giovedì 14 febbraio 2008

ALL' INTERNO UNA RASSEGNA DI ARTICOLI




TALORA BISOGNA DIRLO - AL PRETE NOI VOGLIAMO BENE
Avvenire, 13 febbraio 2008
MARINA CORRADI
In un tempo che accetta e esalta o­gni più ampia declinazione della li­bertà individuale, ogni genere di le­game, ogni facoltà di recedere quan­do si voglia dalla scelta fatta, c’è una figura che viene rappresentata spesso come incomprensibile, e anacronisti­ca, quasi assurda, un resto del passa­to che dovrà cedere agli urti della mo­dernità impellente. Questa figura è il sacerdote. Il cardine della Chiesa, l’uo­mo che attraverso la sua faccia la ren­de visibile e presente in ogni parroc­chia di paese, prossimo a tutti, nemi­co a nessuno. Ma i preti non godono oggi di una buona 'immagine'. Quan­do se ne parla, è facilmente per rac­contarne colpe presunte, oppure ve­re, ma con un accanimento strano, co­me godendo dello scandalo dato da chi 'predica bene'. E quasi mai di­cendo di quanto questi uomini dan­no ogni giorno, di bene e di coraggio. Quasi un’intolleranza maturata verso una figura non compatibile con gli im­perativi dominanti: successo, indivi­dualismo, istintività.
È in questo contesto che nasce, da un laico come Vittorino Andreoli, l’e­splorazione della figura del sacerdote che inizia oggi su Avvenire. Laica cu­riosità di indagare senza pregiudizi su chi è oggi il prete, e cosa opera, e qua­le funzione assolve nel suo stare in mezzo alla gente, presente per chiun­que lo cerchi. 'Laica' come contrario di ideologica, della 'verità' di chi a priori sa già tutto; e, anzi, curiosità e­splorante nella forma di un dialogo, che sollecita i sacerdoti a intervenire. Sarà un bel viaggio. Dentro a un mon­do che pare, dice Andreoli, voler di­sfare le radici su cui è cresciuto, bello andare a chiedersi, di questi oscuri te­stimoni di altro da ciò che oggi è det­to desiderabile o obbligatorio: e voi, chi siete? E cosa dite agli uomini?
Viaggio al centro di una affascinante contraddizione. Perché, anche nel breve dialogo con un giovane prete o con un vecchio parroco di montagna, la contraddizione con il Sollen mora­le del nostro tempo salta agli occhi. Il prete è uno che al successo, alla riu­scita, a un appagamento affettivo pre­ferisce altro. Che sceglie di mettersi totalmente al servizio di Cristo, e quin­di degli altri. Come indicando che c’è qualcosa di più grande di tutti i nostri comuni e pure giusti obiettivi. ('Io, vo­levo tutto', ci ha detto pacatamente un giovane missionario in partenza per un paese lontano).
Già una domanda così grande, in tem­pi di modesti desideri, spaventa. E poi, la rinuncia alla sessualità, così scan­dalosa in tempi in cui il possesso fisi­co si pone come l’orizzonte di ogni rapporto, e verginità è parola consi­derata ridicola. E, ancora, quell’altra parola, 'vocazione', al centro della vi­ta – vocazione, a intendere che qual­cuno ti chiama, e che ha un disegno su di te: lo scandalo della domanda di Dio sulla tua vita.
Eppure, in mille storie di cui i giorna­li non parleranno mai, quanti uomini affaticati e contenti, uomini cui la gen­te vuole bene e è grata. Grata perché ci sono, pur comprendendo magari solo confusamente la ragione di quel­la apparente solitudine, di quel resta­re fedeli a parole antiche che oggi in pochi amano ascoltare. Grati del tem­po dato a figli cui i genitori faticano a parlare; di una parola di misericordia, in un mondo in cui ci si giudica e non ci si perdona. Di una speranza più grande delle ansie quotidiane. Come quel vecchio sacerdote ottantenne in un paese di montagna fuori dal mon­do, che ci disse: «Sa, se fossi chiama­to questa notte, non ho paura, io so­no contento». E che guardammo con silenziosa meraviglia. Quello star drit­ti, lieti davanti a ciò che a quasi tutti fa paura – certi di un altro destino. Strani uomini, ci siamo detti quel gior­no e molte volte ancora. Strani uomi­ni, in mezzo a noi testimoni.



BOTTA E RISPOSTA

L’editorialista di «Repubblica» e il direttore di «Avvenire» a confronto sulla presenza dei cristiani in politica e sulla necessità di svecchiare il dibattito italiano
Cattolici-laici, dialogo su nuove basi Gad Lerner
Perché va scomparendo quella curiosità reciproca?
Avvenire, 13 febbraio 2008
DI GAD LERNER
Caro Dino, lo so che fra noi si sono ac­cresciute le distanze né m’il­ludevo che la mia critica potesse ri­sultarti gradevole. Dunque, mi bec­co volentieri del capoclasse, anche se in coscienza escludo di avere con­sumato un sopruso nei tuoi con­fronti.
Lascia che ti dica una cosa col cuo­re, anziché con la testa, riguardo al­l’accrescersi delle distanze. Non ne faccio una questione sentimentale: poco importano le reciproche ras­sicurazioni sull’amicizia che persi­ste. Lamento piuttosto un ciclo in­volutivo nella curiosità e nella di­sponibilità a un confronto spiaz­zante, senza rete, da parte del tuo mondo. Rimpiango gli anni dell’a­pertura, quando il dialogo produ­ceva scoperte e ci arricchiva di co­noscenze personali. Ne scaturivano – per restare a noi – articoli sul pa­pa a Fatima che magari suscitavano l’ironia degli scettici; e viceversa l’i­nedita disponibilità a discutere di teologia fuori dal gregge. Se fossimo cani, direi: rimpiango il piacere di annusarci. Ma siccome siamo u­mani, mi chiedo: perché non suc­cede più? Perché ci guardiamo in cagnesco?
Temo, paradossalmente, che que­sta relazione sia venuta meno in se­guito a una vittoria culturale del mondo cui appartieni, cioè quando avete trovato nuovi alleati. Vi siete sentiti improvvisamente 'meno so­li' scoprendo che l’intellighenzia laica – a lungo da voi caricaturizza­ta nella forma del monolite – evi­denziava fratture profonde su temi cruciali come l’identità occidenta­le, la biopolitica, la tecnoscienza, i codici familiari. Avete incassato co­me provvidenziale un supporto al­le vostre istanze motivato sul piano della razionalità anziché della fede. Forse, per la prima volta dopo anni, avete pensato di poter vincere an­che sul terreno mondano. Fatto sta che, un po’ euforici, vi siete messi in battaglia (culturale). E in batta­glia non si ha il tempo di provare cu­riosità né tantomeno di mettersi nei panni degli avversari.
L’opportunità di definire in tv qua­le sia l’interesse dei cattolici riguar­do all’esistenza o meno di un parti­to scudocrociato nel centrodestra, la lascio alla tua valutazione. Grazie al cielo puoi andarci quando vuoi, né sarò io a scandalizzarmi per even­tuali interferenze. Ma conoscendo la tua persona e il tuo ruolo, dubito che al Tg1 intervenissi a titolo stret­tamente personale. Lo hanno rile­vato politici cattolici di opposta ten­denza come Roberto Formigoni e Pierluigi Castagnetti, mentre ieri Il Foglio definiva «quantomeno inu­suale » la tua intervista. Sia detto con il massimo rispetto: vista la fram­mentazione del sistema italiano, sulle questioni politiche anche agli uomini di Chiesa può capitare di an­dare in confusione. Ma ciò resta del tutto secondario rispetto a quel che mi premeva dirti.
Credo e spero che tu non vorrai dav­vero escludere di partecipare in fu­turo al mio 'Infedele' televisivo (sei invitatissimo, fin da stasera!).
Credo e spero che un giorno mi sen­tirai di nuovo vicino, più amico di ta­luni che vedono in te solo il provvi­sorio portavoce di un potere an­ch’esso provvisorio.


Dino Boffo
La svolta con il referendum. Affrontiamo le grandi questioni senza letture stantie
DI DINO BOFFO

Avvenire, 13.2.2008
Caro Gad, se non ti sapessi sincero, non ti risponderei. Se non tenessi alla tua amicizia, e non sapes­si che da simili rapporti possono venire traguardi più ampi, non risponderei. Se non credessi che così son fatte le amicizie, di alti e bassi, di fasi alterne di dialo­go intenso e di silenzi, e che domani tutto potrebbe riprendere, non ti risponderei.
Per prima cosa facciamo chiarezza. Che cosa ho detto al Tg1? Pochissime cose, queste. La Chie­sa in quanto tale non si schiera, davvero non si schiera rispetto allo scenario politico. Da parte loro i fedeli laici scelgono, al pari di tutti i cittadini, dove collocarsi in base alla propria sensibilità, valutando liberamente dove a loro sembra che i fondamentali valori cristiani siano meglio rispettati e incarnati. La Chiesa segue – ovvio – con interesse l’attuale fase di semplificazione e ristrutturazione del quadro politi­co, a sinistra e a destra. Quanto all’Udc, diciamo co­sì: per gli umori che mi sembra di percepire, ritengo (io, Dino Boffo) che sia da preservare una presenza che fa esplicito riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, nell’interesse dei cristiani, del centrodestra e della democrazia tout court. Fine.
A me pare un pensiero lineare e ragionevole. Ed è in­teressante che obiezioni analoghe alle tue, tutte in­terne al sistema, mi siano giunte sia da destra (Formigoni) che da sinistra (Ca­stagnetti). Io però continuo a guardare da fuori, e tengo a questa posizione. E aggiungo quanto ho già scritto e so­prattutto facciamo ogni giorno: noi se­guiamo con identico interesse ciò che pensano, dicono e fanno i cattolici im­pegnati in ogni schieramento e per tut­ti vorremmo essere un foglio complice in ordine alla loro coerente efficacia.
Consentirai allora in questa chiave, al giornale che più di tutti è espressione del mondo cattolico, di po­ter mandare un segnale prima dell’assorbimento for­zato dell’ultima formazione partitica erede di quello che fu un grande, per certi versi controverso, ma sem­pre formidabile movimento politico di ispirazione cristiana che ha fatto grande l’Italia. Non è un pro­blema di parte, non è un’esclusione verso altri catto­lici (figurarsi), è un fatto di garanzia per tutti. Così io la vedo. E se quella battuta semplicissima (al Tg1 o al­trove) non l’avessi fatta, mi sentirei in colpa. Nessu­no deve condividerla per forza, chiedo però che non sia mistificata.
M a il tuo discorso va più al largo, e ti chiedi che cosa sia successo tra di noi. È vero, il refe­rendum del 12 giugno 2005 sta diventando uno spartiacque. Non solo per il risultato concreto, ma anche per il valore simbolico che esso, passando il tempo, va sempre più marcatamente assumendo. Ti ricordo quanto sai perfettamente: quel referendum non l’abbiamo voluto noi cattolici, piuttosto l’abbia­mo subito; e i cattolici impegnati in Parlamento ave­vano già operato una mediazione nella fase di co­struzione della legge 40, quando non si erano arroc­cati, ma erano venuti incontro quanto possibile alle ragioni altrui. Noi, memori di precedenti lezioni, non volevamo lo scontro. Così, abbiamo cercato una linea razionale di difesa per delimitare i danni, ed è anda­ta bene. Ma io non ho mai pensato ad una vittoria di una parte contro l’altra secondo le forme della com­petizione elettorale. E all’interno del mondo cattoli­co non ho assistito ad alcuna spartizione di bottini, ma a ragionamenti sulla responsabilità. Noi sappia­mo bene che quel risultato non è un indice di fede, né tappa di successo. Dice piuttosto un orientamen­to assai prevalente tra la gente, di marcato scetticismo verso chi vorrebbe manomettere il forziere della vita. Piuttosto, Gad, siamo stati noi ad aver effettivamen­te cantato vittoria o siete stati voi a sentirvi, per ciò che avevate detto, inesorabilmente sconfitti? Tu ri­corderai cosa è avvenuto in campagna elettorale sul­la stampa laica nei riguardi dei cattolici: le istigazio­ni alla disobbedienza, la ricerca esasperata di qua- lunque voce che potesse rompere la spontanea unità cattolica, i processi a cielo aperto a carico delle ge­rarchie… Vedi, Gad, tutto era costruito per stravince­re, e se fosse accaduto, poi dall’alto della vostra po­stazione – ne sono certo – ci avreste sorriso, benevo­li. Non è andata così, ma le cattive premesse erano sta­te poste. E il mondo cattolico – si pensò – non può o­ra non fare quello che noi annunciavamo. Sai che ti dico Gad? Che sulla domanda: chi ha cominciato ad allontanare chi, uno psicanalista avrebbe il suo bel la­voro da fare.
P er questo, avanzo un’ipotesi diversa da quella che tu prospetti: dopo il 12 giugno è cresciuta, e come, un’ostilità preconcetta nei confronti della Chiesa. Non possiamo avanzare una proposta, non possiamo dare un libero contributo al dibattito che subito parte, come un tic nervoso, la reazione i­sterica: volete imporre la vostra morale facendola di­ventare legge, ecco la crociata, ecco l’attacco, eccete­ra. Cioè, siete dipendenti da uno schema di potere: non avendo vinto voi, noi dobbiamo per forza voler comandare, imporre, scomunicare. M a non è neppure questo il peggio. Perché il guaio maggiore, Gad, è che da tre anni or­mai il discorso pubblico è in stallo. Non stia­mo (voglio includermi) producendo nulla di nuovo, i discorsi sono sempre quelli, anche al tuo talk è il so­lito teatrino, le solite foto sullo sfondo, le solite battute, i soliti isterismi… Gad, cambiamo musica, e smettiamola di ba­loccarci con i rimasugli delle vecchie bat­taglie. Mi ha molto, molto colpito quel­lo che scrive Galli della Loggia sul Cor­riere di ieri: «Il punto realmente critico della condizione italiana (…) è l’assen­za da parte della nostra cultura di vera di­scussione pubblica intorno ai grandi te­mi del Paese e dell’epoca». Ecco, io que­sto lo condivido in pieno. Se invece di misurare in centimetri le reciproche distanze ci buttassimo in a­vanti, fuggendo dall’appiattimento conformistico, e affrontassimo con serietà e preparazione le grandi questioni sulla vita e sulla morte, l’amore, la malat­tia, il lavoro, l’educazione e la scuola, il gioco, l’indif­ferenza, la speranza…, mettendo a confronto com­petenze ed esperienze, non rappresentanze, non cre­di che faremmo qualcosa di più utile, e soprattutto a­vremmo qualche soddisfazione in più da noi stessi? Vedi, tu dici dei nuovi laiconi che si sarebbero affiancati alla Chiesa e oggi ci darebbero molto conforto. Gad, posso dirlo? Piantatela con questa storia, non siamo stupidi, né lo sono loro. Non ti viene il dubbio che quei tuoi colleghi laici finiscono per essere molto più interessanti di voi semplicemente perché non fanno discorsi stantii? Perché riconoscono quel che c’è da riconoscere, sono franchi senza insolentire, contraddicono senza caricaturare? Da qualche tempo non posso fare a meno di osservare come i criteri utilizzati da alcuni per leggere e trattare il mondo cattolico siano frusti e inefficaci. Siamo cambiati, stiamo cambiando. Le vecchie chiavi di lettura non funzionano più. Cattolici ruiniani e martiniani, dell’iden­tità e del dialogo, di destra e di sinistra… Vecchiume per nostalgici pigri.
E per tornare all’Infedele, se vuoi ricominciare a mordere, Gad, molla la solita compagnia di giro di illuminati fustigatori della Chiesa ruiniana e i soliti, pochi – generosi quanto imbarazzati- difensori. Sinceramente noiosini tutti quanti. Avrebbe bisogno – ripeto – di una rinfrescata, di aria nuova, di letture meno stantie.
Quando ciò accadrà, mi avrai tuo ospite. E forse accadrà come nell’ultima scena di Casablanca, quando Rick e il capitano Renault si allontanano nella nebbia, verso la Francia libera, per quello che sarà «l’inizio di una splendida amicizia». Rick e Renault si annusano per tutto il film ora avvicinandosi ora allontanandosi, ricordi? Credo che apprezzerai l’esempio: per la 'Writers Guild of America' (l’associazione degli sceneggiatori) quella di Casablanca è la migliore sceneggiatura della storia del cinema. Con un abbraccio.

01|SI INIZIA IL «VIAGGIO» DI ANDREOLI SUI PRETI OGGI NELLA SOCIETÀ

I preti e noi - Il sacerdote e il sacro
Avvenire, 13.2.2008
Un personaggio della nostra società
Il sacerdote è un personaggio della nostra società. Figura che ha una sua lunga storia nella nostra cultura, e che ha assolto compiti diversamente riconosciuti, sovente anche contrastati. Profilo che è cambiato, perché è cambiato il contesto in cui si pone. Così, pur perseguendo sempre lo stesso obiettivo, legato al ruolo che ricopre, l’ambiente in cui vive lo ha in parte modificato, mutando anche la forma esteriore con cui egli si presenta al popolo. Dalla veste talare lunga e nera, con berretta a punte e pompon o cappello rigido a larghe tese, lo si vede talora in abito 'borghese', in jeans e shirts, non più identificabile o immediatamente riconoscibile. E questo lo ha fatto per nascondersi, quando la sua missione, contrastata, doveva svolgersi in maniera clandestina; oppure per la convinzione che dovesse essere notato non tanto per l’abito quanto per il suo modo di essere e per il suo comportamento, invertendo il detto popolare che è l’abito a fare il monaco.
È un personaggio colto, perché il raggiungimento della sua posizione comporta studi severi e una lunga preparazione, ma a distinguerlo non è il sapere, bensì il ruolo, che ha un’origine nel mistero, una vera consacrazione.
Ciononostante, ci sono stati periodi in cui il suo sapere ne ha caratterizzato il ruolo e la maniera di essere percepito, soprattutto in situazioni di istruzione sociale carente, come nel nostro passato storico. Rimane indubitabile che la sua vera caratteristica e funzione è tuttavia una e una sola, e si lega a un ministero che egli acquisisce attraverso il conferimento dell’Ordine, che gli conferisce il munus sacerdotalis.
Insomma, è una persona che si inserisce nel mistero, e quindi dentro un credo.
Il mio interesse
E qui subito si accede all’analisi della sua figura per noi, anche se occorre che io mi chieda perché abbia scelto di farlo. E dica quali sono le motivazioni che, almeno consapevolmente, mi hanno indotto a farlo, in via del tutto libera.
Innanzitutto il rispetto. È questo un atteggiamento che io sento sempre di fronte all’uomo, a ogni uomo. Ho rispetto per tutti, per l’uomo 'rotto', per gli adolescenti che hanno compiuto azioni riprovevoli e inaccettabili, per i malati di mente a cui ho dedicato e dedico la maggiore attenzione; ho rispetto per ogni uomo, anche se possiede caratteristiche diverse dalle mie.
In secondo luogo, la curiosità. La curiosità per una scelta esistenziale che è 'strana' e coraggiosa, almeno per questo nostro tempo, in cui si persegue – ormai quasi inconsapevolmente – il successo, il bisogno di una identificazione che sia sempre ammantata di potere, conquistato o rubato. Un potere che nulla ha a che fare con l’autorevolezza e con il valore, e che anzi sembra porsi su coordinate contrapposte, fino a portare a dire che per il potere serve più la stupidità che l’autorevolezza o il merito. Il sacerdote, invece del potere, sceglie la povertà; invece dell’affermazione del proprio Io, che si fonda anche sulla sessualità come dominio, sceglie la castità; e invece della libertà, che nel nostro tempo significa licenza, egli sceglie l’obbedienza. E non si tratta di scelte implicite, ma espresse attraverso una rinuncia consapevole et coram populo, mediante la formula dell’impegno vincolante.
Un’altra motivazione deriva certamente dalla mia professione di psichiatra, di chi si interroga sempre su come un uomo viva dentro la società e se i bisogni che si definiscono umani vengano raggiunti o siano frustrati.
Per esprimere questa mia forza motrice in maniera sintetica, e sapendo che i sacerdoti devono rispondere al vescovo che è il capo della Chiesa locale in cui esercitano la propria missione, mi pare di poter dire che se il vescovo vuole che i suoi sacerdoti siano santi, io da psichiatra vorrei che fossero sereni e, almeno alcune volte, felici.
Le condizioni sociali
La mia attenzione cioè è rivolta alle condizioni sociali del sacerdozio, poiché sono i prolegomeni alla serenità e alla felicità . E mi chiedo se la vita del sacerdote non sia invece una lotta di resistenza alle frustrazioni che descriverebbe una sorta di masochista, anche se crede che proprio nella rinuncia al mondo si giunga alla felicità. Se così fosse, allora la mia curiosità come psichiatra crescerebbe potentemente, perché mi troverei di fronte a un uomo che fa scelte-limite, e persino contrarie a ogni teoria psicologica e di equilibrio della personalità. Insomma, se il prete con le sue rinunce è felice, allora devo rivedere tutta la mia adesione alla psicologia; se è un infelice, allora dovrei chiedermi se la sua missione sia possibile e con quali esiti.
In questo àmbito, devo ricordare storie di sacerdoti che hanno avuto o hanno una dimensione psichiatrica (e di alcuni mi sono occupato professionalmente), storie di cui parla sovente la cronaca, inaccettabili perché non rispettano i bambini, abusandone, oppure intrattengono comportamenti che stridono con il ruolo assunto e che la società si attende.
Da ultimo devo riferire di una motivazione personale che io considero molto importante perché dà il clima a questa iniziativa. Non potrei parlare della mia infanzia e adolescenza senza parlare di qualche sacerdote che ha fatto parte dell’habitat umano nel periodo in cui si è svolta la mia crescita. Quando la mia memoria vaga tra i ricordi di allora, vedo l’ombra di curati e di monsignori che hanno svolto un ruolo straordinario e fondamentale per la mia vita. Non potrei parlare di mio padre, di mia madre, di mia sorella, che mi porto dentro, sepolti nel mio ricordo, se non parlassi del loro comportamento nei confronti della Chiesa, mediato dal legame con i suoi sacerdoti. Ecco, forse devo esprimerlo chiaramente con le parole dei sentimenti: io li amo per tutto questo. Sì, e non sono credente.
Il sacerdote visto da un non credente
E me la sono posta, la domanda: possiedo io le caratteristiche per arrogarmi questo diritto a parlare?
Non sarò uno che affronta un tema senza averne gli strumenti, non diversamente da come agirei se domani mattina entrassi in sala operatoria e cominciassi un intervento chirurgico per il quale, pur essendo medico, non sono preparato, non possedendo nemmeno gli strumenti? E gli strumenti in questo caso non saranno la fede e il credere, mentre io sono un non credente?
Penso di poter sostenere, almeno per la mia esperienza, che si può amare anche chi non appartiene al proprio mondo. E penso pure che, se uno non crede, può dire che il sacerdote non gli serve, allo stesso modo per cui non gli serve l’idraulico se l’impianto di riscaldamento funziona, o non ha bisogno del dentista se ha i denti sani. Ma ciò non toglie tuttavia che si possa avere stima, e persino amare una professione, come quella dell’idraulico o dell’odontoiatra, o per l’appunto del sacerdote.
Il non credente non prova fastidio verso i credenti, alla maniera dell’ateo che li considera degli illusi quando non degli stupidi perché si affidano a false verità e vivono di errori. I non credenti sono persone che non hanno avuto un incontro personale con il Signore, di cui il sacerdote è seguace ed esempio. La fede è un dono e si lega all’incontro tra Dio e una persona, e la grandezza del cristianesimo è stata nel portare la dimensione del legame di Dio non più con un popolo eletto ma con ciascun uomo, grazie a un incontro tra il singolo uomo e Dio stesso. Insomma, è la soluzione del Dio personale. Ebbene, quell’incontro nel non credente non è avvenuto, ma ci potrà essere. E come diceva Pascal: «Non basta voler credere per credere», occorre l’esperienza. Certo la differenza tra uno che crede e uno che non crede è enorme, ma la distanza temporale può essere di solo un secondo e quella di luogo, addirittura una vicinanza.Credere, un bisogno dell’uomo
Ma dev’essere anche chiaro che il credere, prima che un’esigenza indotta da una religione, è un bisogno dell’uomo. Il bisogno di credere è umano, è di questa terra. È semmai la risposta specifica, di quel credo, di quella religione che lega al cielo e magari proviene dal cielo.
Non penso, dunque, che la mancanza di appartenenza a una fede, che significa anche la mancanza di relazione con il sacerdote nelle sue funzioni sacre, tolga la possibilità di guardarlo e di cercare di capirlo.
Essendomi dedicato per molti anni alla ricerca scientifica, e quindi all’analisi di alcuni problemi biologici – e il mio interesse era rivolto al cervello – ho imparato che ogni risultato e affermazione hanno valore entro la metodologia che si è applicata per rilevarli e quindi dentro i limiti che tale metodologia ha imposto. Ma ho imparato anche che i risultati conseguiti sovente non solo sono utili, ma pur nella loro parzialità sono straordinariamente importanti: penso alla medicina, a cui le mie ricerche erano rivolte.
Insomma, terra e cielo si toccano.
Colui che «fa» il sacro
Sacerdote è la combinazione di sacer (che significa sacro) e di dho-ts (che vuol dire fare, colui che fa), dunque etimologicamente significa «colui che compie cerimonie sacre». Il fare va proprio inteso come fare il sacro; e in questo senso è meno aderente, alla radice linguistica, la definizione di sacerdote come «colui che amministra le cose sacre».

Io lo intendo proprio come chi fa, opera. Se si guardano altre parole con la stessa radice si trova sacrare nel senso di rendere sacro, e anche sacertà come carattere sacro. Insomma, sacerdote si coniuga con sacro e quindi si impone un riferimento al sacro.
Sono molto legato a una definizione che ne ha dato un antropologo, Rudolf Otto, nel 1917, che ha dedicato uno studio al tema, Il sacro. Egli sostiene che si tratta di una categoria della mente umana, intesa proprio nel senso usato da Immanuel Kant: una forma della mente per percepire il mondo e quindi anche per condizionarne la sua conoscenza.
Esiste la categoria della ragione, con il principio di non contraddizione, che rappresenta la modalità per vedere il mondo sub specie rationale. Otto afferma che l’uomo possiede una struttura mentale che gli permette di percepire anche il mondo non sperimentabile, quella parte che si definisce il nouminosum e che ha la caratteristica non del chiaro e distinto, ma del fascinoso, e quindi di attirare e nel contempo di spaventare. Insomma, il sacro è la categoria della mente che permette di avvicinarsi al mistero, ciò che non è riducibile esclusivamente a ragione, ma che appunto entra nella comprensione anche dei sentimenti, e di uno in particolare: quello capace di attrarre e spaventare.
Il mistero, dimensione dell’umano
E’ straordinaria questa intuizione poiché mette nella configurazione della mente, che sottostà a un’anatomia del cervello, una capacità fissata nella storia dell’uomo: quella di capire il mistero, come se il mistero fosse una componente necessaria, obbligata, dell’esperienza umana, e come se fosse altro rispetto alla pura ragione, nel senso almeno che appartengono a due domini, a due bisogni distinti.
Ed è proprio così, poiché nell’esperienza umana ci sono temi che si prestano alla comprensione razionale, che ha bisogno della sequenzialità, del poter rimandare a temi da indagare, e quindi che si prestano a soluzioni non immediate, e altri che invece necessitano di risposte immediate in sé concluse. Quando noi ci troviamo in una esperienza di paura non serve capire razionalmente o scientificamente che cosa sia il terrore, ma serve essere rassicurati, e allora vale più un abbraccio di una trattazione di psicologia.
Ci sono poi temi in cui il numinoso si attiva subito: la morte che ci interroga drammaticamente sulla fine, la nascita che ci pone la questione del perché l’essere invece del nulla, il male che colpisce un bambino e verso il quale ci si sente impotenti, anche coloro che dovrebbero proteggerne l’esistenza.
Rudolf Otto dice dunque che il sacro è una categoria della mente che esprime il bisogno di avere una risposta immediata, senza rimandare ad altro come sovente accade per la scienza o il ragionamento .
Sacro e religioso
Da questo richiamo si pone una distinzione netta tra sacro e religioso. Religioso significa legame (da religio), ed è bellissimo poiché il legame ha una funzione di rassicurazione. I sentimenti sono i legami che una persona stabilisce con un’altra, e nel legame si seda la paura.
Ebbene, la religione è la risposta ai bisogni del sacro. Dunque, il sacro è umanissimo, ed è esperienza di questa terra; e la religione è la risposta totale, senza dubbi, senza rimandi, affermata persino da un’autorità che ha il nome di Dio, dell’Assoluto.
Il sacerdote dunque è, dal mio punto di vista, un uomo religioso che dà risposte – attraverso gesti, liturgie, cerimonie – ai bisogni del sacro che ogni uomo prova.
Se il sacro è una funzione della mente, e dell’essere uomo, e una caratteristica potremmo dire della sua biologia, allora si capisce bene perché a proposito del sacerdote si parla anche di una funzione sociale, ossia di un livello squisitamente terreno della sua funzione.









LOURDES, 150 ANNI DOPO
IL MIRACOLO DAVVERO PIÙ GRANDE QUI NON SI VEDE
MARINA CORRADI
Avvenire, 12.2.2008
Lourdes, sono passati 150 anni. 150 anni sono moltissimi per la me­moria e le passioni degli uomini. In questo stesso arco di tempo sono na­te, e tramontate, le ideologie più po­tenti della modernità. Rimane vivo invece il ricordo di una ragazzina a­nalfabeta che in un paese dei Pire­nei affermò l’incredibile: di avere vi­sto, di avere parlato, addirittura, con la Madonna.
Un secolo e mezzo dopo, milioni di persone continuano ad andare a Lourdes. E certo, a chiederne ragione a qualcuno dei maestri del laici­smo d’ordinanza, ti spiegherebbe con un sorriso di condiscendenza che di superstizione si tratta, alimentata dal bisogno e dal dolore degli uomini. C’è però un fatto, a Lourdes, che meriterebbe una spiegazione più attenta. Ed è che una molti­tudine di persone continui ad an­darci, e spesso a tornarci per tutta la vita. Come in un passarsi la parola, da 150 anni. Pur non avendo otte­nuto il miracolo di una guarigione e­clatante, tornano. Cosa che razio­nalmente non si spiega se non col fatto che a Lourdes hanno trovato qualcosa, per cui vale la pena di an­dare, e tornare.
Che cos’è questa cosa nascosta e po­tente che riempie ancora i treni dei pellegrini in viaggio nella notte at­traverso un’Europa secolarizzata? Non sono tutti malati. Ci sono ra­gazzi, c’è gente in perfetta salute che, ogni anno, ritorna. Per capire biso­gna guardare le facce alla mattina presto, in coda davanti alle piscine. Migliaia di donne e uomini venuti dai più lontani angoli del mondo: borghesi occidentali e contadine sla­ve, africani e indiani, ottuagenari e donne incinte. (Difficile, inquadrare sociologicamente questo popolo. Li si direbbe, guardandone le espres­sioni tranquille nell’attesa paziente, semplicemente uomini – come ri­dotti a una domanda comune e es­senziale).
Uomini e donne, venuti a domanda­re. Non necessariamente una guari­gione. Più spesso, la forza di andare avanti; un senso per cui valga la pe­na di andare avanti con tutte le pro­prie sofferenze, visibili o nascoste. Vengono a domandare speranza. Ciò che non si trova facilmente nelle no­stre città assordate di voci, nei nostri centri commerciali debordanti di o­gni oggetto di desiderio. A volte, nemmeno in molte delle nostre ca­se, dove di ciò che più importa si fa­tica a parlare.
Lourdes è in realtà come la mano te­sa di un mendicante – migliaia, mi­lioni di mani spalancate. Il miracolo quotidiano e umile di Lourdes è che tanti qui ritrovano speranza. Spe­ranza come un filo sottile ma forte – come il rosario stretto in pugno, qua­si ad aggrapparcisi, dalla gente nella basilica. Il miracolo più grande a Lourdes non si vede, e non vale una colonna sui giornali. È nella faccia di tanti che la sera se ne escono dal san­tuario, facce da uomini non ranco­rosi o disperati o cinici, ma fiducio­si. Facce di uomini in pace.In questo posto la fede più facil­mente che altrove si fa – secondo la espressione di Benedetto XVI nella Spe Salvi – già hyparxin, già sostan­za di ciò che spera. Non un proten­dersi verso un futuro promesso e lon­tano, ma già il principio tangibile del­la promessa. Sostanza concreta, che già cambia la vita: in cui la giornata si apre in un altro respiro – così co­me nella attesa di un destino buono anche un presente duro si fa sop­portabile. È per via di questa 'so­stanza' che in milioni vanno a Lour­des, dove misteriosamente la spe­ranza si tocca come l’acqua della fon­te, con le mani. Si passano la parola, mandano i figli e i figli dei figli. E son passati centocinquant’anni, ormai.






Conformismo ghibellino e Italia con troppa politica

Non c’è la Chiesa dietro alla temuta «ondata neoguelfa»
Corriere della Sera
di Ernesto Galli Della Loggia

È una bella immagine quella dell' «ondata neoguelfa », uscita dalla penna di Aldo Schiavone in un articolo di qualche giorno fa su la Repubblica. A stare al quale nell'Italia di oggi, a causa del degrado della vita politica e dell'etica pubblica, starebbe andando ancora una volta in scena «un'antica tentazione» della nostra storia politica e intellettuale, vale a dire «la rinuncia allo Stato », percepito come qualcosa di fragile che «non ce la può fare», e la sua sostituzione con una sorta di «protettorato super partes» attribuito al Papa: fino al punto di fare del magistero della Chiesa «il custode più alto della stessa unità morale della nazione ». Insomma, un vero meccanismo di supplenza, alimentato dall'illusione che «una religione possa occupare il posto della politica e del suo discorso». L'analisi di Schiavone ha precedenti illustri. Che la statualità italiana da un lato, e la Chiesa e il cattolicesimo romano dall'altra, siano due termini sostanzialmente antitetici fu opinione corrente durante il nostro Risorgimento. Che non a caso si compiacque di riprendere l'antica esecrazione antichiesastica di Machiavelli e Guicciardini (puntualmente citata anche da Schiavone), additando altresì nella Controriforma una delle massime fonti della rovina d'Italia: «Quando a noi toccò la parrocchia — scrive anche il nostro autore — mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati». Qualunque sia l'effettiva plausibilità di questa interpretazione della nostra storia, dubito assai che essa possa farci capire quanto sta accadendo nell'Italia attuale. Riportare sempre tutto, anche fenomeni palesemente e radicalmente nuovi (che dimostrano di essere tali, tra l'altro, proprio tendendo a ridisegnare secondo linee inedite gli schieramenti del passato), riportare sempre tutto, dicevo, come ama fare la maggior parte della cultura italiana, nell'ambito tradizionale delle dicotomie Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista, mostra solo quanto quella cultura sembri interessata più che alla realtà, più che a comprendere la novità dei tempi, a mantenere ad ogni costo saldo e credibile l'antico universo dei suoi valori e dei suoi riferimenti.
Com'è possibile, mi chiedo, non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca — di cui le dicotomie italiane di cui sopra sono parte — sta oggi diventando un reperto archeologico? Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni — e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia industriale- capitalistica a tutto il mondo, e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera più intima del
bios — tutta la nostra vita sociale, a cominciare dalla politica, con le sue confortevoli certezze culturali e i suoi valori, deve essere ripensata e ridefinita?
Come non accorgersi che è per l’appunto questa pervadente crisi di senso, e dunque questo drammatico interrogativo sul futuro, a segnare l’attuale drammatico passaggio tra due epoche storiche? E che sono per l’appunto questi fatti, non altro, che rilegittimano potentemente la dimensione religiosa candidandola a occupare nuovamente, in tutto l’Occidente, uno spazio pubblico? Ma se le cose stanno a questo modo— mi domando ancora — chi potrà mai scandalizzarsi se in un Paese come il nostro, con la sua tradizione, il risveglio della dimensione religiosa implichi immediatamente anche il risveglio della voce e della presenza della Chiesa cattolica? Va bene, si obietta, ma si tratta di una voce e di una presenza assolutamente fuori misura. In realtà a me pare che l’impressione di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente sui temi etici (che poi sono anche politici e viceversa, come troppo spesso i denunciatori dell’«ingerenza » non vogliono vedere) è in grande misura favorita dal carattere intellettualmente pigro e ideologicamente conformista della nostra cultura, diciamo pure dalla sua assenza. Il rilievo non riguarda certo Aldo Schiavone che anzi con il suo Storia e destino (Einaudi 2007) ha rappresentato un caso di riflessione originale e coraggiosa sui grandi temi della rivoluzione tecnoscientifica in atto.
Ma un caso raro. È un fatto che invece la cultura laica italiana si è perlopiù abituata oramai a sposare in modo sostanzialmente acritico tutto ciò che abbia a qualunque titolo il crisma della scienza. Non ne parliamo poi se la novità ha modo di presentarsi come qualcosa che possa rientrare nella sfera di un diritto quale che sia. Una sorta di idolatria della scienza opportunamente insaporita da un libertarismo da cubiste è così divenuto la versione aggiornata e dominante del progressismo e del politicamente corretto nostrani. Invano, da noi, si cercherebbe un Habermas, un Gauchet, un Didier Sicard che animano di dubbi e di domande la discussione in altri Paesi. I fari dello spirito pubblico italiano sono ormai Umberto Veronesi e Piergiorgio Odifreddi. Tutto il resto è silenzio. In questa stupefacente condizione di resa intellettuale ai tempi, non c’è da meravigliarsi se la dimensione religiosa e la Chiesa, rimaste di fatto le sole voci significative a obiettare e a parlare una lingua diversa, raccolgano un’attenzione e un ascolto nuovi da parte di chi pensa che esistano cose ben più importanti della scienza. E che anche per ciò, dunque, esse sembrino assumere contorni di particolare rilievo superiori alla loro effettiva realtà.
Inevitabilmente nel silenzio ogni sussurro sembra un grido. Tutto ciò ha poco a che fare con qualche supposto vuoto di politica e di Stato che caratterizzerebbe l’Italia di oggi, secondo quello che invece mostra di credere Schiavone. Se infatti il punto realmente critico della condizione italiana, come a me pare, è l’assenza da parte della nostra cultura di vera discussione pubblica intorno ai grandi temi del Paese e dell’epoca, nonché l’appiattimento conformistico di quella medesima cultura, ebbene allora una parte non piccola di responsabilità ne porta proprio non già il vuoto, ma l’eccesso di politica, in cui siamo stati fino ad oggi immersi. È stata la crescente, spasmodica, politicizzazione del discorso pubblico, di qualunque discorso pubblico, che ha imprigionato l’intellettualità italiana riducendola oggi, checché se ne dica, a una delle meno vivaci e meno interessanti d’Europa.
Facendone altresì, da sempre, in mille ambiti, e tranne pochissime eccezioni, un’articolazione di fatto del sistema politico e della sua ideologia, e dunque rendendola incapace di alimentare la politica stessa di valori e di punti di vista nuovi. Questo corto circuito politica-cultura viene da lontano. Risale alla nascita stessa dello Stato italiano, alla cui origine vi fu una supplenza decisiva: quella per l’appunto rappresentata dalla necessaria iperpoliticizzazione (allora «rivoluzionaria », ma non solo allora) di alcune minoranze—e tra queste la cultura e gli intellettuali furono come si sa in prima fila — al fine di ovviare ad un vuoto decisivo: l’assenza dell’anima profonda del Paese e del suo consenso generale, l’assenza della nazione. È stata altresì questa iperpoliticizzazione—diciamo così—originaria della compagine statale italiana la responsabile immediata dell’ipertrofia statalista che ci accompagna dal 1861. Per potersi esercitare su una società riluttante e lontana di cos’altro poteva servirsi la politica, infatti, se non dello Stato? Insomma, in un implacabile gioco di rimandi, solo all’apparenza contraddittori, il deficit di Stato nazionale ha reso inevitabile l’ipertrofia dello Stato. Ma di uno Stato che non ha potuto essere, nella sostanza, che uno Stato politico-amministrativo: per giunta quasi sempre monopolio politicamente di una parte e amministrativamente quasi sempre inefficiente.
Tutt’altra cosa cioè dallo Stato della nazione, capace invece di incarnare una dimensione realmente rappresentativa di istanze comuni a tutti i cittadini nonché di un’etica pubblica diffusa. Insomma, appellarsi oggi in astratto, come è tentato di fare Schiavone, allo Stato e alle culture politiche come dimensioni in quanto tali salvifiche — per resistere all’«ondata neoguelfa», così come per qualunque altro scopo — serve solo a nascondere il vero dramma dell’Italia, la quale cela proprio nell’ambito dello Stato e della politica le contraddizioni sempre più paralizzanti della sua storia.
12 febbraio 2008


PROPOSTA DEL MPV

Il presidente del Movimento per la vita chiede un impegno preciso a Udc e Rosa bianca
La sfida di Casini: «Mettete la vita al primo punto dei programmi» DI PAOLO VIANA
Avvenire, 12.2.2008
Mettere la di­fesa della vita al pri­mo punto del programma e­lettorale: è que­sta la sfida lan­ciata da Carlo Casini ai partiti che dichiarano di avere delle radici cristiane.
Il leader del Movimento per la vita va ben oltre la 'provo­cazione' di Giuliano Ferra­ra, che nelle scorse settima­ne ha auspicato la nascita di una formazione e­lettorale tutta incentrata sul diritto alla vita. Le regole eletto­rali rendono impraticabile quella via, la semplificazione del quadro politico archivierà ogni forma di trasversalismo e l’esperien­za dell’Unione insegna che un programma equivoco sui temi bioetici si trasforma presto in una zavorra pesantissima per qualsiasi esecutivo. Quindi, non serve una 'lista di scopo', ma uno 'scopo' dichiarato per tutte quelle liste che aspirano a catturare il voto dei cattolici. È precisamente ciò che Casini propone in una lettera indirizza­ta al direttore de Il Foglio e ai lea­der dell’Udc e della Rosa bian­ca, i due partiti che si richiama­no alla dottrina sociale della Chiesa e per i quali, annota, «è fuori discussio­ne la difesa del­la vita intesa nel­la sua massima ampiezza».
Casini non dissi­mula la propria storia né le rela­tive apparte­nenze: già eu­roparlamenta­re con l’Udc, da trent’anni e più al vertice della più importante organizzazione pro-life del Paese, in prima fila in tutte le battaglie bioe­tiche, il magi­strato fiorentino getta un pon­te tra il partito di Pierferdi­nando Casini e quello nascen­te di Savino Pezzotta. I due in­terlocutori del popolo della vi­ta sono stati scelti anche per e­sclusione. Casini parla di una «insuperabile difficoltà a so­stenere partiti di sinistra» per via del «loro rigido e talora ag­gressivo muro di incompren­sione rispetto alle tematiche della vita nonostante la con­traddizione con le parole di so­lidarietà che pronunciano». Può darsi, ammette, che in fu­turo «tale incomprensione possa essere mitigata, ma in­tanto sono in gioco - subito, o­ra - vite umane, discrimina­zione, degrado culturale. Tale deriva può essere fermata an­che dalla politica. Non solo la politica, ma anche dalla poli­tica, dai partiti e dai voti».
Insomma, «crollerà il muro, ma per ora bisogna guardare all’essenziale» e questo 'es­senziale' è racchiuso nella for­mula che lui stesso ha vergato su Avvenire il 7 febbraio scor­so: «Questo partito riconosce il diritto alla vita di ogni essere u­mano fin dal concepimento e ritiene suo dovere giuridico primario proteggerlo». In po­che righe c’è tutta la storia del Movimento per la vita e delle sue battaglie, fino alla legge 40 e alle recenti polemiche sulla pillola abortiva. Questa frase, spiega Casini, dovrebbe cam­peggiare all’inizio del pro­gramma elettorale delle for­mazioni politiche che si impe­gnano a difendere fattivamen­te il diritto alla vita. Il proposi­to, dichiarato, è vincolarne i candidati e soprattutto gli e­letti, caratterizzando la propo­sta politica in modo inequivo­cabile, indicando una rotta a prova di 'indecisi' e quindi e­vitando i ripensamenti e le po­lemiche che hanno indeboli­to, forse in modo decisivo, il governo Prodi. A quanti, anche nel mondo cattolico, pur pro­fessando gli stessi principi, po­trebbero non considerare cru­ciale questa sfida, Casini repli­ca che «la questione è la prio­rità del diritto alla vita rispet­to ad ogni altro problema. Non la solitudine, ma la priorità». E a coloro che potrebbero teme­re una deriva integralista, chia­risce come da questo patto, parta «una nuova nobile visio­ne della laicità. Qui, oltre ogni apparenza, è ontologicamen­te la premessa di un incontro, non tattico, ma profondo tra la ragione cristiana e la ragione laica» scrive.
Il 'patto per la vita' targato MpV non è dissimile da quel­lo ipotizzato da Ferrara con la 'lista di scopo'. Quell’idea per Casini «è in sé grandiosa an­che perché colloca la radice questione antropologica nella dimensione planetaria ed e­pocale e sottolinea la respon­sabilità dell’Italia rispetto al­l’Europa e al mondo. Essa è molto suggestiva, specie te­nendo conto della larghissima fascia degli scontenti della po­litica che in una lista per la mo­ratoria troverebbero una ra­gione unica ma semplice e chiara per il loro voto». Il de­stinatario del progetto ferra­riano era tuttavia Berlusconi, il quale, appoggiando la pro­posta di moratoria dell’aborto lanciata dal Foglio, ha dato tut­to quel che poteva dare. Casi­ni lo sa bene e infatti punta il faro sui centristi e offre loro un 'gene' capace di marcare in modo inequivocabile il loro D­na e garantire agli elettori, con un pronunciamento program­matico e per ciò stesso valido erga omnes, che alle dichiara­zioni ideali corrisponda un comportamento di assoluta coerenza dei gruppi parla­mentari. Al lordo, ovviamente, di clamorosi voltafaccia dei singoli eletti.
«I programmi elettorali - chie­de - promettano prima di tut­to l’uguale dignità di ogni es­sere umano fin dal concepi­mento e considerino l’effetti­va realizzazione di un tale i­deale con coerenza in ogni ambito. Il resto, il 'come' del­la protezione in equilibrata at­tenzione alle condizioni di tut­ti si vedrà dopo. Ma un patto per la vita mi sembrerebbe og­gi essenziale. Da qui prende concretezza la dottrina socia­le cristiana». È chiaro che Ca­sini si aspetta che il 'suo' Udc accolga la proposta, coronan­do una storia «senza screpola­ture in favore del diritto alla vi­ta sia nei voti, sia nelle inizia­tive »: il popolo della vita - sot­tolinea la lettera aperta - non dimentica la Legge 40, varie mozioni, la commissione di in­dagine sulla 194, l’impegno per contrastare in Europa la devastante posizione di Mus­si sulle cellule staminali em­brionali ed inoltre la vicenda dei pacs, del testamento bio­logico, ecc. Anche la Rosa Bianca, però, non dovrebbe sottrarsi, secondo il Mpv, in quanto «essa non sussistereb­be senza l’iniziativa di Pezzot­ta » e il sindacalista bergama­sco, pur al termine di una lun­ga carriera nella Cisl, è «emer­so vastamente nell’opinione pubblica» dopo il Family day e in quanto «rappresentante del popolo della vita e della fami­glia ». Anche sul suo conto Ca­sini non ha dubbi: pur essen­do convinto che la formazio­ne centrista pagherà un prez­zo elevato sull’altare della («i­niqua ») legge elettorale, che ai cattolici convenga contenere «l’eccessiva frammentazione» e che l’alleanza sulla vita non possa produrre «una fusione o un’incorporazione» tra i due partiti, il leader del MpV si di­ce certo che «la 'Rosa bianca', se riuscirà ad avere una rap­presentanza in Parlamento di­fenderà il diritto alla vita».

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