacifista Queste carneficine musulmane preannunciavano cosa sarebbe capitato all'Italia se i turchi fossero riusciti a invaderla. Senza la battaglia di Lepanto e senza quella vittoria dei cristiani non ci sarebbe oggi nessuna democrazia in Italia (ma avremmo qualche sultano al potere). Senza quella vittoria cristiana non ci sarebbe neanche il Parlamento in Italia. Soprattutto - e questo dovrebbe far meditare Bertinotti - senza quella vittoria cristiana non ci sarebbe la sua poltrona di Presidente della Camera. Né la libertà di essere comunisti. Insomma, quella tela sulla battaglia di Lepanto è simbolo della libertà italiana almeno quanto la festa del 25 aprile (in entrambi i casi il Paese era sotto invasione barbarica). Si vuol forse abolire anche il 25 aprile? Hanno dichiarato che la decisione di rimuovere la tela «è stata presa in sintonia con la linea di dialogo e di pace». Con questa filosofia pacifista Bertinotti rischia di prospettare pure l'abolizione del 25 aprile che celebra la liberazione armata dell'Italia da parte dei partigiani e degli Alleati. Perché la vittoria militare del 25 aprile deve essere ricordata con una festa nazionale e di quella di Lepanto imbarazza perfino una tela? Forse perché la prima fu una vittoria (an- che) dei comunisti, mentre quella di Lepanto fu una vittoria tutta cristiana sulla minaccia islamica. Dunque via la tela. Così - fa sapere Bertinotti «si è voluto mandare un segnale di novità e diversità». E quale novità? L'ostilità anticattolica dei comunisti è una novità? È roba stravecchia. Arrivare a rimuovere la tela su Lepanto è un gesto di fanatismo ideologico. I comunisti ormai da tempo cercano di usare l'argomento "musulmani"" in modo strumentale, per dare addosso ai cristiani. Nessun islamico aveva chiesto la rimozione di quella tela (e, nel caso, doveva rassegnarsi: ci volevano invadere! Casomai dovrebbero chiedere scusa). Per non urtare gli islamici dovremmo forse abolire la Divina Commedia (rea di parlar male di Maometto) e poi cancellare tutte le immagini sacre perché l'islam le ritiene "blasfeme"? Il problema in realtà è la Sinistra. Che evoca il "dialogo" con i musulmani per cancellare la memoria cristiana, ma non certo quando lancia battaglie laiciste come quella sui Dico. «Come mai», si è chiesto padre Samir, «quando si è trattato di togliere alcuni segni visibili della tradizione cristiana (il crocifisso, il presepio, ecc...) hanno utilizzato l'argomento dei musulmani da non offendere (come se il presepio fosse un offesa per loro!), e quando si tratta di questioni così fondamentali per loro (come la famiglia e i Dico) non se ne parla?». Questo mondo progressista «li sta strumentalizzando, utilizzandoli per confortare una sua opinione solo quando fa comodo. Questo non è rispetto, ma manipolazione». Peraltro "censurare" Lepanto è pure sintomo di ignoranza storica. Un celebre protagonista di quella battaglia, Miguel de Cervantes, disse che quel 7 ottobre fu uno dei giorni più grandi della storia del mondo. Lo storico Fernand Braudel scrive che «la vittoria segnò la fine di una miseria. La vittoria cristiana sbarrò la strada a un avversario che si annunziava molto oscuro e vicino. Prima di far dell'ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragione- vole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme». Lepanto è diventato un tabù per i comunisti perché ricorda 14 secoli di minaccia islamica e di tentativi di invasione dell'Europa. E perché a opporsi oggi all'aggressione islamica (che punta sempre a fare di noi l'Eurabia) sono gli odiati (dalla Sinistra) "amerikani". Inoltre perché nel 1571 era stato il papa Pio V a coalizzare i (divisi) sovrani dell'Europa nella Lega Santa e a organizzare la difesa. E fu lui a organizzare anche un immenso esercito di preghiere con le Confraternite del Rosario. Il Papa - che seppe misteriosamente della vittoria quel giorno stesso (si dice che ebbe una visione della Vergine) - proclamò da allora il 7 ottobre "Festa della Madonna del Rosario" o anche "Santa Maria della Vittoria". Un evento storico clamoroso: il Papa letteralmente salvò l'Italia (e l'Europa) grazie all'aiuto della Madre di Dio. Fu una delle "ingerenze"" con cui la Chiesa ha protetto da secoli l'Italia e l'Europa dall'orrore e dalla distruzione (come nelle elezioni italiane del 1948). Dev'essere questo che urta oggi i comunisti che accusano di nuovo il Papa e la Chiesa di "ingerenza"". Sì, è vero: la Chiesa ha sempre difeso l'Italia. Campagna di odio Proprio mentre scrivevo queste note ho ricevuto una mail da un certo "Centro culturale Lepanto" che, con toni assai polemici, afferma: «In questi ultimi tempi, le forze laiciste hanno lanciato una nuova e più grave campagna di odio contro la Santa Chiesa Cattolica ed il suo Pastore Benedetto XVI. Giornali, libri, televisioni, pellicole cinematografiche, cartelloni e spot pubblicitari rovesciano continuamente torrenti di calunnie, accuse, insulti e derisioni sul Papa, sul Clero e sull'intera Chiesa, pretendendo d'isolarla, emarginarla e metterla a tacere... Questa campagna di odio cerca d'intimidire i cattolici, spingendoli a relegarsi nel chiuso delle chiese e a rinunciare a testimoniare e difendere la Fede nella vita pubblica. È una campagna che potrebbe preludere a quella persecuzione violenta descritta nell'ormai noto "terzo segreto" di Fatima». Infine però gli estensori ricordano la protezione della Madonna. Certa come nel passato. Post scriptum : per il 30 aprile prossimo, festa di S. Pio V, pare che Benedetto XVI voglia promulgare il "Motu proprio" che restituisce alla Chiesa la sua grande liturgia latina, detta appunto "di S. Pio V". Il Papa di Lepanto, che salvò l'Italia anche con la forza del Rosario. Storia da meditare anche per i cattolici. www.antoniosocci.it


Premio Attila per l'istruzione alla Cgil che ha trasformato i prof in burocrati
Tempi num.15 del 12/04/2007

di Israel Giorgio

Confesso che mi era sfuggito che i vecchi "sindacati scuola" e "sindacati università" della Cgil si erano trasformati nella "Federazione dei Lavoratori della Conoscenza", una denominazione che dovrebbe suscitare ilarità e trascinare nel ridicolo chi l'ha pensata e messa in circolazione, se non fosse che essa esprime il peggio di ciò che i sindacati hanno fatto e continuano a pretendere di fare nei confronti del sistema dell'istruzione. Difatti essa esprime la pretesa di non occuparsi soltanto di questioni salariali e relative alle condizioni di lavoro dei dipendenti, ma di voler dettare legge sui contenuti della "conoscenza", dalle modalità di valutazione dei docenti fino ai programmi d'insegnamento. Basta leggere le recenti proposte della Federazione dei "conoscenti" per l'università: riemerge la pretesa di indicare come debbano essere riformate le procedure dei concorsi, l'articolazione del corpo docente, fino a proporre una nuova infornata di decine di migliaia di "precari". Insomma, l'ennesimo "ope legis" per sventrare definitivamente l'ormai boccheggiante università. Che non si conferisca a costoro il Premio Attila per l'istruzione, ex aequo con i professori Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro: questa è la vera ingiustizia italiana.
Di recente il Corriere della Sera ha intervistato un docente, il professor Franco Camisasca, persona degnissima, animata da un'inesauribile speranza nel futuro, merce ormai rara nella nostra scuola: «A scuola - ha detto - se non hai la speranza non sei niente». Ma la speranza non vela la durezza dei giudizi: «Ci sono i sindacati, che per gestire dei cambiamenti che altrimenti non riuscirebbero a controllare ci hanno fatto diventare dei burocrati». E aggiunge: «Siamo stati costantemente depotenziati. Gli esami di riparazione sono stati sostituiti con i "debiti" che si possono saldare con comodo ad aprile, quando è chiaro che nessuno boccerà più per i "peccati" commessi nell'anno precedente. Non funziona, ma è anche impossibile tornare indietro». L'altro giorno un suo allievo gli ha chiesto se abbia ancora senso studiare Manzoni nel 2007. E il compagno di banco è andato giù ancora più pesante: «Con internet voi professori che ci state a fare? - Ma le domande erano entrambe buone».
Ma come "buone"? Sono due domande semplicemente cretine! Naturalmente non è colpa degli studenti, ma del conformismo dilagante che ficca loro in testa simili scempiaggini. Cosa ci sta a fare un professore? A destare lo spirito critico e a far amare la letteratura, a spiegare che internet senza cultura è niente, un gigantesco ammasso di pagine gialle utilissimo soltanto a chi ha acquisito gli strumenti per orientarvisi. Intelligenza artificiale: mentre scrivo sul computer "Manzoni", l'idiota correttore automatico me lo corregge in "Canzoni". E perché mai dovrebbe essere impossibile tornare indietro? Ecco una malattia tutta italiana. In Francia, quando ci si è accorti che la riforma delle "matematiche moderne" non funzionava si è tornati indietro, e ora ancor più indietro con l'introduzione del calcolo numerico mentale negli asili. Se camminando su un sentiero si finisce su un dirupo è saggio tornare indietro, non mettere il piede avanti a tutti i costi. Ma già, tornare indietro è reazionario. Bisogna sempre essere progressisti e "andare avanti". Come dice la canzone: «Avanti, avanti il gran partito, noi siamo dei lavorator». Della conoscenza, s'intende. Chissà quando riusciremo a liberarci dal timore di essere marchiati come reazionari dalla consociazione dei progressisti della conoscenza e dei pedagogisti rivoluzionari.

L'altro genocidio :GLI ASSIRI
Tempi num.15 del 12/04/2007
Almeno 275 mila persone massacrate tra il 1914 e il 1920.
In margine alla tragedia di armeni e greci, il dramma di un altro popolo cristiano. Gli assiri
di Stefanini Maurizio

Nel dialetto siriaco occidentale, quello che viene direttamente dall'aramaico parlato da Gesù, si dice "Sayfo"; in siariaco orientale, quello oggi più parlato, la parola è invece Saypa-. Significa letteralmente "spada", ed è il termine che gli assiri, cristiani di lingua siriaca del Medio Oriente, usano nel senso in cui in ebraico si dice Shoah. Non genocidio, un genocidio, ma il genocidio, il loro: il massacro di almeno 275 mila persone che avvenne nell'allora Impero Ottomano tra 1914 e 1920, in margine al genocidio di altre due importanti popolazioni cristiane autoctone, gli armeni e i greci. Solo che la Grecia ha sempre mantenuto la memoria di quello che ai sensi della storia fu soprattutto uno scambio di popolazione, e poi il massacro dei 375 mila greci del Ponto e l'espulsione di un altro milione e mezzo di greci e cristiani di lingua turca dall'Asia Minore e da Costantinopoli fu nel Trattato di Losanna in parte "compensata" dall'espulsione di mezzo milione di musulmani dal territorio greco. E anche gli armeni, la cui strage fu collocata dagli Alleati a una media di 800 mila vittime tra il minimo di 350 mila riconosciuto dai turchi e il massimo di un milione e mezzo rivendicato dagli stessi armeni, hanno finito per vedere per lo meno riconosciuto il loro dramma. Anche se i crimini contro di loro restano impuniti, e se la storiografia ufficiale turca parla ancora di "scontri interetnici".
Degli assiri, invece, non sa niente nessuno. Solo lunedì 26 marzo per la prima volta il loro dramma è arrivato al Parlamento europeo: e non direttamente in aula, ma in un convegno ospitato presso la conference room dello stesso Parlamento a Bruxelles. Promotori del convegno le federazioni degli assiri di Germania, Svezia e Paesi Bassi, paesi dove c'è una diaspora influente (35 mila in Svezia, 23 mila in Germania e 15 mila in Francia). Tra gli oratori c'era anche una rappresentanza di eurodeputati lodevolmente trasversale e David Gaunt, uno storico svedese autore di una storia del genocidio dei cristiani assiri, caldei e siriaci nella Mesopotamia settentrionale durante la Prima guerra mondiale: un lavoro pionieristico compiuto integrando fonti scritte turche, russe, tedesche, francesi e arabe con la memoria oralmente tramandata dei sopravvissuti.
Assiri, caldei e siriaci, appunto. I primi sono tecnicamente i membri di quella chiesa di lingua liturgica neo-aramaica che aderiscono a quella teologia nestoriana che nega alla Madonna il titolo di Madre di Dio, ritenendo che in Gesù la componente divina "abitò" in quella umana "come in un tempio". I caldei sono il ramo della stessa comunità che, mantenendo la propria autonomia organizzativa e liturgica, è tornato in comunione con Roma. E i siriaci, di identica lingua liturgica, risalgono invece alla corrente monofisita, che all'opposto dei nestoriani vede in Gesù la sola natura divina. Anch'essi comunque ora divisi tra una Chiesa siro-ortodossa e una siro-cattolica. Ovviamente queste per i turchi erano solo sfumature: ammazzarono gli uni e gli altri senza farsi troppi problemi. «Un giorno i musulmani raccolsero tutti i ragazzi dai sei ai quindici anni e li condussero al comando della polizia», ricorda ad esempio un passo del memorandum redatto dal Consiglio nazionale assiro-caldeo nel 1922. «Di lì li portarono sulla vetta di una montagna conosciuta come Ras-el Hadjar e li sgozzarono uno a uno, buttando i loro corpi nell'abisso». Nell'aprile del 1915 gli abitanti del villaggio di Tel Mozilt furono massacrati a fucilate: prima gli uomini; poi le donne e i bambini, dopo un'accesa discussione tra ufficiali turchi e ausiliari curdi su cosa farne. Alla fine del 1915 ci fu un battaglione di 8 mila soldati che si guadagnò il nomignolo di "battaglione macellaio" per il modo in cui tolse di mezzo i 20 mila abitanti dei 30 villaggi assiri della provincia di Van. Nel marzo 1918 fu assassinato addirittura il patriarca Mar Shimun XXI Benyamin, capo della Chiesa assira: da un gruppo di paramilitari curdi che gli si erano presentati col paravento di una bandiera bianca. Perfino in Persia gli ottomani sconfinarono a uccidere gli assiri locali: secondo un rapporto inglese, cercandoli nelle case dove i loro vicini musulmani avevano cercato di nasconderli. La maggior parte delle vittime morirono durante interminabili marce di trasferimento verso il deserto, metodo massicciamente applicato anche agli armeni.
Metà della popolazione assiro-caldeo-siriaca prima del 1914 viveva nell'attuale Turchia. Oggi non ne restano che 5 mila, sugli 1,6 milioni di unità che conta questa comunità nel mondo. Anche in Iran non ne restano che 10 mila, e il grosso si concentra in Siria (mezzo milione) e in Iraq (800 mila). In quest'ultimo paese infatti si concentrarono gran parte degli scampati alle stragi in Turchia e Iran, e lì gli assiri al momento della discussione dei trattati di pace dopo la Prima guerra mondiale chiesero di poter costituire un loro Stato. Non solo glielo negarono, ma nel 1933 3 mila di loro furono sterminati in un nuovo pogrom in seguito al quale il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, da tempo attivo sul problema armeno, ebbe l'idea stessa della parola genocidio: tragica premonizione, proprio nell'anno in cui Hitler saliva al potere.
Proprio la mancanza di una propria entità politica ha impedito agli assiri di premere a livello internazionale per il riconoscimento del proprio dramma, a differenza di quanto hanno potuto fare gli ebrei grazie alla costituzione di Israele. Ed è significativo che anche del genocidio armeno la consapevolezza sia cresciuta in concomitanza con la conquista dell'indipendenza da parte della ex repubblica sovietica dell'Armenia. Oggi i paesi in cui è riconosciuto il genocidio assiro sono Stati Uniti, Svezia, Francia e Armenia. Anche in Iraq gli assiri stanno oggi acquistando autonomia e consapevolezza, ma sono d'altra parte oggetto degli attacchi degli integralisti. Quanto alla Siria, nel 2004 il regime ha vietato la commemorazione del 7 agosto: anniversario del massacro del 1933, che è però usato dagli assiri come "giorno della memoria" per tutti i loro lutti. Anche solo accennare a ricordarsene può costare un arresto immediato. E vietatissimo è anche sventolare la bandiera assira: sotto l'immagine alata del dio Assur, un sole giallo al centro di una stella a quattro punte azzurre, da cui irradiano quattro nastri tricolore a rappresentare il Tigri, l'Eufrate e il fiume Zab.



Nell'ombra di un dipinto amato per vent'anni gli occhi di un figlio che nemmeno era nato
Tempi num.15 del 12/04/2007


di Corradi Marina

C'era una volta una ragazza che un giorno, di passaggio da Roma, entrò per caso nella chiesa di San Luigi dei Francesi, dietro a piazza Navona. Non per pregare, giacché non ne aveva l'abitudine; forse semplicemente per trovare un po' d'ombra nella gran luce dell'estate di Roma. Entrata, si accorse di un continuo fluire di turisti verso una cappella laterale, in fondo a sinistra, e siccome era curiosa li seguì. Si trovò così di colpo, ignara e ignorante, di fronte a un Caravaggio. La vocazione di Levi. Illuminato da una luce azionata dagli spiccioli dei turisti, quando una comitiva se ne andava il Caravaggio ricadeva nel buio. La ragazza aspettò un momento di quiete e infilò tutte le monete che aveva nella macchinetta. Il Caravaggio era bello da caderci davanti in ginocchio. Ma soprattutto le incuteva una confusa eppure tagliente nostalgia. Di cosa? Lei non avrebbe saputo, allora, rispondere.
Passarono gli anni, e ogni volta che tornava a Roma la ragazza, ormai donna, passava da San Luigi dei Francesi e con l'andatura certa di chi conosce la strada andava dal suo Caravaggio. Non ne aveva letto niente, non voleva studiarlo. Andava a guardarlo, come si va a trovare una persona. Amava di più, passando il tempo, il gesto della mano di Cristo, tesa nella perentorietà della elezione; e il raggio della luce, a sezionare le tenebre; e il capo chino sulle povere monete del giovane gabelliere sconfitto che nemmeno alza gli occhi su Cristo (il solo, attorno a quel tavolo, disperato. Tanto che la visitatrice si chiese se il gesto di Gesù non additava lui, il figliol prodigo, il perduto davvero, piuttosto che il maestoso bel vecchio che pare chiedere stupito: dici a me?). E nella memoria della donna Matteo, il prescelto, diventò il giocatore disperato, il negletto, quello che non alzava gli occhi.
Ma nella penombra della chiesa la visitatrice non aveva mai avuto modo di distinguerne i lineamenti. Solo oggi, in una grande riproduzione, li ha visti. Con un sussulto del cuore, perché quel ragazzo di Caravaggio ha gli occhi, i capelli, soprattutto lo sguardo, di un suo figlio. E certo può essere per caso che un giovane di cinquecento anni fa somigli a uno del 2007. Più strano scoprire, in fondo all'ombra di un dipinto amato e visitato per vent'anni, gli occhi di un figlio che nemmeno era nato, la prima volta che sei entrata a San Luigi dei Francesi. Non conoscevi suo padre, nemmeno immaginavi di volere essere madre. Ma nel buio di un quadro che t'aveva incantato, c'erano gli occhi del figlio che avresti avuto. Che un po'assomigliano ai tuoi, al tuo sguardo - non ti aspetti niente, eppure, come neanche alzando lo sguardo, speri. Il caso, forse. O forse diciamo caso i frammenti spezzati di un disegno che non osiamo più chiamare col suo nome.






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