lunedì 18 febbraio 2008

GIULIANO FERRARA A COSA RINUNCIO E COSA VNE GUADAGNO.MICA POCO

Ma cosa ho guadagnato. Oltre a un’indubbia competenza in fatto di bioetica,
ho guadagnato significato e copie per il mio giornalino che non potrebbe uscire senza la dedizione allegra e militarmente indisciplinata di quelle persone fantastiche regalategli dalla Fortuna, che è donna ma non bisogna, come voleva il politico sconfitto Machiavelli, “batterla”: piuttosto amarla.


Ho guadagnato la fiducia e l’amore di tanti fedeli, preti e vescovi, che non sono affatto la parte peggiore e dimenticata della nazione, tutt’altro, e non sono solo la nazione, concetto in fondo piccolo e maurrassiano.

Ho guadagnato un sentimento potente, invincibile, quello di fare la cosa giusta al momento giusto, e pazienza se i mezzi non saranno proprio conformi a puntino, pazienza, basta che siano commisurati alla natura della cosa, amorevoli e sensati.

Ho guadagnato quella cosa strana, così vicina a una conversione ancora senza fede e così lontana dall’etica kantiana, bella ma un po’ rinunciataria, che è la trasformazione della propria vita in totale buonumore, come dice Ratzinger, in comprensione e legame anche con chi ti respinge. Mica poco.




IL FOGLIO 17 febbraio 2008


Non so come andrà a finire, questa storia della moratoria e della lista pazza, ma so come è cominciata. Con una salutare rinuncia. La rinuncia per otto giorni al cibo solido, tranne qualche noce, tra Natale e il primo dell’anno. Poi ho rinunciato alla pennichella, quei trenta o quaranta minuti di siesta nel letto nuziale abbandonato da mia moglie perché russo, dolce abitudine contratta da qualche anno, due-tre anni (“Non sei né giovane né vecchio, ma è come se dormissi dopo pranzo sognando di entrambe queste età”: sono versi di Marlowe, credo, citati da Eliot, che mi hanno sempre incantato, fin dall’adolescenza). Poi ho rinunciato a finire Moby Dick, fermo alla pagina duecentosettanta per mancanza di tempo, e il libro di Adriano Sofri, ciò che mi spiace. Poi ho rinunciato all’amicizia dei radicali, non tanto Emma, che mi è sempre sembrata un po’ fanatica sebbene ardente e bella, quanto Marco, che è troppo largo e grosso e infantilmente cinico per non essergli amico, ma al quale ormai rispondo sempre “occupatevi di commercio estero, che è meglio”, e mi firmo Ferrara, e lui risponde cose ideologiche e poetiche firmandosi Teramo, e a quelli della Rai per amore grida “datemelo!”. Poi ho rinunciato alla routine, il mio mondo preconfezionato e farcito di letture, chiacchiere redazionali, chiacchiere amicali, conversazioni televisive serali a scadenza quotidiana, ilari intermezzi e appassionati con il soviet delle magnifiche donne di Otto e mezzo, e della sua Ape Regina Franca, che negli ultimi tempi, per gli ostacoli che frammetteva con gagliarda simpatia alla capacità veritativa della tv, avevo preso a chiamare “il carcere femminile in cui sono ristretto”.
Ho rinunciato alla parte di ozio campagnolo del mio tempo festivo, con i miei amati cani e canette, uno dei quali se ne è andato via subito (Quinto Fufio non ne ha proprio voluto sapere di tutta questa moratoria, e della dieta liquida), e le due piccine il venerdì mi guardano con l’aria di dire: “Vai in crociata, pezzo di cretino, e non ci porti a Scansano a caccia di lucertole?”. Ho rinunciato a seguire il cantiere per la mia barchetta meravigliosa, il Maria Christina, un Nauticat 33 del 1972 che mantengo e rinnovo come una fidanzata trentenne, perché mi ha portato in Grecia e in Turchia con la memorabile Randi e tanti altri amici, e con Selma che al largo di Capo Sounion leggeva Newsweek e mi faceva impazzire di rabbia, ma per il resto era una marinaia e una sirena perfetta per l’acqua dell’Egeo e il vento di Meltemi.
Ho rinunciato a un bel po’ di soldi utili solo se li si sappia spendere bene, e non sempre succede, e a un contratto a cui tenevo e che mi aveva mandato Sergio Valzania, mille euro a puntata per rievocare alla radio ogni giorno il rapimento di Moro, dal 16 marzo di trent’anni fa al 9 maggio, la strage della sua scorta, il processo nel carcere del popolo, la campagna di primavera delle brigate rosse, la dissoluzione etica della prima Repubblica, il tradimento dei chierici né con lo stato né con i terroristi, e le lettere bellissime, la pietà e la paura, l’eccidio malinconico che si sarebbe potuto evitare se fossero state fatte le battaglie culturali e politiche giuste, a suo tempo, e non quelle ingiuste. Ho rinunciato alla stasi come aspetto del movimento, per abbracciare uno sconclusionato movimento che forse si rivelerà un banale dettaglio della lunga stasi politica in cui questo paese è immerso, nella perdita mia e di molti altri d’ogni illusione, da così tanti anni.

Ma cosa ho guadagnato. Oltre a un’indubbia competenza in fatto di bioetica,
ho guadagnato significato e copie per il mio giornalino che non potrebbe uscire senza la dedizione allegra e militarmente indisciplinata di quelle persone fantastiche regalategli dalla Fortuna, che è donna ma non bisogna, come voleva il politico sconfitto Machiavelli, “batterla”: piuttosto amarla.


Ho guadagnato la fiducia e l’amore di tanti fedeli, preti e vescovi, che non sono affatto la parte peggiore e dimenticata della nazione, tutt’altro, e non sono solo la nazione, concetto in fondo piccolo e maurrassiano.

Ho guadagnato un sentimento potente, invincibile, quello di fare la cosa giusta al momento giusto, e pazienza se i mezzi non saranno proprio conformi a puntino, pazienza, basta che siano commisurati alla natura della cosa, amorevoli e sensati.

Ho guadagnato quella cosa strana, così vicina a una conversione ancora senza fede e così lontana dall’etica kantiana, bella ma un po’ rinunciataria, che è la trasformazione della propria vita in totale buonumore, come dice Ratzinger, in comprensione e legame anche con chi ti respinge. Mica poco.


Nessun commento: