martedì 24 aprile 2007

IL FOGLIO 17 APRILE 2007


Giuliano Ferrara e' anche lui colpito dalla figura del nostro Padre terreno.
La gente lo va ad ascoltare. Sono grandi numeri, crescenti. Stupefacenti, in un certo senso. Perché quell'ottantenne ha un corpo piccolo dotato di una grazia più accademica che pastorale.


Il suo modo ieratico c'è, ma è ordinato, rispettabile, lindo, bavarese, amichevole e molto serio, non ha nulla di autoritativo e di splendido nel senso della forza selvaggia dell'ammaestramento sovrumano, vicario e messianico, anzi, non perde mai una certa dolcezza impacciata, un'eleganza rarefatta e quasi mondana, un legame inesorabile, contemporaneo ma antimoderno, con il concetto, la ragione come antidoto agli abusi della logica (tutte cose che un'assemblea di socialisti dell'Ottocento riuniti in un'oasi termale un po' triste, sprezzanti verso il "papa filosofo", non può capire).
È un liberatore. Ci ha liberati dal dominio della chiacchiera, dalla «dittatura della consuetudine», come scrive a pagina 116 del suo nuovo libro su Gesù di Nazaret. Ci ha tolti da ogni forma di soggezione verso la rive gauche dei laicisti al barolo e dei maìtres-à-pen-ser, saldo sulla riva destra del Tevere. Da oltre mezzo secolo è un dominatore nel campo delle interpretazioni, gioca da dialettico di scuola tedesca con i significati e i significanti e la filosofia del linguaggio, si diverte nel labirinto del pensiero come un giocoliere dell'allegoria, ma propone una vocazione semplice, liturgica: cercare la verità, se non la si sia già accolta.

Quando parla d'amore, si sente la forza, e quando esercita la forza della parola, s'intende l'amore. Dialoga ma non annega nella conversazione, nel balletto mimico dell'ascolto perenne; della conversazione trattiene piuttosto ciò che serve alla conversione, che predica con istintiva capacità di persuasione, chiamando in causa il cuore di carne del cristianesimo senza mai tralasciare i diritti della testa.
Agli uomini e alle donne che pensano di salvarsi per conto proprio, e che anzi si fanno misura della salvezza del mondo in nome del moralismo della pace e della povertà, spiega che le Beatitudini sono immensi paradossi bisognosi di una lettura cristologica, ecclesiologica ma anche razionale, che in Cristo c'è un po' della gioiosa epopea omerica, compreso il tuono che disintegra la superbia. Ha l'aria di avere in pugno, umilmente come si addice a un servo dei servi, la lettura più interessante in circolazione della storia del mondo, nella perfetta sottomissione al mistero. Predica, insegna, e non ha paura della bellezza della norma, sebbene appartenga all'esercito bimillenario dei ribelli al vuoto della legge. Tratta Nietzsche da briccone e da disperato, per quante battaglie abbia vinto, e anche se di lui «molto è passato nella coscienza moderna e determina in gran parte il modo in cui oggi si percepisce la vita».

All'apertura del nuovo secolo, per non dire del millennio, niente è più rilevante di questo gigantesco assestamento del pensiero, di questo suo adeguamento alla realtà. Per il resto c'è tempo, ma con Ratzinger e quel che significa andiamo di fretta, e una mansueta papolatria non guasta anche per dei cani perduti senza collare. Auguri.

Il Foglio 17 aprile 2007



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