venerdì 17 agosto 2007

ABORTO FORZATO


Pechino: contadina chiede giustizia in tribunale per l'aborto coatto che ha subito

Tratto da il FOGLIO del 11 agosto 2007





Il suo nome bisognerà ricordarselo. Bisognerà ricordarsi di Jin Yani, la ventisettenne cinese che chiede giustizia per l’aborto forzato che le fu inflitto nel 2000, al nono mese di gravidanza, alla soglia del parto.

Fu prelevata nella sua casa, portata a forza nell’ospedale cantonale di Hebei, nei dintorni di Pechino, e lì la stessa iniezione che uccise il suo bambino la rese per sempre sterile. Procedura perfettamente legale, secondo la logica totalitaria che presiede alle politiche demografiche, e non solo a quelle, della Cina popolare. Un paese dove vige l’obbligo del figlio unico. Dove, per avere diritto di partorire, bisogna aver compiuto vent’anni, e Jin Yani era “colpevolmente” rimasta incinta a diciannove. Dove, se non hai ottenuto il nulla osta della Commissione per la pianificazione demografica, può capitarti quello che è successo a lei. Forse l’unica tra tante ad aver trovato, sei anni dopo i fatti, il coraggio di chiedere i danni per l’obbrobrio subito.

Il suo ricorso, archiviato in prima istanza perché tutto si era svolto nella legalità, sarà riesaminato dalla corte d’appello. Solo grazie a questo inaspettato intoppo nell’ordinaria procedura degli aborti forzati in Cina ci troviamo oggi a parlare di Jin Yani, a promettere che ci ricorderemo del suo nome, del suo bambino ucciso, del suo corpo violato e menomato, della sua richiesta di giustizia che ne fa un monumento al coraggio e una campionessa della battaglia per la libertà. Ci piacerebbe, anzi, che il nome di Jin Yani cominciasse a dire qualcosa anche a chi blatera così tanto di “diritti riproduttivi” che finisce per dimenticare quelli umani

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