venerdì 13 aprile 2007

CITATI E LO STILE DELLA CULTURA CATTOLICA



Citati e lo stile della cultura cattolica
AVVENIRE 12 APRILE 2007
Davide Rondoni
Pietro Citati sulla prima pagina di «Repubblica» di ieri lancia il suo grido d'amore e d'allarme sulle sorti del cristianesimo. Mi pare un pezzo scritto con amore nei confronti di una vita in cui egli stesso dice di essere stato educato, e di una tradizione stupefacente di opere dell'ingegno e dell'arte. In estrema e parziale sintesi, il pensiero di Citati è il seguente. Un tempo le chiese erano piene. Si riferisce agli anni '30-'50, gli anni della sua giovinezza. Non c'era una vita culturale cattolica fervida, nè grandi edizioni religiose e nemmeno dibattiti storico-filologici sulla figura di Gesù, come invece oggi abbondano. Ma il popolo allora partecipava, istituzioni e sacramenti parevano più sentiti. Ora, continua Citati, c'è un certo rigoglio di editoria religiosa a cui molti guardano con sincera curiosità spirituale. C'è stato un rinnovamento teologico che, maturato segretamente in quegli anni di metà secolo negli studi di gente come Von Balthasar, Danielou, De Lubac, ha portato alla riscoperta di tante figure e filoni di pensiero che hanno dato un'immagine del cristianesimo più ricca di una realtà secolare varia e difficile da chiudere in pochi stereotipi. E Citati conclude con l'accusa che in Italia in questi anni si sta invece verificando una sorta di nuovo impoverimento: poca teologia, poco studio dei Padri e, infine, poco stile anche letterario negli scritti cristiani, che pur hanno alle spalle autori che sono il fondamento della letteratura. Eppure, egli stesso ammette che non si può parlare di cattolicesimo in crisi, perché, ad esempio, «nessuno ha ancora raccontato l'opera vastissima e capillare delle molte comunità, che formano il cosiddetto laicato cattolico». Alla interessante disamina di Citati si potrebbero obiettare un paio di cose. Ad esempio, che negli anni '30 e '60 -magari in luoghi non sotto gli occhi di tutti - si formavano in Italia personalità di primo piano della cultura cattolica, come ad esempio nel Seminario di Venegono. E, in secondo luogo, la sua mappa forse manca di vedere alcune eccellenze oggi in campo. Ma non è questo il punto. Gli sono grato: la sua "provocazione" coglie nel segno quando vede il rischio che corre il cristianesimo quando sembra proporsi come mera istituzione, come custode di valori morali civili, o quando insegue mode intellettuali. E come lui, già negli anni '40 Paul Claudel si chiedeva come mai troppo spesso il modo di esprimersi di tanti sacerdoti o teologi è così melenso e banale, quando ogni mattina ruminano la grande, tremenda poesia dei Salmi o delle lettere di Paolo. Sono questioni a cui la Chiesa non si sta sottraendo. Lo stesso Claudel rispondeva che la forza di uno stile dipende non dallo stato di salute della devozione popolare (che si esprime anche dinanzi a una Madonnina dipinta con gusto incerto) né dalla assenza di artisti, bensì dalla coscienza che la Chiesa ha di se stessa. Ecco, dicevo, il punto è questo. La Chiesa non ha mai avuto anzitutto la preoccupazione di essere una grande cultura. Né di essere "maggioranza" o "minoranza". E' stata, ed è se stessa quando cerca di adempiere la propria missione: annunciare e rendere "incontrabile" l'evento della persona di Cristo. Cultura e stile nascono da questo "fuoco". Solov'ev fa dire a un suo grande personaggio che quel che abbiamo di più caro è Cristo stesso. Se non si fanno i conti seriamente - segretamente e anche pubblicamente - con lo scandalo di questo annuncio, la Chiesa resta, anche agli occhi del più lucido intellettuale, un fenomeno poco comprensibile. Infine resta anche una domanda. Sembra che il cattolicesimo italiano di cui parla Citati sia quello che viene rappresentato dai media più forti - come quello che lo ospita. Non è che forse, come lui stesso ammette, ben più di un dettaglio manchi a quella rappresentazione?

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