lunedì 11 agosto 2008

PRENDERSI CURA OLTRE LE PILLOLE

La dottoressa intervistata in quest'articolo interverra' al meeting di Rimini.
Pone l'accento sull'aspetto fondamentale che caratterizza ogni situazione grave.
"Prendersi cura"La necessita' di ogni uomo e' proprio quella di sentirsi soggetto guardato,stimato ,amato.
Non importa l'esito (certamente non e' indifferente)prima pero' la persona ha bisogno di sentirsi guardata e accompagnata.
E' il trovarsi soli che porta alla disperazione,al non senso,al preferire lasciarsi morire.
La medicina aiuta ,sposta spesso la data della nostra morte ma il desiderio vero di ogni uomo e' sicuramente poter vivere ogni circostanza all'interno di una compagnia.
Sentirsi circondati da medici e paramedici che con te condividono .
Andare in ospedale con Giovanni a volte e' una consolazione.
Ci si sente amati, stimati,aiutati a superare le piccole e grandi difficolta' tanto da insegnarci ad essere sempre piu' liberi dall'esito e capaci cosi' di vivere l'istante con una maggior consapevolezza e letizia.


La medicina è sempre più tecnologica, mentre il malato vuol sperare. Parla l’oncologa Menard, che sarà al Meeting di Rimini • Solo dopo aver avuto a sua volta un tumore, la dottoressa ha capito le esigenze dei pazienti: convincersi che vale ancora la pena di vivere • «Farmaci meno tossici non bastano, se non si cura il trauma interiore. Davanti alla diagnosi ero come chi va a 120 all'ora contro un muro»
di Luigi Dell’Aglio
Tratto da Avvenire del 9 agosto 2008






«Quando mi hanno comunicato la diagnosi di cancro, mi sono trovata come uno che corre a 120 all’ora su un’autostrada e vede ergersi un muro davanti a sé». La dottoressa Sylvie Menard si occupa da 40 anni di ricerca sul cancro. Lavora nel Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto Tumori di Milano. «Abbiamo sempre messo in cima, come traguardo importante, la qualità della vita del paziente. Ho partecipato alla stesura di tantissimi questionari con i quali gli si chiede se ha avuto il vomito o la nausea, se sta perdendo i capelli. Abbiamo messo a punto nuovi farmaci meno pesanti e ho sempre pensato che questo fosse ciò che il paziente desidera principalmente. Poi, tre anni fa, quando mi sono ammalata io, ho scoperto che per il paziente gli effetti collaterali della chemio sono quasi trascurabili di fronte al vero dramma: quando ti viene annunciata la diagnosi di cancro, dentro di te si rompe un equilibrio miracoloso. Ti consideravi quasi immortale, ora crolla tutto. La notizia ti ammazza. È questo che compromette inesorabilmente la qualità della vita. Non basta rendere i farmaci meno tossici, bisogna curare il trauma interiore.

Se pensa che si salverà dalla morte, chi è malato di cancro accetta di vomitare anche per tre giorni di seguito. Sa che le dico? È bellissimo vomitare, in quella prospettiva». Sylvie Menard fa parte della Consulta per l’Umanizzazione della Medicina.

«Andremo a chiedere al nuovo ministro se è interessato a proseguire questo progetto», annuncia. E il 26 agosto al Meeting di Rimini terrà una conferenza sulla qualità della vita.

Dottoressa, è pensabile un valido rimedio all’esperienza durissima che tocca al paziente oncologico?
«Il malato ha bisogno del conforto della speranza, vuole essere aiutato. Dal medico, dagli infermieri, dalla famiglia, dalla società. Deve rinascere a una seconda vita, convincersi che vale la pena di viverla. Deve vedere davanti a sé un futuro che gli permetta ancora un’esistenza dignitosa. E, prima di tutto, deve vincere il senso di profonda solitudine. Non chiudersi, non interiorizzare la malattia».

Il sistema sanitario potrebbe mettere a disposizione uno psicologo?
«Non è questo che ci vuole. Serve il colloquio con chi ti dà cure, conforto e speranza nel futuro. Una persona qualificata dal punto di vista medico, che faccia capire al paziente che la sua vita non è finita, che con il cancro si può magari guarire ma anche convivere. Il sistema sanitario non deve limitarsi ad affrontare la malattia, deve prendersi cura del paziente, il quale è estremamente fragile».

Quali sono i cambiamenti da introdurre?
«Il paziente oncologico è già considerato, in un certo senso, fuori dalla società. Per una visita o per la risonanza magnetica, è costretto ad aspettare anche un’intera giornata; e può avvenire anche una volta alla settimana. Ma così è difficile per lui continuare una vita normale, compreso il lavoro. Se ha compiti di responsabilità, finisce per non poterli più svolgere. Non c’è diritto al rispetto della vita privata, degli impegni. Lui è, prima di tutto, un malato. E la depressione aumenta».

Quale motore bisogna accendere per mettere in marcia la «seconda vita»?
«Non abbattersi, cercare dentro di sé. Io ci sono riuscita, conosco molte persone che ce l’hanno fatta. Bisogna darsi un comando coraggioso. Il cancro non prenderà la mia vita, non la lascio certo nelle sue mani. La prima battaglia la vinco io. E non mi dò per vinto. La chemio ad alte dosi fa soffrire me, ma anche lui».

E il sistema sanitario è realmente in grado di aiutare il paziente in questa battaglia?
«Un gruppo di medici di Padova ha lanciato una proposta: rendere il paziente partecipe della terapia, spiegargli che cos’è la malattia, quali sono i farmaci per aggredirla. In questo modo, il paziente può seguire la propria storia senza fare confusione fra i tanti farmaci (io, per esempio, prendo 10 pillole al giorno). Un paziente più consapevole non prova più l’orrore terribile per la malattia che non conosce e non capisce. Ho visto tanti guarire dal cancro. Ma molti di loro hanno vissuto una vita di sofferenza: la ferita psicologica provocata dalla diagnosi non si è mai rimarginata».

È giusto annunciare la diagnosi in modo così esplicito?
«Quando mi sono ammalata, mi hanno detto subito che si trattava di un tumore inguaribile, non operabile (come tutti i tumori ematologici), diffuso in tutto il midollo. Il medico non poteva nascondermi la verità. È stato un colpo di martello in testa: se sono inguaribile, che mi curo a fare? Invece la differenza sta tutta lì, tra 'inguaribile' e 'incurabile'. Mettere sempre l’accento sulla guarigione è un errore. C’è un’altra opzione altrettanto interessante. Anche quando non guariscono, i farmaci hanno fatto fare all’oncologia grandi passi avanti, prolungando la sopravvivenza».

Il cancro è ancora un «male incurabile», per molti?
«Incurabile no, mai. Abbiamo terapie per tutte le forme di cancro. Non si arriva a guarirle tutte, ma a curarle sì. Cioè a tenere a bada la malattia».

La preghiera aiuta?
«Sicuramente chi ha la fede fronteggia meglio questa situazione. La fede vuol dire un supporto in più. Ci sono pazienti che, grazie alla preghiera, sono in grado di prendere in mano la propria vita. Naturalmente il medico ha il dovere di dare comunque al paziente il conforto che gli è necessario. La mia preoccupazione nasce da una medicina che sta diventando sempre più specialistica e tecnologica. Il rischio è che domani i pazienti non vengano neanche più visti dai medici. Tutto arriverà attraverso una e-mail. Ma sarebbe una medicina fallimentare, perché disumana

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