giovedì 23 agosto 2007

LA BELLA E LA BESTIA

Società - mer 22 ago
Scruton al Meeting di Cl • Abbiamo fame di bellezza, ma è eclissata dal nostro orizzonte. Coltiviamo il deforme e rappresentiamo l'uomo come qualcosa che non si può amare, meglio tornare a venerarlo
di Roger Scruton

Tratto da il foglio del 21 agosto 2007




Società - mer 22 ago
Scruton al Meeting di Cl • Abbiamo fame di bellezza, ma è eclissata dal nostro orizzonte. Coltiviamo il deforme e rappresentiamo l'uomo come qualcosa che non si può amare, meglio tornare a venerarlo
di Roger Scruton

Tratto da del 21 agosto 2007

(Roger Scruton ha pronunciato ieri questo discorso al Meeting di Rimini, intervenendo a un incontro dal titolo "Verità nell'arte"con monsignor Massimo Camisasca, superiore generale della Fraternità sacerdotale Missionari di san Carlo Borromeo. Traduzione dall'inglese di Elia Rigolio)

Uno dei componimenti più accattivanti di Mozart è l'opera comica "Il ratto dal serraglio", che racconta la storia di Konstanze, rapita e separata dal fidanzato Belmonte e ridotta a servire nell'harem del pascià Selim. Dopo vari intrighi, Belmonte la salva, aiutato dalla clemenza del pascià, che rispetta la castità di Konstanze, rifiutandosi di prenderla con la forza. L'improbabile trama permette a Mozart di esprimere la propria convinzione illuministica, secondo cui la carità è una virtù universale, vera nell'impero Musulmano dei Turchi così come in quello cristiano dell'illuminato Giuseppe II. L'amore fedele di Belmonte e Konstanze ispira la clemenza del pascià. E per quanto l'innocente visione di Mozart manchi di un fondamento storico, la sua fede nella realtà dell'amore disinteressato è sempre espressa e sostenuta dalla musica. Il ratto dal serraglio propone un'idea morale, le sue melodie condividono la bellezza di quell'idea, presentandola in modo persuasivo all'ascoltatore. Nella produzione del 2004 del Ratto alla Comic Opera di Berlino, il produttore catalano Calixto Bieito decise di ambientare l'opera in un bordello berlinese in cui Selim è il protettore e Konstanze una delle prostitute. Anche durante le musiche più tenere, il palco era cosparso di coppie copulanti, e tutte le scuse per rappresentare la violenza, con o senza acme dell'attività sessuale, ampiamente sfruttate. A un certo punto si tortura graziosamente una prostituta e le si staccano i capezzoli in modo sanguinoso e realistico, prima di ucciderla. Le parole e la musica parlano di amore e compassione, ma il messaggio è coperto da scene di dissacrazione, omicidi e sesso narcisistico che ingombrano la scena in un'orchestrazione chiassosa.

E'un esempio di un fenomeno con cui, ne sono certo, avete sviluppato dimestichezza a partire dall'esperienza in ogni àmbito della nostra cultura contemporanea. Non basta che artisti, registi, musicisti e quanti altri operano nel mondo dell'arte siano in fuga dalla bellezza. C'è il desiderio di eliminare la bellezza, di cancellarla. Ovunque essa giaccia in nostra attesa, il desiderio di vanificarla garantisce che sarà coperta da scene di bruttezza e distruzione. Le opere di arte contemporanea creano il poco effetto di cui dispongono somministrando traumi alla nostra fievole fede nella natura umana, come testimonia, ad esempio, il crocefisso sotto urina di quei due ciarlatani di Gilbert e George. Il cinema contemporaneo abbonda di scene di cannibalismo, smembramenti e dolore insensato, tanto che alcuni registi, come Quentin Tarantino, hanno poco altro nel loro repertorio emotivo. La musica pop è stata invasa dal rap, i cui testi e ritmi parlano di una violenza incessante, e che rifiuta la melodia, l'armonia e ogni altro strumento che potrebbe creare un collegamento con l'antico mondo della canzone. La musica seria è stata a sua volta colpita, con l'obbligo di inserire dissonanze e sonorità aspre che impediscono il flusso musicale. Le opere di letteratura indugiano su violenza e trasgressione, dilungandosi morbosamente sulle funzioni corporali una volta considerate troppo private e inviolabili per essere menzionate sulla carta stampata.

Insomma, lo sapete bene. Viviamo in una cultura di dissacrazione, in cui la vita non è tanto celebrata dall'arte, ma piuttosto presa di mira. Gli artisti si fanno una reputazione costruendo una cornice originale in cui mettere in mostra il volto umano e gettargli addosso del letame. Cosa possiamo farne e come trovare la strada che ci riporti a ciò cui tutti noi aspiriamo, ovvero la visione della bellezza? Forse sembrerà un po'sentimentale parlare in questo modo di una "visione della bellezza". Quello che intendo però non è un'immagine edulcorata, da biglietto natalizio, della vita umana, ma piuttosto i modi elementari in cui gli ideali e il decoro fanno il loro ingresso nel nostro mondo e si fanno conoscere, così come avviene per l'amore e la carità nella musica di Mozart. C'è grande fame di bellezza nel nostro mondo, una fame che l'arte popolare non riesce e riconoscere e a cui l'arte seria sfugge. Poco fa ho usato la parola "dissacrazione"per descrivere quanto trasmetteva la produzione del Ratto di Bieito e i vani sforzi di Gilbert e George di dire qualche cosa. Cosa implica esattamente questa parola? E'collegata, da un punto di vista etimologico e semantico, con sacrilegio e quindi con l'idea della santità e sacralità. Dissacrare significa sprecare quanto altrimenti potrebbe essere messo da parte, nella sfera delle cose sacre. Possiamo dissacrare una chiesa, un cimitero, una tomba; e anche un'immagine sacra, un libro sacro o una cerimonia sacra. Possiamo anche dissacrare un cadavere, un'immagine cara, persino un essere umano vivente, nella misura in cui queste cose contengono, com'è vero, un presagio di una qualche santità originale. La paura della dissacrazione è un elemento vitale di tutte le religioni. E infatti questo era in origine il significato della parola religio: un culto o una cerimonia pensata per proteggere dal sacrilegio un qualche luogo sacro.

Nel diciottesimo secolo, quando le religioni organizzate e la monarchia cerimoniale stavano perdendo autorità nella mente delle persone pensanti, mentre lo spirito democratico metteva in dubbio le istituzioni ereditate dal passato e circolava l'idea che non fosse Dio, ma l'uomo, a fare le leggi per il mondo umano, l'idea del sacro soffrì un'eclissi. Sembrava, ai pensatori dell'illuminismo, che fosse poco più di una superstizione credere che manufatti, edifici, luoghi e cerimonie potessero avere carattere sacro, dato che tutte queste cose erano il risultato di un progetto umano. L'idea che il divino si rivelasse nel nostro mondo e cercasse la nostra venerazione sembrava sia inverosimile di per sé che incompatibile con la scienza.

Contemporaneamente, filosofi come Kant, Burke e Adam Smith riconoscevano che non guardiamo il mondo solo con gli occhi della scienza. C'è un altro atteggiamento, che non è che di indagine scientifica, ma di contemplazione disinteressata, che rivolgiamo al mondo alla ricerca del suo significato. Quando scegliamo questo atteggiamento mettiamo da parte i nostri interessi, non ci occupano più gli obiettivi e i progetti che ci spingono avanti nel tempo, non siamo più impegnati a spiegare qualcosa o ad accrescere il nostro potere. Lasciamo che il mondo si presenti e traiamo conforto dal suo presentarsi. Questa è l'origine dell'esperienza del bello. Potrebbe essere impossibile far rientrare quell'esperienza nella nostra ricerca ordinaria di potere e conoscenza. Potrebbe essere impossibile assimilarla all'utilizzo quotidiano delle nostre facoltà. Ma è un'esperienza che evidentemente esiste e che ha grandissimo valore per chi la riceve. Quando si verifica quest'esperienza, e cosa significa? Ecco un esempio. Immaginiamo di stare camminando verso casa sotto la pioggia, coi pensieri occupati dai problemi del lavoro. Strade e case sfilano via senza che le notiamo, così come le persone; nulla invade i nostri pensieri, se non i nostri interessi e le nostre ansie. Poi d'improvviso il sole emerge dalle nubi, un raggio di luce illumina un vecchio muro in pietra dall'altra parte della strada, tremolante. Alziamo lo sguardo al cielo, dove le nuvole si diradano e un merlo si mette improvvisamente a cantare da un giardino dietro il muro. Il cuore si riempie di gioia e i nostri pensieri egoisti sono svaniti. Il mondo è davanti a noi, felici semplicemente di guardarlo e lasciare che sia. Forse esperienze del genere sono più rare oggi di quanto non lo fossero nel diciottesimo secolo, quando poeti e filosofi guardavano ad esse come a una nuova strada verso la religione. Forse la fretta e il disordine della vita moderna, le forme alienanti dell'architettura moderna, il rumore e il carattere spoglio delle industrie moderne, forse queste cose hanno fatto dell'incontro con il bello un qualcosa di più raro, più fragile e più imprevedibile per noi. Eppure tutti sappiamo com'è, essere trasportati improvvisamente dalle cose che vediamo, dal mondo ordinario dei nostri appetiti alla sfera illuminata della bellezza. Avviene spesso durante l'infanzia, anche se raramente, allora, viene interpretata. Avviene durante l'adolescenza, quando si concede ai nostri desideri erotici. E avviene in modo smorzato durante l'età adulta, in cui dà forma segretamente ai nostri progetti per la vita e ci offre un'immagine di armonia che noi perseguiamo con le vacanze, la costruzione della casa e i nostri sogni privati.

Ecco un altro esempio: è un'occasione speciale, in cui la famiglia si riunisce per una cena di rito. Prepariamo la tavola, con la tovaglia ricamata pulita sotto i piatti, sistemiamo i piatti, i bicchieri, il pane in un cestino e qualche caraffa di acqua e vino. Lo facciamo con amore, traiamo piacere dall'aspetto, cercando di raggiungere un effetto di pulizia, semplicità, simmetria e calore. La tavola è divenuta simbolo del ritorno a casa, delle braccia tese della madre universale, che invita suo figlio ad entrare. E tutta questa abbondanza di significato e gioia in qualche modo è racchiusa nell'aspetto della tavola. Anche questa è un'esperienza della bellezza. Un'esperienza che incontriamo, in versione magari diverse, ogni giorno della nostra vita. Siamo creature bisognose, e il nostro bisogno maggiore è la casa, il luogo in cui siamo, in cui troviamo protezione e amore. Raggiungiamo questa casa tramite delle rappresentazioni della nostra appartenenza. La raggiungiamo non da soli, ma in unione con gli altri. E tutti i nostri sforzi per far sì che l'ambiente intorno a noi abbia il giusto aspetto, quando decoriamo, riordiniamo, creiamo, sono tentativi di porgere il benvenuto a noi e a quelli che amiamo.Questo secondo esempio è molto importante per me. Perché indica che il nostro bisogno umano di bellezza non è semplicemente un'aggiunta ridondante alla lista degli appetiti umani. Non è un qualcosa che potrebbe mancarci e senza cui saremmo comunque appagati in quanto persone. E'un bisogno che nasce dalla nostra condizione metafisica, di individui liberi, che cercano il proprio posto in un mondo obiettivo. Possiamo vagare per il mondo, alienati, risentiti, colmi di sospetto e sfiducia. O possiamo trovare qui la nostra casa, e venire per riposare in armonia con gli altri e con noi stessi. E l'esperienza della bellezza ci guida lungo questo secondo cammino: ci dice che siamo a casa nel mondo, che il mondo è già ordinato secondo le nostre intuizioni, affinché sia un luogo adatto alla vita di esseri come noi. Guardate uno qualunque dei quadri dei grandi pittori di paesaggi, Poussin, Guardi, Turner, Corot, Cézanne, e vedrete quest'idea di bellezza celebrata e fissata nell'immagine. Non è che quei pittori chiudessero gli occhi davanti al dolore, o alla vastità e alla minacciosità dell'universo di cui occupiamo un angolo tanto piccolo. Anzi. I pittori di paesaggi ci mostrano la morte e il decadere nel cuore stesso delle cose: la luce sulle colline è una luce evanescente; i muri delle case sono rattoppati e sgretolati come lo stucco dei paesini di Guardi. Ma quelle immagini indicano la gioia incipiente nella decadenza e l'eterno implicito nel transitorio. Non sorprende sapere che i filosofi siano rimasti sconcertati davanti all'idea di bellezza. L'esperienza della bellezza è così vivida, così immediata, così personale, che sembra difficile che appartenga al mondo ordinario. Eppure la bellezza brilla su di noi dalle cose ordinarie. E'una caratteristica del mondo o una finzione dell'immaginazione? Ci dice qualcosa di reale e vero, per riconoscere il quale basta quest'esperienza? O è solo un momento di sensazioni intensissime, che non ha significato alcuno a parte il piacere della persona che ne fa esperienza? Queste domande sono estremamente urgenti per noi, poiché viviamo in un momento in cui la bellezza è eclissata: un'ombra scura di scherno e alienazione che si è aperta un varco nella superficie prima splendente del nostro mondo, come l'ombra della terra sulla luna. Quando cerchiamo la bellezza, troppo spesso troviamo l'oscurità e la dissacrazione.
L'abitudine attuale di dissacrare la bellezza indica, secondo me, che siamo consci come non mai della presenza delle cose sacre. La dissacrazione è una sorta di difesa contro il sacro, un tentativo di distruggere le sue pretese. In presenza di cose sacre la nostra vita viene giudicata, e per schivare quel giudizio distruggiamo ciò che sembra accusarci. I Cristiani hanno ereditato da Sant'Agostino e da Platone la visione di questo mondo transitorio come di icone di un ordine altro e immutabile. Vedono nel sacro la rivelazione nel qui e ora del senso eterno del nostro essere. Ma l'esperienza del sacro non è limitata ai Cristiani. Secondo molti filosofi e antropologi, è una caratteristica universale della condizione umana. La maggior parte della nostra vita è organizzata da fini transitori: le preoccupazioni quotidiane delle questioni economiche, la ricerca nel nostro piccolo di potere e agio, il bisogno di divertimento e piacere. Ma di tutto questo, poco è degno di memoria o capace di toccarci. Qui e là però ci sentiamo scossi dal nostro compiacimento e in presenza di qualcosa tanto più significativo che non i nostri interessi e desideri presenti. Percepiamo la realtà di un qualcosa di prezioso e misterioso, che si rivolge a noi con una domanda che in qualche modo non è di questo mondo. Avviene in presenza della morte, e in special modo della morte di una persona amata. Guardiamo con timore reverenziale al corpo umano da cui è sfuggita la vita. Non è più una persona, ma sono "spoglie mortali" di una persona. E questo pensiero ci colma di un inquietante mistero. Siamo riluttanti a toccare il corpo morto; ci sembra che non faccia veramente parte del nostro mondo, quasi come un visitatore proveniente da una qualche altra sfera. Quest'esperienza è paradigmatica del nostro incontro col sacro. E richiede, da parte nostra, una sorta di riconoscimento cerimoniale. Il corpo morto è oggetto di rituali e atti di purificazione, pensati non solo per mandare felicemente il suo precedente occupante nell'aldilà, dato che anche chi non ha fede nell'aldilà sceglie di attenersi a queste pratiche, ma per superare la spaventosa meraviglia, il carattere soprannaturale della forma umana morta. Il corpo è rivendicato da questo mondo tramite quei rituali che riconoscono anche la sua separazione dal mondo stesso.

I rituali, in altre parole, consacrano il corpo, purificandolo così dal suo miasma. Allo stesso modo, il corpo può essere dissacrato, ed è certamente uno degli atti di dissacrazione primari, a cui siamo dediti da tempo immemorabile, come quando Achille trascinò in trionfo il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia. Ci sono altre occasioni in cui siamo distolti a sorpresa dalle nostre preoccupazioni quotidiane dalla presenza di una domanda trascendente. In particolare, c'è l'esperienza dell'innamoramento. Anche questo è un universale umano, ed è un'esperienza delle più strane. Il volto e il corpo della persona amata sono pervase dalla vita più intensa. Ma da un certo punto di vista, essenziale, sono come il corpo di un morto: sembrano non appartenere al mondo empirico. L'amata guarda all'amante come Beatrice a Dante, da un punto esterno al flusso delle cose temporali. L'oggetto amato esige che lo adoriamo, che ci rivolgiamo a lui con una riverenza quasi rituale. E da quegli occhi e da quelle membra irradia una sorta di pienezza di spirito che rende tutto nuovo. I poeti hanno speso migliaia di parole su quest'esperienza, che nessuna parola sembra essere in grado di cogliere interamente. E' un'esperienza che ha alimentato il senso del sacro nei secoli, ricordando a personaggi tanto diversi come Platone e Calvino, Virgilio e Baudelaire, che il desiderio sessuale non è il semplice appetito che vediamo negli animali, ma la materia prima di una bramosia che non ha soddisfazione semplice o mondana, ma che ci impone niente di meno che di cambiare la nostra vita. Se osserviamo le brutture coltivate nel mondo odierno, scopriamo che molte di loro si rifanno alle due esperienze che ho indicato. Il corpo negli spasimi della morte; il corpo negli spasimi del sesso: sono cose che ci affascinano facilmente. Ci affascinano dissacrando la forma umana, mostrandoci l'essere umano come soverchiato da forze esterne, lo spirito umano eclissato e inefficace e il corpo umano come mero oggetto tra gli oggetti, invece di un soggetto libero, legato da una legge morale. Ed è su queste cose che l'arte del nostro tempo sembra concentrarsi, offrendoci non solo la pornografia sessuale, ma una pornografia della violenza, in cui l'essere umano è ridotto a un cumulo di carne sofferente, resa pietosa, impotente e disgustosa.

Perché tutto questo può essere diventato normale? Perché, a parte, ovviamente, i soldi che ci si possono fare? La risposta è che si tratta di tentazioni primarie. Tutti noi desideriamo fuggire dagli imperativi di un'esistenza responsabile, in cui ci comportiamo con gli altri in un certo modo perché sono degni di riverenza e rispetto. Tutti noi siamo tentati dall'idea della carne, e dal desiderio di rifare l'essere umano rendendolo pura carne, un automa, obbediente ai desideri meccanici. Per cedere a questa tentazione, però, dobbiamo prima rimuovere l'ostacolo principale al suo raggiungimento, ovvero la natura consacrata della forma umana. Dobbiamo corrompere le esperienze, come la morte e il sesso, che altrimenti ci allontanerebbero dalle tentazioni e ci spingerebbero verso una vita più alta di amore, dovere e soddisfazione. Questa dissacrazione volontaria è anche una negazione dell'amore, un tentativo di rifare il mondo come se l'amore non ne fosse più parte. E questa, certamente, è la caratteristica più importante della cultura postmoderna che ho descritto all'inizio dell'intervento: una cultura priva d'amore, determinata a rappresentare il mondo umano come se fosse qualcosa che non si può amare.

Il che suggerisce un rimedio semplice, ovvero resistere alle tentazioni. Invece di dissacrare la forma umana dovremmo imparare nuovamente a riverirla. Perché non c'è assolutamente nulla da guadagnare dal tipo di insulti scagliati contro la bellezza da chi, come Calixto Bieito, non sopporta di guardarla in faccia. Certamente, possiamo neutralizzare gli alti ideali di Mozart mettendo in secondo piano la sua musica, facendone mero accompagnamento di un carnevale disumano di sesso e morte. Ma cosa ci insegna tutto questo? Cosa ci guadagniamo, in termini di sviluppo emotivo, spirituale, intellettuale o morale? Nulla, se non ansia. Dovremmo trarre una lezione da questo tipo di dissacrazione: nel tentativo di dimostrare che i nostri ideali umani sono privi di valore, dimostra di essere lei stessa priva di valore. E se un qualcosa dimostra di essere privo di valore, è il caso di disfarsene

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