giovedì 2 agosto 2007

LA QUESTIONE SCOLASTICA:UNA QUESTIONE DI BUONA VOLONTA' O DI ORIENTAMENTO A UNA META?

LA RAGIONE E' DESIDERIO



...."Metto quest'articolo della sorella di Giacomo Contri perche' mi aiuta a capire meglio come tutti gli uomini abbiano in comune lo stesso desiderio.
Credo che cio' che ci accomuna sia proprio il desiderio di felicita',di bellezza.
Accomuna tutti e aiuta a guardarci con piu' amore.
L'altro ,nella sua diversita',ha in comune lo stesso desiderio.
Noi cosa desideriamo dalla vita?
Il senso del nostro svegliarsi alla mattina chi ce lo da'?
Il carburante per farci muovere qual'e'?
Se non capiamo il senso se non sappiamo quale sia la meta come facciamo a condurre il nostro veicolo?
Se non lo conosciamo noi come e' possibile trasmetterlo ai nostri figli.
Cosa significa allora educare?
Stare con i nostri figli,perdere le notti,sostenerli,....come e' possibile farlo se non andiamo noi a fondo del nostro vivere.
I primi a dover essere educati siamo proprio noi.
E' il bello della vita perche' e' un'avventura interminabile che ti prende che ti stimola che non ti permette di annoiarti.
Imparare a guardare l'altro per conoscere sempre di piu' chi siamo,cosa vogliamo cosa desideriamo.
Imparare a volerci bene, stimarci, per poter abbracciare l'altro nella massima gratuita'.
Non piu' attaccati ad un esito ma una vita vissuta in tutti i suoi istanti.
Quando scopri la chiave che apre la porta del giardino segreto ,ti senti ricco ,e l'altro ,tuo figlio,i tuoi amici ,tuo marito si incuriosiscono.
Sbirciano,scrutano ti tengono d'occhio.
Vogliono essere certi che non bari.
Cosi' tu ti senti ancora piu' responsabile e cerchi di tenere sempre oliata la chiave perche' possa sempre aprire.
E' questa l'avventura della vita che ti aiuta ad abbracciare giorno per giorno la realta' che ti si impone.
Imparare questa dipendenza,imparare a riconoscere che ogni giorno c'e' sempre qualche cosa di nuovo da scoprire rende interessante tutti i rapporti.
Ti rende libero,non ti importa piu' di essere giudicato e ascolti chi sta camminando davanti a te.
Non importa piu' se il tuo cammino oggi lo fai con un amico e domani con un altro l'importante e raggiungere la meta.
Se impari a nuotare poi puoi aiutare tuo figlio se si trova in difficolta' se non ti impegni affoghi con lui.Sto dilungandomi, comunque riprendero' articoli della scuola studium cartello ,perche' mi aiutano a comprendere meglio come sia ragionevole seguire Cristo.

All'interno l'articolo.




Maria D. Contri
Incontro del 7 marzo 2007



Dico subito qual è la mia tesi. La mia tesi è che c’è un difetto nell’istituzione scuola: è il difetto, l’errore del pensiero che ritiene che nella scuola, come in ogni altro contesto sociale, la questione sia quella della buona volontà, di una buona volontà che si sottomette all’ordine costituito immediatamente, ossia senza la mediazione di un proprio principio di piacere, di convenienza a farlo, senza che al nuovo venuto sia stato dato il tempo e il modo di orientarsi secondo una propria meta. E’ un errore che ritiene che si tratti quindi di fare un braccio di ferro con la cattiva volontà che si ribella.

Partirò, per parlare di questo difetto nell’istituzione scuola dal lato in cui le conseguenze di tale difetto stanno diventando esplosive, anche grazie al fatto che tali conseguenze, in questi ultimi tempi, vengono sbattute in prima pagina e, almeno per qualche tempo, avranno i riflettori accesi su di sé. Possiamo facilmente prevedere che tra un po’ i riflettori si spegneranno, pur restando tutto come prima. In ogni caso il dibattito è evidente che si occupa del come fra fronte alle conseguenze piuttosto che occuparsi dell’errore che le provoca.



La settimana scorsa sono stata ad Ancona dove ero stata invitata a partecipare a un Seminario che si sta svolgendo in questi mesi sotto il titolo Pensiero-figlio-civiltà.

La questione intorno a cui ruotano i vari incontri di questo Seminario è la seguente: a quali condizioni in una società, dalla famiglia alla scuola ai rapporti di amicizia o ai rapporti di lavoro, si potrà realmente parlare di civiltà, ossia di ordinato e pacifico convivere tra i cittadini?

A un certo punto del mio intervento avevo accennato al contesto scolastico come a un contesto, tra gli altri, in cui le persone non vivono tra loro in rapporti civili, con conseguenze, in certi casi, esplosive.

Avevo citato una notizia sentita alla radio del taxi che la sera prima mi aveva portato dalla stazione all’albergo: da un’inchiesta fatta in Inghilterra risultava che ormai il 50% degli insegnanti aveva subito violenze fisiche sulla propria persona da parte degli allievi, l’80% sulle proprie cose, a cominciare dall’automobile. Avevo citato anche notizie riferite da amici francesi, secondo cui nella banlieue parigina le lezioni si svolgono alla presenza di un poliziotto.

L’inciviltà ha fatto molti passi avanti quando non funziona più il divieto alla violenza fisica, persino in una istituzione come quella scolastica che, almeno in linea di principio, è deputata alla trasmissione del sapere presso le nuove generazioni: la cosiddetta disciplina scolastica è diventata una questione di ordine pubblico che richiede l’intervento della polizia.

Certo in Italia non sperimentiamo ancora forme di convivenza scolastica a un tal punto di inciviltà.

Il dibattito successivo alla mia relazione, non solo in ragione dei miei accenni alla situazione in cui versa la scuola, di comune interesse per tutti, ma anche perché il pubblico del Seminario era in buona parte costituito da insegnanti e da persone a vario titolo impegnate con la scuola, si svolse intorno alla questione scolastica.

Il dibattito venne aperto da una domanda: a quale forza può ricorrere un insegnante di fronte a una classe totalmente incontrollabile?

La classe che viene descritta, del primo anno del biennio di un istituto tecnico, ha le seguenti caratteristiche: 25 allievi così distribuiti, 10 extracomunitari con scarsa conoscenza della lingua italiana, 10 ripetenti e 5 con basso livello di requisiti cognitivi. Un insegnante, di fronte a una tale situazione, aveva scelto come soluzione di entrare in classe, sedersi alla cattedra e mettersi a leggere il giornale, mentre la classe ne faceva di tutti i colori. Dopo qualche giorno di questo trattamento un allievo aveva sparato un colpo di pistola, fortunatamente a salve.

La persona che mi aveva posto la domanda mi chiedeva se non ritenevo che il comportamento dell’insegnante non fosse da criticare in quanto espressione di disprezzo nei confronti degli allievi. Forse l’interveniente pensava che se l’insegnante avesse avuto un po’ più di buona volontà avrebbe potuto, e quindi dovuto, fare qualcosa.

Per parte mia, risposi che, posto senza alcuna mediazione di fronte a una situazione di questo genere, non si vede che cos’altro questo insegnante avrebbe potuto fare. Il suo in fondo era stato solo buon senso. È inutile sentirsi impotenti quando ci si trova di fronte all’impossibile.

Si trattava semmai anzitutto di giudicare chi aveva costruito una tale classe: era come aver costruito una bomba e poi aver acceso la miccia.

Non c’è forza che possa far fronte in un caso come questo: né la forza e l’abilità picchiatoria di Bud Spencer e Terence Hill, né la seduttività del pifferaio di Hamelin, potrebbero venirne a capo.
Non tanto sulla forza di cui dispone l’insegnante ci si deve interrogare, quanto su quale sia la risorsa a cui egli può ricorrere. E questa risorsa è il pensiero, un pensiero che analizzi la situazione e si ponga la domanda: che fare?

Imbrigliare una situazione di questo genere non è una questione di buona volontà: la buona volontà segue il buon pensiero. E’ un errore che l’insegnante può compiere non solo ai danni dell’allievo, ma anche ai propri. E’ un errore che ostacola e impedisce il costituirsi di una professionalità dell’insegnante e della sua capacità di orientarsi.

E della professionalità fa parte la capacità di giudicare della genesi della realtà con cui ha a che fare, di confrontarsi coi colleghi e di mettere a punto modalità comuni di intervento. Altrimenti l’insegnante si trova da solo a far fronte a situazioni insolubili, ingovernabili, travolto da qualcosa di più forte di lui.

Non si tratta di essere ingenui, ma di vedere anzi tutta la complessità di una data realtà.

E si tratta anzitutto di vedere con chiarezza l’errore di concepire la pace sociale come questione di pura sottomissione volonterosa e immediata, un errore per lo più già impostato a monte dalla famiglia. La conseguenza, a valle, è l’assenza dell’idea, prima nel figlio e poi nell’allievo, di un domani in cui potersene far qualcosa di ciò che si apprende a scuola, in quanto eredità da far propria nel proprio interesse. L’apprendimento risulta solo comandato. Molti studenti sono infatti senza domani. In certi casi poi, come in quello citato prima, le cose sono aggravate dal fatto che si tratta di ragazzi di altri paesi e altre culture che sentono totalmente estranee e puramente imposte le regole e i contenuti della scuola italiana. Soprattutto poi se neppure conoscono la lingua italiana.

Non è questa la sede per entrare nei particolari di un lavoro tutto da impostare, per esempio nella questione della costituzione delle classi, dell’accettazione o meno in una determinata scuola di allievi troppo impari ai requisiti cognitivi per affrontarne i programmi e quindi condannati alla bocciatura, della predisposizione di test di ingresso sulla cui base, a volte, impostare una vera e propria opera di alfabetizzazione, nella questione degli strumenti coercitivi da impiegare, in quali casi e con che modalità, nella comprensione delle dinamiche che si stanno muovendo in una classe per provvedervi prima che esse degenerino. Tutto questo fa parte di una messa a punto da parte della professionalità degli insegnanti, posto che gli insegnanti incomincino a pensarsi come dei professionisti e non più dei semplici impiegati statali.

Bisognerebbe che gli insegnanti entrassero in una prospettiva imprenditoriale, e non sul tipo dell’imprenditore che si attiva quando ormai è sull’orlo della bancarotta.

Quello che mi preme in questo momento mettere in evidenza è un punto centrale, un punto tale che, se non se ne tiene conto, qualsiasi altra misura si cercherà di mettere in atto ne risulterà vanificata: le conseguenze saranno o il ritorno alla selezione di un tempo o l’impiego di una gran quantità di coercizione. Ma con maggiore probabilità si può prevedere che ciò che si verificherà sarà l’ampliarsi da una parte delle situazioni di disordine e, dall’altra, l’enuclearsi di situazioni privilegiate, cosiddette di eccellenza, invece ordinate, con una divaricazione sempre più accentuate tra l’una e l’altra, ossia il ritorno a una selezione occulta, non più dichiarata come tale. E’ peraltro quello che sta succedendo in altri stati, che dovrebbe servire da lezione.



Qual è allora questo punto centrale? In Avvenire di un’illusione ci sono, dice Freud, “ordinamenti civili difettosi a causa dei quali gli uomini si sono esacerbati e sono diventati cattivi e intrattabili”.

E, in ultima analisi,ciò che esacerba gli uomini, e li rende intrattabili, è il non essere trattati come figli. Cosa vuol dire? Non si tratta di buonismo paterno, del buon cuore di papà. Non si tratta di un caso di everything goes, di un va tutto bene senza giudizio.

Essere figlio non vuol dire essere stato partorito. Partorire lo fanno anche i gatti e gli elefanti.
Parlare di figlio vuol dire parlare di erede.

Ovvero il figlio è qualcuno cui il genitore offre in eredità ciò che ha e sa come patrimonio da cui partire per stare bene al mondo. Glielo offre facendogli venir voglia di prendere, e apprendere, questa eredità per farla fruttare.

Fondamentale per il figlio sarà vedere che il genitore per primo apprezza i beni di cui dispone e che gli mette a disposizione. Sarà questo che gli farà venir voglia di farli suoi, tanto più quanto più vedrà che il genitore apprezza la sua riuscita nel prenderli, nell’apprenderli. Basta osservare un bambino per vedere come il suo piacere nell’aver appreso qualcosa sia completo solo quando il suo apprendimento è riconosciuto da qualcuno che se ne felicita.

Ciò che esacerba è che non venga dato ai nuovi venuti il tempo e il modo di questo apprezzamento, per cui l’apprendimento verrà imposto, in modi più o meno brutali, come comando, cui la volontà dovrà sottomettersi. I comportamenti disturbati e disturbanti di molti studenti non sono per lo più, comunque non immediatamente, espressione di ribellione, ma piuttosto modi di riempire il vuoto della noia di fronte ad attività che risultano insensate e prive di una meta pensata in proprio.

La cosiddetta “iperattività” ha per lo più questa origine. Capita spesso, quando li si ascolta, sentire ragazzi denunciare l’incontrollabile nervosismo, esplicitamente collegato da loro stessi con la noia, di cui sono preda sentendosi costretti a un’attenzione e a un lavoro che non capiscono nel loro scopo.

Il senso di fallimento, che a un certo punto li pervade, nasce quando cercano di attivare attenzione e lavoro, ma non ci riescono proprio per l’assenza di una meta in proprio.


Dicevo prima che di fronte a certe situazioni di disordine apparentemente incontrollabile l’insegnante ha un’unica risorsa da mettere in campo ed è il pensiero, l’analisi in base a cui mettere a punto il che fare. Pensare e giudicare, ecco il punto di partenza, e non l’attestarsi sul disfattismo di un generico Basta! La misura è colma!


E la cosa più importante da fare, prima di altre, è di individuare quali sono gli allievi in cui è stato in parte suscitato ed è ancora vivo un desiderio di prendere e di apprendere, benché disturbato da comportamenti, inizialmente certo dei genitori, che hanno mirato, e mirano, in modo preponderante, a piegare la volontà e non a suscitare la voglia. Bisogna insomma saper individuare i casi trattabili, che sono spesso più numerosi di quanto le apparenze di comportamenti disturbati e disturbanti lascino intravedere.


Ma è importante precisare che un ragazzo va considerato trattabile quando, osservandolo, parlando con lui, si notano i segni che lui ancora alla scuola nonostante tutto ancora ci tiene in proprio, che ancora vorrebbe riuscire.

E’ qui che l’avvocato della salute può essere d’aiuto, con un lavoro di osservazione sul singolo caso che l’insegnante non può fare, e con interventi, sia con i genitori che col ragazzo stesso, che modifichino un orientamento al vuoto di prospettive e di sensatezza dell’impegno scolastico. E poi con questi casi individuati come trattabili, con pazienza, dando tempo, essere costanti nell’offrire occasioni di apprendimento e di giudizio premiale quando c’è stato apprendimento e lavoro, senza farsi turbare dal fatto di reazioni ribellistiche nel caso in cui quel tale allievo interpreti come imposizione ciò che gli viene offerto. Liberarsi da queste modalità per un ragazzo è sempre un processo molto lungo.

Bisogna certo anche, peraltro, individuare i casi in cui uno studente ha ormai dichiarato guerra senza quartiere, almeno al momento, tale per cui qualsiasi offerta gli sembra un’imposizione, o comunque nell’altro vede sempre e solo un tiranno da combattere, o da sabotare. Si tratta di individui non più disposti al compromesso, pronti, pur di tenere il punto, quasi d’onore della loro rivolta, a mandare a carte quarantotto il loro destino scolastico e anche lavorativo. Magari perché su questa posizione hanno costruito una loro posizione leaderistica nella classe.

Anche qui entra in gioco la professionalità dell’insegnante nel mettere a punto interventi che possono andare dal cambiare classe, all’allontanamento dalla scuola, alla bocciatura. Ma anche in questi casi è sempre possibile non sospendere, ricercare qualche momento, di dialogo, che magari, tempo dopo, magari anni dopo, potrà essere utilizzato da quella persona per giudicare dell’errore fatto nel non aver saputo cogliere l’occasione che la scuola in realtà aveva offerto.


Voglio qui solo accennare a un caso della mia esperienza come insegnante in cui avevo individuato un segno nel comportamento di un certo ragazzo tale per cui mi si era trasformato in trattabile un caso che fino a quel momento avevo considerato intrattabile. Che cosa era successo: mi era riuscito, senza particolare premeditazione da parte mia, di agganciare il desiderio, ancora vivo in quell’allievo, di successo scolastico riconoscendogli il frutto del suo lavoro.

Pasqualino era un ragazzo perenne fonte di disturbo per l’insegnante e per i compagni, che pareva del tutto insensibile persino alla presenza dell’insegnante, incapace di apprezzamento per qualsiasi argomento, incapace di attenzione e di lavoro, con un livello di apprendimento della lingua italiana stessa assolutamente scadente. I genitori, interpellati, avevano dichiarato di non potere essere d’aiuto in alcun modo avendo da tempo dato forfait con questo figlio che anche in casa faceva il bello e il cattivo tempo senza che loro sapessero come fare a contenerlo.

Ma un giorno, avendo io assegnato il compito di scrivere una storia gialla intorno ad alcuni elementi forniti da me, lui si mette a scrivere velocissimamente più di una pagina che poi si precipita a portami. Io la leggo e dico: “Eh, Pasqualino mica male la tua storia!”. Si coglieva, infatti, sia pure in mezzo a un’infinità di errori di ortografia, grammaticali e sintattici, che c’era un’idea. Lui mi strappa di mano il foglio e corre sventolandolo in mezzo alla classe gridando: “Alla Contri piace!”.


Questo gesto fu per me una sorta di folgorazione sulla via di Damasco che successivamente mi fu preziosa in altre occasioni. Mi aveva rivelato come Pasqualino non avesse ancora disdetto il suo desiderio di riuscita scolastica e non avesse ancora affatto interrotto i rapporti con me come persona che alla sua riuscita poteva tenerci e che, quando c’era, gliela riconosceva, come persona insomma che continuava a investirlo di un interesse. In altri termini che il problema di questo ragazzo non era tanto quello di essere del tutto privo di desideri rispetto all’offerta della scuola, quanto quello di essere propenso a concludere che ormai la partita per lui era perduta perché tutti i suoi altri pensavano che fosse perduta.

E con la mia battuta gli avevo dato modo di pensare che lui poteva fare qualcosa per suscitare il mio interesse verso di lui.

Partendo da questa osservazione, trovai un accordo con una collega disponibile e incominciammo a impostare per lui un programma diciamo di quasi alfabetizzazione. Da questo momento in poi, non sono qui a dirvi che le sue intemperanze fossero di colpo cessate, ma esse divennero progressivamente più contenibili, anche se si dovette continuare ad impiegare la coercizione con una certa frequenza. Le cattive abitudini costruite nel tempo richiedono tempo perché si riesca a correggersene e a lasciarle cadere. Per capirlo non abbiamo che da ricordare la nostra stessa personale esperienza.

Peccato che l’anno successivo la famiglia si trasferisse in provincia di Milano con conseguente cambio di scuola. Venni per caso a sapere che Pasqualino era tornato ai comportamenti precedenti.





1 commento:

l.gaz ha detto...

Cara Tiziana, ho letto il tuo bellissimo commento all'articolo della prof Contri.
Anch'io ho insegnato in classi difficili con extracomunitari e con ragazzi italiani dal comportamento ingestibile.
Ebbene, in un momento di sfiducia per miei casi personali, il mio collega di religione, don Cristian, mi ha detto con ammirazione: ma guarda come hai messo in riga i ragazzi della 3 C !
Al primo momento non capivo cosa c'entrasse quello con la mia vita privata, poi l'ho giudicata così: ero entrata in quella classe con uno sguardo curioso su di loro, sulle loro storie. Coglievo ogni occasione per parlare con loro, intervallo, cambi d'ora, proponevo esercizi fattibili ma non banali, chiedevo la loro collaborazione per i compagni più piccoli in difficoltà o diversamente abili, raccontavo delle mie difficoltà scolastiche e di quelle di mia figlia, mi divertivo a stare lì, avevo voglia di stare con loro, così come mi erano stati dati, per scoprire il loro essere, imparare anch'io qualcosa di nuovo ogni giorno da loro. Libera dall'esito. Ecco così entravo in classe ogni giorno dopo aver invocato lo Spirito per me e per loro.
Sono stata accettata, ascoltata, rispettata. E temuta anche. Si sono sciroppati pure delle mie sonore arrabbiature.Durante le mie lezioni, spesso belle, divertenti e coinvolgenti, non volava una mosca. Chi entrava in classe pensava sempre ci fosse una verifica. Ho lasciato spazio ai colleghi curiosa delle loro proposte, e quelli giovani hanno trovato coraggio e iniziativa perchè valorizzati nel lavoro di classe.Me lo hanno detto a fine anno ringraziandomi, non me ne ero accorta.
Bene era questo che mi sottoponeva il mio collega di religione. Questo sguardo sui ragazzi che il Signore mi aveva messo davanti lo possedevo e dovevo fidarmi di Lui ed applicarlo con fiducia nella mia vita. Lui mi avrebbe sostenuto.
Ho imparato questo dal movimento e lo ritengo una enorme grazia.
Ora da settembre sono in pensione, mi mancherà questo rapporto quotidiano con circa 60 ragazzi, che con la loro diversità mi fanno capire cosa mi manca e cosa devo chiedere, ma sono aperta a tutto ciò che il Signore vorrà mettermi sulla strada.