domenica 24 febbraio 2008

IL SENSO DEL BELLO IL SENSO DELLO STATO

...Come terzo punto, devo ora mantenere la promessa che ho
fatto all’inizio, quella di mostrare che il liberalismo di
Hume è, sui punti fondamentali, lo stesso liberalismo di
don Giussani e perciò che un terreno comune fra liberali
laici e liberali cattolici esiste ed è saldo.....


Rimini, Meeting dell’amicizia, 18 agosto 2002
1. Bellezza e stato: due tipi di connessione
Marcello Pera


Il titolo che mi è stato assegnato per questo intervento
inaugurale sembra una sfida al senso logico comune, come
accade ad alcuni titoli dei Meeting dell’amicizia di
Comunione e Liberazione di Rimini, i quali talvolta sono
provocatori, misteriosi, criptici, ma comunque sempre
intriganti. Quale rapporto infatti può esistere fra senso del
bello e senso dello Stato? Apparentemente, nessuno.
In realtà, ad una riflessione appena appena
approfondita, quel titolo - più precisamente, quel tema:
bellezza e politica - stabilisce una connessione che ha un
significato profondo e, come cercherò di mostrare, anche
ricco di conseguenze pratiche, morali e politiche.
Per avere un’idea di questa connessione, basta
ricordarsi di Platone. Come è noto, lo stato ideale di
Platone è perfetto perché ordinato secondo l’idea del bene.
Ma, come anche è noto, per Platone l’idea del bene è lo
stesso che l’idea del bello, perché bene, bello, giusto
ammontano alla medesima cosa: armonia, simmetria,
ordine, proporzione, misura, perfezione. Chi costruisce lo
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stato all’insegna del bene, lo costruisce all’insegna del
bello. Perciò il costituente di Platone che traccia nella
società la costituzione dello stato è come un pittore che
traccia sulla tela la figura delle cose (o, per usare un’altra
analogia cara a Platone, come il demiurgo che estrae il
cosmo dal caos): se il modello del pittore è bello, il quadro
sarà bello; se il modello del costituente è divino, la
costituzione sarà perfetta.
Per Platone, una connessione stretta fra bellezza e stato,
dunque, esiste. Un costituente che abbia il senso del bello -
e notoriamente il costituente di Platone questo senso ce
l’ha, perché è un filosofo che a tal fine è educato - da
questo senso del bello deriverebbe il senso dello stato, anzi
la vera costituzione dello stato.
Questa però non è l’unica connessione che si può
stabilire fra bello e stato. Ce n’è almeno un’altra, che io
trovo più attraente, più realistica e soprattutto più
confacente alla nostra situazione moderna, compresa la
nostra situazione europea e italiana.
La connessione di Platone è di questo tipo: il
costituente, il politico, contempla la bellezza e poi la
realizza. Secondo quest’altra connessione cui mi riferisco
invece il politico vede nascere la bellezza e poi la
asseconda. La differenza è grande. Nel primo caso, la
bellezza è una cosa da riprodurre; nel secondo caso, la
bellezza è un processo che si produce. Nel primo caso, lo
stato è l’immagine statica della bellezza; nel secondo caso,
lo stato è un veicolo dinamico che consente alla bellezza di
realizzarsi. Ancora: nel primo caso, c’è un pittore della
bellezza, il pittore della costituzione vera; nel secondo
caso, nessuno dipinge alcunché, la costituzione vera non
esiste, e il costituente, anziché facitore di un ordine o di un
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disegno da lui tracciato, è un favoreggiatore di un ordine da
lui trovato.
Quest’altra connessione fra bellezza e stato a cui mi
riferisco dipende naturalmente da una filosofia diversa da
quella di Platone. La filosofia di Platone è la filosofia del
totalitarismo; quest’altra è la filosofia del liberalismo.
Forse a causa del mio pregiudizio laico, ho scoperto tardi
che questa seconda filosofia è anche la filosofia che anima
Comunione e Liberazione, almeno fin dal discorso di
Assago del 1987 di don Luigi Giussani. Se così è, allora
vuol dire che liberali laici e liberali cattolici hanno un
solido terreno comune su cui possono camminare assieme.
Il mio scopo qui è mostrare che così è. Mi concentrerò
su quattro punti. Dapprima illustrerò la connessione
platonica fra bellezza e stato che è all’origine dell’ordine
totalitario. Poi esaminerò la connessione che invece
produce l’ordine liberale, quella nata soprattutto per merito
di David Hume. Cercherò quindi di mostrare che questa,
per gli aspetti rilevanti, è la stessa concezione che si ricava
dalla lezione di don Giussani. Infine, tenterò una apologia
dell’ordine liberale.
2. La connessione totalitaria
Platone era ossessionato da un problema che molti altri,
dopo di lui, hanno avvertito in modo acuto e che anche noi
avvertiamo, sia pure in circostanze assai diverse (dopotutto,
a differenza di Platone, abbiamo alle spalle la Prima
Repubblica, Tangentopoli e Mani pulite, non il governo dei
Trenta Tiranni!). Il problema di Platone era: come mettere
ordine, rigenerare, risollevare, cambiare, correggere, uno
stato che risulta in preda a decadenza dei costumi,
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corruzione politica, degenerazione morale, lotte civili,
instabilità di governo?
Ci vorrebbe, si rispose Platone, uno scienziato della
politica, un “maestro di virtù”, come lui lo definiva. Ma
questo maestro, si disse sconsolato Platone guardandosi in
giro, non solo non c’è, anche se ci sono molti candidati, ma
sembra che non possa neppure esserci, primo perché la
virtù non è insegnabile, secondo perché quei pochi che la
virtù la posseggono ce l’hanno per caso, non la conoscono
per scienza. “A meno che …”.
Con questo “a meno che” inizia la filosofia politica di
Platone. “A meno che - egli scrive nel Menone - non si
trovi un politico capace di formare altri politici. Se un tale
uomo esistesse … egli, rispetto alla virtù, sarebbe come un
essere reale fra ombre” (Men. 100a). Insomma, sarebbe
come un sapiente fra ignoranti, un condottiero fra sbandati,
una guida fra ciechi.
Ma si trova questo politico? Sì, si trova, rispose
Platone. Costui è il filosofo (Platone, naturalmente, con la
stessa modestia dei politologi e intellettuali d’oggi, pensava
a se stesso). Il filosofo è uno che non si ferma alle cose o
alla superficie; guarda in profondità, guarda alle forme, alle
essenze, alle idee, dietro o sopra o dentro le cose. Queste
idee il filosofo le conosce da sé solo, per intuizione, per
contemplazione, grazie al nous, al pensiero noetico.
Tra le idee che il filosofo contempla, la principale è
l’idea del bene. Ho già detto che si tratta dell’idea di un
ordine perfetto, in cui ogni cosa è al suo posto naturale,
quel posto, appunto, che è “bene” che occupi. Questa idea
del bene è anche l’idea della giustizia, perché, per Platone,
la giustizia, applicata all’individuo, equivale ad “esplicare
[ciascuno] i propri compiti” (Rep. 433b) e, applicata alla
società, ad assolvere, da parte delle classi sociali, ciascuna
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la funzione che le spetta per natura o che è “bene” che
svolga per natura, gli artigiani produrre, i guerrieri
combattere, i governanti reggere lo stato. E questa idea del
bene e del giusto è anche l’idea del bello, perché, come
scrive Platone, “la misura e la simmetria risultano
dovunque bellezza e virtù” (Phil. 64e).
Avendo “visto la verità su bello, giusto e bene ” (Rep.
520c) ed essendo vissuti “in armonia con ciò che è divino e
ordinato” (Rep. 500c), i filosofi di Platone possono mettersi
all’opera e diventare, per usare la sua espressione, “pittori
di costituzioni”. Prima, “guardano a oggetti ordinati e
sempre invariabilmente costanti e osservano che … se ne
stanno tutti ordinati secondo un principio razionale” (Rep.
500c). “Potrà mai uno stato essere felice se non è disegnato
da quei pittori che dispongono [di questo] modello divino?”
(Rep. 500e). Poi, preparano il terreno per la pittura: “dopo
aver preso, come se si trattasse di una tavoletta, lo stato e i
caratteri umani, lo renderanno puro” (Rep. 501a); in altri
termini, faranno un’opera di pulizia, una tabula rasa
sociale. Infine, si metteranno a dipingere il quadro e
“tracceranno lo schema della costituzione” (ibidem), anzi
dell’unica vera costituzione, perché il modello è, appunto,
divino: “completando il lavoro, guarderanno spesso da una
parte e dell’altra, a ciò che per natura è giusto bello
temperante e così via e in rapporto a quello a loro volta lo
faranno nascere negli uomini” (Rep. 501b).
Tiriamo le somme. Platone descrive questo processo,
questo disegno di una costituzione etica ed estetica della
società, in termini divini. In realtà, si tratta di un’opera,
generosa quanto si vuole, dalle conseguenze diaboliche. Per
rendersene conto, basta riflettere che quest’opera comporta,
fra le altre,
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- l’idea che la società si possa plasmare come una
statua al tornio o una figura su una tela a partire da un
disegno, un modello;
- l’idea che la società così plasmata sia e debba essere
un organismo armonico o un artefatto ben proporzionato;
- l’idea che in questa società ciascuno, individuo o
gruppo o classe che sia, abbia il suo luogo o il suo còmpito
naturale;
- l’idea che in una società siffatta i desideri, le
volizioni, le ambizioni, le aspirazioni degli individui non
contano. Se fai per nascita un mestiere, quello e solo quello
devi fare per tutta la vita: “l’attendere a troppe cose e lo
scambiarsi di posto delle tre classi sociali - scrive Platone
- sono un danno assai grave per lo stato e si potrebbero
con piena ragione denominare un enorme misfatto” (Rep.
434c).
Da idee come queste scaturisce, e di fatto è scaturito di
tutto e di peggio. È scaturito il collettivismo, il comunismo,
il totalitarismo, il costruttivismo, il giacobinismo, lo
stalinismo, il fascismo. Sono scaturite la polizia segreta, la
censura, i campi, i gulag, le deportazioni, le scomuniche, le
purghe, le pulizie etniche, la shoa.
Giusto e sacrosanto, ma purtroppo inutile,
scandalizzarsi: se c’è una costituzione vera e perfetta che
assicura a tutti la felicità, perché lamentarsi che nella
felicità del tutto qualcuno perda la propria e anche la vita?
Si ricordi che, nel celebre mito della caverna, nel settimo
capitolo della Repubblica, Platone scrive che i prigionieri
della caverna farebbero resistenza a quelli che, ridiscesi tra
loro, avessero visto fuori alla luce le vere figure delle cose,
al punto che “chi prendesse a sciogliere e a condurre su
quei prigionieri forse lo ucciderebbero, se potessero averlo
tra le mani” (Rep.517a). Naturalmente, accade il contrario:
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sono quelli che sono stati su, che hanno visto la verità, che
hanno il dovere di imporre, anche con la violenza, la loro
verità a noi che siamo sempre restati quaggiù.
A questo punto mi si obietterà: che c’entra Platone e gli
altri che lo hanno séguito nell’idea di tracciare costituzioni
ideali con le conseguenze disastrose che ho menzionato?
La colpa è dei pittori, non della bellezza. Se anziché
dipingere una “bella” costituzione totalitaria, dipingessero
una “bella” costituzione democratica, le conseguenze non
sarebbero diverse e positive?
Rispondo di no. La colpa è del genere di impresa in cui
i pittori di costituzioni si imbarcano e del genere di
filosofia sottostante a questa impresa. Una bella
costituzione democratica è meglio di una bella costituzione
totalitaria, non c’è dubbio. Ma una bella costituzione
democratica che fosse scritta da chi pretendesse di sapere
che cos’è la virtù per ogni cittadino o gruppo o classe, di
conoscere qual è il bene per ciascuno, di insegnare come
ciascuno deve essere felice, di comprendere e prevedere
qual è l’assetto sociale ottimo o migliore, di stabilire la
“giusta” ricompensa, il “giusto” salario, il “giusto” canone,
insomma, una costituzione che stabilisse che cosa è la
giustizia nella società, resterebbe una costituzione
perniciosa, anche se democratica e scritta da democratici.
Non porterebbe ai gulag, certo, ma porterebbe allo stato
padrone, paternalistico, invadente, burocratico. E non
porterebbe alla società libera, ma alla società vincolata,
legata, impacciata, pianificata, progettata, alla società che,
per agire, ha bisogno di concessioni, licenze, permessi, alla
società che deve districarsi fra obblighi, divieti, proibizioni,
alla società che, per sopravvivere ed esprimersi, deve farsi
furba, un po’ ladra, un po’ criminale, un po’ colpevole.
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La colpa, ripeto, non è di Platone, e neanche di
Rousseau o di Stalin o di tutti gli altri che li hanno imitati e
aggiornati. La colpa non sta nello stabilire una connessione
fra bellezza e stato. La colpa sta nel credere che possa
esistere uno stato bello e fare della bellezza una proprietà
naturale, una cosa definita e definibile a priori, con un atto
autoritario di alcuni filosofi, come riteneva Platone, o
magari con libere elezioni, come ritengono i moderni
democratici. E la colpa sta nel credere che lo Stato bello
abbia più valore e più diritto del singolo cittadino e che le
azioni del singolo cittadino e della società civile debbano
essere guidate, indirizzate, rese virtuose dall’opera dello
stato bello.
Se mi si obiettasse che oggi siamo tutti vaccinati
rispetto a colpe siffatte, risponderei che vorrei che così
fosse ma temo che così non sia. Quando, ancor oggi, nel
nostro dibattito politico italiano, sento dire che occorre un
“progetto di società”, la mia mente corre ancora una volta
ai sogni tante volte infranti. Quando vedo che si vuole
costruire un’Europa non con la consapevolezza che essa è
un’istituzione utile per soddisfare esigenze, ma con la
retorica che essa ci renderà tutti virtuosi, grazie alla sua
costituzione e ai suoi parametri, la mia mente ancora una
volta corre alle illusioni illuministiche o giacobine di
disegnare il paradiso per portarlo sulla terra. Quando sento
dire che la nostra società è malata perché non ha più valori,
la mia mente corre ai rischi dei possibili rimedi dei
possibili dottori. E anche quando vedo e sento che, secondo
certuni, alcuni sono legittimati a governare e altri no, beh,
sempre lì il mio pensiero corre: c’è in giro (o in girotondo)
tanta gente che ha ancora il tic di Platone e che vuole
imporre a chi non la pensa come loro che cosa è il bene per
tutti noi, naturalmente così come definito da loro.
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Il punto, lo ripeto ancora, è che tutta l’impresa è
sbagliata. Al totalitarismo dei pittori di costituzioni belle
non si risponde con la democrazia; al totalitarismo si
risponde con il liberalismo. All’idolatria dello stato si
risponde con la libertà dell’individuo e col primato della
società civile. Alla tesi di Platone che occorra “plasmare lo
stato felice non rendendo felici nello stato alcuni individui
separatamente presi, ma l’insieme dello stato” (Rep. 420c),
si risponde con l’imperativo di Kant: “nessuno può
costringermi ad essere felice a suo modo (nel modo cioè in
cui egli immagina il benessere degli altri uomini) ma ad
ognuno è lecito ricercare la propria felicità per la via che a
lui sembra buona, purché alla libertà degli altri di tendere
ad analogo scopo … egli non rechi pregiudizio alcuno” (Sul
detto comune: ciò può essere giusto in teoria, ma non vale
nella pratica, Cap.II, trad. it. in I.Kant, Stato di diritto e
società civile, Editori Riuniti, Roma 1995, p.154). E con lo
stesso imperativo di Kant che esalta la libertà
dell’individuo finché sia compatibile con la libertà di ogni
altro individuo, si risponde alla dottrina di Platone che
invece fa dell’individuo uno strumento dello stato, perché,
“creando nello stato simili individui [i cittadini], la legge
stessa non lo fa per lasciarli volgere dove ciascuno voglia,
ma per valersene essa stessa a cementare la compattezza
dello stato” (Rep. 520a).
E però per fornire queste risposte si deve cercare un
altro tipo di connessione fra stato e bellezza. Questo è il
mio secondo punto, che cercherò ora di illustrare.
3. La connessione liberale
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Molti secoli dopo Platone, quando la scienza moderna era
già nata, il capitalismo si era già imposto come sistema
economico, la società civile si era espansa e la Gloriosa
rivoluzione era già una conquista, David Hume, al pari di
Platone, cercò di portare nelle scienze sociali il metodo
delle scienze naturali, stabilì delle analogie fra leggi morali
della società e leggi fisiche della natura, e trovò anche lui
una connessione fra bellezza e stato o società. Ma era una
connessione del tutto diversa da quella di Platone.
Hume trovò nelle passioni morali il corrispettivo
sociale delle forze attrattive trovate in fisica da Newton, nel
senso specifico che le passioni sono il motivo dell’azione
umana così come le forze sono la causa del movimento dei
corpi. Ma - si domandò Hume - come possono nascere
regole o norme di condotta da tutti accettate, cioè leggi
morali (l’equivalente della costituzione di Platone), quando
le passioni degli uomini hanno un raggio necessariamente
ristretto, perché “la nostra attenzione è limitata soprattutto a
noi stessi, in secondo luogo si estende ai nostri parenti e
amici, e infine solo molto debolmente raggiunge gli
estranei”? (Trattato sulla natura umana, trad. it. in Opere,
vol.I, Laterza, Bari 1971, lib. III, parte II, sez. II, p. 516).
Il problema sollevato da Hume è fondamentale. Egli si
chiede come possa nascere un ordine giuridico dalla
moltitudine caotica delle passioni umane. La sua risposta è
che “le regole della morale non sono le conclusioni della
nostra ragione” (Trattato, cit., lib.III, parte I, sez.I, p. 483).
Né le regole della morale e della giustizia nascono
direttamente dalla natura umana, da un supposto
sentimento naturale di benevolenza rivolto indistintamente
verso tutti gli uomini. Piuttosto, esse nascono
spontaneamente e gradualmente e si impongono per
l’universale riconoscimento che esse sono indispensabili
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per perseguire l’interesse personale di ciascuno. Insomma,
le regole di giustizia nascono da sé, e, una volta nate,
sopravvivono, si tramandano e si consolidano perché, senza
di esse, la società non sopravviverebbe. Si tratta di una
spiegazione naturalistica ed evoluzionistica, dunque, non
innatistica o razionalistica o convenzionalistica.
In un altro passo di grande rilevanza, Hume afferma
che l’ordine giuridico che in questo modo emerge deve
essere definito “naturale”, anche se ad uno sguardo
superficiale appare come il prodotto di convenzioni
arbitrarie: “sebbene le regole della giustizia siano artificiali,
esse non sono arbitrarie; né è improprio chiamarle leggi di
natura, se per naturale intendiamo ciò che è comune a una
specie, o addirittura se limitiamo questa parola a significare
ciò che è inseparabile dalla specie” (Trattato, cit., lib. III,
parte II, sez. I, p.512). Dunque, tra convenzioni arbitrarie e
fatti della natura e della psicologia, Hume individua un
terzo elemento: quello che possiamo chiamare l’ordine
sociale spontaneo. “Questo sistema - scrive Hume -
comprendendo l’interesse di ciascun individuo, è
naturalmente vantaggioso per la società, sebbene coloro
che l’hanno inventato non mirassero a questo scopo”
(Trattato, cit., lib.III, parte II, sez.VI.II, pp. 560-61)
Questa è l’idea di ordine proprio della modernità. Un
ordine che potremmo definire dinamico, contrapposto a
quello statico di Platone e degli antichi, poiché frutto
spontaneo delle interazioni spontanee di una moltitudine di
individui mossi da desideri spontanei. Si tratta dello stesso
ordine a cui si riferì, nel campo economico, Adam Smith
con la sua celebre metafora della mano invisibile:
“perseguendo il proprio interesse [l’individuo] non intende
perseguire il pubblico bene, né conosce quanto egli lo
persegua … egli mira soltanto alla sicurezza propria … al
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guadagno proprio; ed in questo, come in molti altri casi,
egli è guidato da una mano invisibile a promuovere un fine
che non rappresentava alcuna parte delle sue intenzioni”
(La ricchezza delle nazioni, trad. it. Utet, Torino 1950, p.
409).
Possiamo ora porci due domande. La prima: dove si
colloca in questo contesto la bellezza? All’epoca di Hume e
di Smith il termine “bello” aveva ormai acquisito un
significato assai diverso da quello di Platone. Per Hume, la
bellezza non è una qualità oggettiva della cosa ma un
piacere soggettivo dell’individuo. E tuttavia l’ordine
spontaneo di Hume e Smith rimane legato al concetto di
armonia, lo stesso che abbiamo trovato in Platone. Hume e
Smith dovettero essere deliziati dal vedere come l’ordine
sociale ed economico potesse emergere senza un accordo
esplicito tra tutte le persone che compongono la società.
L’armonia dell’ordine spontaneo era tale che doveva
portare con sé un sentimento di approvazione, e non a caso
Hume usa proprio il termine “bellezza”, per la precisione
“bellezza morale” (Trattato, cit., lib. III, parte II, sez.II, p.
512).
La risposta alla prima domanda perciò è: la bellezza
non è nello stato, non è una sua proprietà fissa; la bellezza è
nell’ordine sociale spontaneo da cui emerge lo stato ed è
una sua caratteristica sempre cangiante.
La seconda domanda è: qual è il ruolo della politica in
questo stato? Se l’ordine nasce da sé, se la bellezza si
produce da sola, allora il politico non deve più, alla
maniera di Platone, contemplare e poi attuare un ordine
preesistente. Piuttosto, il politico deve facilitare l’emergere
di un ordine spontaneo, impedendo quelle indebite
interferenze che ostacolano la libertà degli individui e
l’evoluzione spontanea della società civile.
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La risposta alla seconda domanda perciò è: la politica
non è disegno, attuazione, imposizione di costituzioni
ottime; la politica è un servizio che asseconda le
costituzioni spontanee. E così lo stato non deve essere
totalitario, ma liberale, cioè non invasivo, non tutore,
istruttore, ispettore, censore, guardiano. Lo stato è uno
strumento - non l’unico e neanche il più importante - per
consentire a individui liberi di difendersi da altri individui
liberi, e alla società di difendersi dal governo.
È con questa impostazione che Hume traccia i
fondamenti dello stato minimo, che si limita a far rispettare
le sue “tre fondamentali leggi di natura: la stabilità del
possesso, il suo trasferimento per consenso e il
mantenimento delle promesse” (Trattato, cit., lib.III, parte
II, sez.VI, p.557). E traccia anche i fondamenti dello stato
laico, che non ha virtù proprie da imporre a tutti i cittadini,
ma che rispetta le virtù o i valori di tutti e ciascuno di essi.
Se, in poche battute, si vuole comprendere la differenza
abissale fra Platone e Hume, fra lo stato totalitario del
primo e quello liberale del secondo, si legga il suo saggio
sulla “Idea di una perfetta comunità”. Hume si lascia anche
lui tentare dall’utopia di una costituzione ideale alla
maniera della Repubblica di Platone e poi di molti altri e
però scrive: “procedere a caso in questo problema, o tentare
esperimenti sulla base di un ragionamento e di una filosofia
presupposti, non può mai essere l’intendimento di un
magistrato saggio, che avrà riverenza per quanto porta i
segni del tempo; e, quantunque possa tentare qualche
cambiamento per il progresso del pubblico bene, tuttavia
egli adatterà quanto più possibile le sue innovazioni alla
struttura precedente, conservando l’integrità dei pilastri e
dei sostegni principali della costituzione” (Saggi morali,
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politici e letterari, parte II, XVI, trad. it. in Opere, vol.II,
Laterza, Bari 1971; cfr. p.912).
Il senso di questa operetta di Hume è chiaro: niente
“esperimenti” (la costruzione platonica della costituzione
ottima); niente “ragionamenti e filosofia presupposti” (il
divino modello di Platone); niente distruzione della
“struttura precedente” o, come diremmo noi oggi, della
tradizione (la tabula rasa del pittore di costituzioni di
Platone). Piuttosto, “conservazione dei pilastri e dei
sostegni”, cioè rispetto della tradizione e delle istituzioni,
salvo a correggerle quando risultino inadeguate.
Questa è filosofia liberale e politica gradualista. Anche
qui la connessione fra bellezza e stato c’è, ma è una
connessione trovata, non imposta. Il pittore, per fortuna, è
scomparso. Ed è scomparso anche l’ordine divino sulla
terra. Quest’ordine resta inaccessibile anche all’uomo
migliore, al santo, al martire, all’interprete. Resta acceso
invece in tutti, anziché il possesso di quell’ordine, l’anelito
a realizzarlo, e perciò il senso della finitezza, della
fallibilità, della ricerca, del desiderio.
E così anche il mio secondo punto è illustrato, se sono
riuscito a illustrarlo.
4. Il primato della società civile
Come terzo punto, devo ora mantenere la promessa che ho
fatto all’inizio, quella di mostrare che il liberalismo di
Hume è, sui punti fondamentali, lo stesso liberalismo di
don Giussani e perciò che un terreno comune fra liberali
laici e liberali cattolici esiste ed è saldo.
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Quali sono questi punti fondamentali? Stanno in tre
concetti di don Giussani che furono propri di Hume e che
sono tipici di tutti i liberali: lo stato laico, il primato della
società civile sullo stato, il ruolo delle istituzioni o
comunità intermedie. Cerchiamo di esaminare questi
concetti.
Nel suo intervento “Senso religioso, opere, politica”
pronunciato ad Assago nel 1987, don Giussani fissa una
catena fra tre elementi. Li elenco con le sue stesse parole.
(1) La libertà individuale. Gli uomini hanno una spinta
“a mettersi insieme. E non nella provvisorietà di un
tornaconto, ma sostanzialmente”.
(2) La creatività sociale e le “opere”. “Nonostante
l’inerzia o la mancanza di intelligenza di chi li
rappresenta o di chi vi partecipa, i movimenti non
riescono a rimanere nell’astratto, ma tendono a
mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei
bisogni in cui incarnano i desideri, immaginando e
creando strutture operative capillari e tempestive
che chiamiamo ‘opere’ ”.
(3) Il primato della società civile sullo stato. “È
nell’impegno con questo primato di libera e creativa
socialità di fronte al potere, che si dimostra la forza
e la durata della responsabilità personale. È nel
primato della socialità di fronte allo stato che si
salva la cultura della responsabilità. Primato della
società, allora: come tessuto creato da rapporti
dinamici tra movimenti, che creando opere e
aggregazioni costituiscono comunità intermedie e
quindi esprimono la libertà delle persone potenziata
dalla forma associativa” (L. Giussani, L’io, il
16
potere, le opere, Marietti, Genova 2000, pp. 168-
69).
La relazione fra questi tre elementi - libertà, opere,
società - può essere letta per dritto e a ritroso. Per dritto: la
libertà genera spontaneamente le istituzioni e implica il
primato della società civile. A ritroso: la società civile si
basa sulla spontaneità delle istituzioni che consegue dal
bisogno di mettersi assieme.
Lette nell’uno o nell’altro senso, dalle tesi di don
Giussani si ricavano due lezioni, una costituzionale o di
filosofia politica e una politica o di pratica politica.
La lezione costituzionale è: lo stato non deve essere
prepotente o invasivo, perché uno stato siffatto - sono
parole di don Giussani - “si ridurrebbe a essere funzionale
solo ai programmi di chi fosse al potere e la responsabilità
sarebbe evocata semplicemente per suscitare consenso a
cose già programmate” (ivi, p.169). Inoltre, lo stato deve
essere “veramente laico” (ivi, p.170), in questo senso,
credo: che esso non deve asservire la società civile o
plasmarla, ma assecondarla o favorirla.
La lezione politica è: i soggetti politici collettivi, in
particolare i partiti, non devono stendere progetti di società,
perché ogni progetto siffatto cozzerebbe contro il primato
della società civile. “Un partito che soffocasse, che non
favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale -
scrive don Giussani - contribuirebbe a creare o a
mantenere uno stato prepotente della società” (ivi, p.169).
Inoltre, la politica non deve “decidere se favorire la società
esclusivamente come strumento, manipolazione di uno
stato e del suo potere” (ivi, 170); la politica deve piuttosto
lasciare più libera possibile la società civile e le sue opere.
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Queste due lezioni di don Giussani sono le stesse che si
ricavano dalla tradizione di Rosmini, don Sturzo, De
Gasperi. Sono lezioni liberali che un liberale accetta perché
contengono i suoi principali temi preferiti: la libertà
individuale, la creatività sociale, la spontaneità delle
istituzioni, il primato della società civile, il ruolo delle
comunità intermedie, il valore strumentale dello stato, la
natura non pedagogica ma vigilante e servente della
politica.
C’è un quarto elemento che don Giussani
comprensibilmente pone all’inizio della sua catena: il senso
religioso che solleva domande e da cui partono libertà e
responsabilità. Per un religioso questo primo anello della
catena è originario e decisivo, per un laico no. E però, per
un liberale, laico o cattolico che sia, la catena resta la
stessa: segno evidente che il liberalismo è una dottrina
neutra rispetto ai valori religiosi, o più precisamente - dato
che porre il primato dell’individuo e della società equivale
alla professione di un credo - segno evidente che il
liberalismo è neutro rispetto alla giustificazione o
fondazione dei valori religiosi. Ciò che, per gli uni e gli
altri, più conta è l’uomo e il suo primato; importa, ma
importa meno, che egli sia simile a Dio o disceso da una
evoluzione naturale.
Se anche la mia promessa ora è adempiuta e possiamo
dire che il liberalismo invocato da don Giussani appartiene
alla stessa matrice di quello a suo tempo e con i suoi modi
fu teorizzato da Hume e da molti altri, allora posso passare
al mio quarto e ultimo punto: che cosa ha di preferibile una
società liberale? È la mia apologia finale.
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5. Apologia dell’ordine liberale
Vi sono tanti modi per affrontare questo tema e si potrebbe
fare un discorso assai lungo. Ma sono in chiusura e
desidero essere breve e chiaro. Per esserlo il più possibile,
dirò in modo sintetico alcune cose in cui credo
profondamente.
Credo che l’Italia abbia bisogno di un ordine liberale, o
assai più liberale, perché soffre di burocrazia; di
inefficienza, anche istituzionale; di limitazioni, proibizioni,
divieti; di eccesso di norme, leggi, regolamenti; di rigidità
in ogni settore, in particolare economico; di invasività dello
stato; di un sistema di protezioni sociali tanto
apparentemente coccolante quanto ingiusto e costoso, in
termini finanziari, sociali e morali; di scarsa competizione
scolastica; di bassa autonomia universitaria accompagnata
da alta rigidità burocratica nel corpo docente e
amministrativo.
Credo che, in larga parte, questi siano gli stessi malanni
che affliggono l’Europa. Quella stessa Europa che ieri ci
appariva una terra di virtù e che oggi molti cominciano ad
avvertire come una camicia di forza. Quella stessa che ieri
sembrava proteggerci e oggi ci redarguisce con brutte
pagelle. O quella stessa che ieri voleva competere e battere
l’America sul terreno del vivere e oggi, come altre volte nel
secolo scorso, aspetta che l’America la salvi con una
ripresa economica.
Credo che l’Italia e l’Europa stiano perdendo la fede nei
propri valori, nella preferibilità e anche superiorità delle
proprie istituzioni, nella saldezza del convincimento che
occorre difenderli, gli uni e le altre, ora che sono attaccati
da terrorismi, fanatismi, fondamentalismi, integralismi,
razzismi.
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Credo che l’Italia abbia bisogno di riforme liberali,
senza stato-babbo o società-mamma, ma con tanta libertà
per lavoratori, imprenditori, ricercatori, con tanta
competizione fra scuole, con tante associazioni, istituzioni,
corpi intermedi, con tanto volontariato non politicizzato,
con tanta sussidiarietà non sussidiata, con tante autonomie,
con tanto libero mercato.
Credo che in Italia una maggioranza che si è presentata
come liberaldemocratica e con un programma politico
riformatore abbia vinto legittimamente le elezioni, abbia il
diritto di governare e il dovere di realizzare il suo
programma, senza prevaricazioni, certo, ma con la ferma
convinzione che il rispetto del patto con gli elettori è un
punto cardine a cui non si può rinunciare.
Credo che l’essenziale diritto dell’opposizione di
contrastare quel patto, in Parlamento e fuori, non debba
essere confuso in alcun modo con un diritto inesistente di
negare alla maggioranza di rispettarlo. In un modello
liberale, l’opposizione non può illudersi di cancellare o
alterare il responso elettorale, se non mediante un altro
responso elettorale.
Credo in queste e molte altre cose. Ma qui mi fermo.
Chiedo solo il vostro paziente consenso per sintetizzare la
mia apologia del liberalismo in forma di invito, soprattutto
ai giovani.
Difendete la vostra libertà. Vi è stata data, ma non è un
dono gratuito.
Fate valere le vostre ragioni pensando sempre che c’è
una ragione anche in chi pensa diversamente da voi, ma,
senza essere integralisti, non credendo mai che una ragione
vale l’altra. L’integralismo è un male, ma anche il
relativismo è una malattia intellettuale e morale.
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Abbiate il coraggio delle vostre opinioni e siate disposti
a pagare per vederle affermate. Un’opinione non vale
niente se non costa qualcosa.
Non chiedetevi, o chiedetevi il meno possibile, che cosa
lo stato può fare per voi. Siete voi i soggetti di diritti e di
doveri, non lo stato che è soltanto uno strumento fra i tanti.
Non denigrate o non contestate globalmente la
tradizione in cui siete cresciuti. È imperfetta e può sempre
essere corretta, ma è il meglio che i vostri padri abbiano
potuto lasciarvi.
E quando vi capita di essere, come oggi, in comunità,
apprezzatene il valore, servitevene, avvantaggiatevene,
godetene. Ma non dite mai soltanto “noi”, dite sempre
anche e soprattutto “Io”. Perché Io è responsabilità, Io è
creatività, Io è libertà.
Ho finito davvero. Avevo cominciato da filosofo, mi
sembra di concludere nei panni per me insoliti del
predicatore. Il fatto è che il liberalismo è tanto una filosofia
che un insieme di massime. E se la filosofia ha bisogno di
argomenti, le massime richiedono anche testimonianze,
allocuzioni e persuasioni. Di ciò che ho detto io sono
persuaso e spero che lo siate anche voi. Ma se non lo siete,
fatemi un cenno: avrò capito qualcosa di più.

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