mercoledì 27 febbraio 2008

IL PAPA SUL RISPETTO DELLA VITA INDIVIDUALE

Non è forse l’uomo reale quello che siamo e incontriamo ogni giorno, quello che viene concepito, nasce, cresce, studia e lavora, ama la propria moglie o il proprio marito, mette al mondo i figli e li educa, spende ogni giorno la propria vita per qualcuno o qualcosa, si ammala, soffre e muore?

Strano il discorso sull’uomo che non parte dall’uomo
Avvenire 26 febbraio 2008
ROBERTO COLOMBO

La questione della vita umana, della sua accoglienza e del suo rispetto incondizionato, non è e non può essere considerata come un affare speciale della società e della politica, di cui alcuni ne fanno lo scopo quasi esclusivo del loro pensiero e della loro azione mentre i più la censurano o la mettono tra parentesi perché ritenuta 'problema scomodo' o 'sconveniente', 'impopolare'.

Il cuore di ogni famiglia, comunità, società o politica è ciascuno di noi. Il loro centro di gravità è l’uomo stesso e la sua vita concreta, che riguarda tutti e tutto. In quanto vive, l’uomo afferma il suo esserci e l’essere di ogni altro uomo.

Una esperienza sorprendente e ineludibile al tempo stesso, alla cui origine e al cui destino si appella la nostra stessa libertà. Non è forse l’uomo reale quello che siamo e incontriamo ogni giorno, quello che viene concepito, nasce, cresce, studia e lavora, ama la propria moglie o il proprio marito, mette al mondo i figli e li educa, spende ogni giorno la propria vita per qualcuno o qualcosa, si ammala, soffre e muore?

Nel suo discorso alla pontificia Accademia per la vita, Benedetto XVI ha definito il «rispetto della vita umana individuale» come «una delle sfide più urgenti del nostro tempo». Una sfida da affrontare non astrattamente, ma a partire dall’accoglienza del quotidiano, silenzioso grido di aiuto, della sua domanda di senso e di amore, dell’insopprimibile evidenza ed esigenza del cuore dell’uomo, che sente di essere costituito per la felicità mentre fa fatica e soffre, che è fatto per vivere anche mentre sta morendo.

Nulla è più incomprensibile per l’uomo di un discorso su di lui che non parta da lui, che metta tra parentesi la drammaticità della sua esperienza, la realtà in cui consiste la sua vita, il suo amore e la sua speranza.

Riprendendo la sua ultima enciclica, il Papa ci ricorda che «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. [...] Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana». ( Spe salvi,

38) Ogni discorso o proposta circa l’uomo che soffre per una malattia inguaribile – congenita, oncologica o neurodegenerativa che sia – è un gesto «crudele e disumano» se non parte da quella che il Papa ha chiamato, con una espressione sintetica e potente, la «solidarietà dell’amore» che icasticamente è espressa nell’«abbraccio» di Madre Teresa di Calcutta verso «i poveri e i derelitti» nel «momento della morte», evocato da Benedetto XVI. Una testimonianza, quella del credente, che precede, accompagna e rende pienamente ragionevole l’inaccettabilità dell’abbandono della cura del malato inguaribile e del morente ed del ricorso all’eutanasia, ribadita nello stesso discorso «secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa».

La Chiesa e la società hanno bisogno, per rinnovare e consolidare una fattiva «solidarietà dell’amore» verso chi soffre e muore nella solitudine e nell’abbandono, di quello «spettacolo della carità» che la testimonianza dei credenti e non credenti ha saputo dare e tuttora offre al mondo.

Una testimonianza che, traducendosi in impegno sociale e politico, sia capace di contrastare le «spinte eutanasiche [che] diventano pressanti, soprattutto quando si insinui una visione utilitaristica nei confronti della persona».

Gli esempi citati da Benedetto XVI sono semplici e persuasivi, quasi programmatici: terapie adeguate e proporzionate per alleviare il dolore, accessibili a tutti; «sostegno alle famiglie più provate dalla malattia di uno dei loro componenti, soprattutto se grave e prolungata»; congedi di lavoro per assistere un congiunto nella fase terminale della malattia; e contributi per sollevare il «peso della gestione domiciliare di malati gravi non autosufficienti».

Proposte realistiche e praticabili per abbracciare e condividere il dolore di un uomo reale, quello che soffre, e di coloro che lo amano, i suoi cari. E se ripartissimo da qui per affrontare nella società e nella politica la questione della malattia inguaribile e del morente?

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