lunedì 25 febbraio 2008

RITIRO DI QUARESIMA DELLA FRATERNITA' HAUTRIVE

16.2.08 – P. Mauro-G. Lepori
«Tutto a tutti»

Un tempo di conversione

Abbiamo cominciato un nuovo cammino di Quaresima. Siamo invitati a viverlo con speranza, perché la sua meta è la Pasqua di Cristo, un avvenimento che non dipende da noi, dai nostri sforzi, ma dalla gratuità senza limiti di Dio, la gratuità che si esplicita totalmente nella Passione e Morte del Signore, nel mistero della Croce che ci salva, che è sorgente di Vita.



La Quaresima è un tempo positivo perché è un tempo di conversione. La conversione cristiana è sempre un passaggio dal “meno buono” al “migliore”, almeno nel desiderio, almeno nella domanda che rivolgiamo a Dio. È un passaggio di liberazione, un passaggio pasquale. Così, l’invito di Cristo e della Chiesa alla conversione è una chiamata che deve risvegliare la nostra libertà e il nostro desiderio.

Gesù comincia il suo ministero pubblico proclamando: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).
Non promette un mondo a venire; non promette un “Aldilà” da raggiungere con un lungo itinerario di iniziazione e di purificazione. Annuncia una pienezza compiuta; offre l’accesso a un’esperienza di pienezza del tempo, della storia e della vita che Dio realizza adesso, subito, perché la pienezza del tempo, il Regno di Dio, e tutto il contenuto del Vangelo, della Buona Novella, è Colui stesso che annuncia, Colui stesso che chiama alla conversione e alla fede. La conversione alla quale chiama Gesù è un voltarsi verso di Lui, un volgersi dell’attenzione della mente e del cuore verso la sua presenza che compie il tempo, che rende presente il Regno di Dio. La chiamata di Gesù alla conversione ci attira verso di Lui come compimento presente e donato del tempo della nostra esistenza, della nostra umanità. In Gesù, tutto il nostro destino è presente, il destino del mondo è presente. Dobbiamo solamente decidere di volgerci verso di Lui, di convertirci a Lui.

Questa conversione, la nostra libertà, malgrado tutti i suoi impacci e le sue compromissioni, può deciderla. Bisogna davvero immaginare e comprendere la conversione come se fossimo su una strada o in un villaggio della Galilea nel momento in cui arriva questo Sconosciuto che, prima ancora di esporre il suo messaggio e la sua dottrina, chiede di convertirsi e di credere al Vangelo. Non bisogna immaginarselo come se si andasse oggi a Friburgo e, passando da un negozio all’altro, si incontrasse qualcuno che chiede di convertirci e credere al Vangelo, perché, anche se lo si prendesse sul serio, si penserebbe subito: «Ecco, mi chiede di cambiare la mia vita secondo il Vangelo e gli insegnamenti della Chiesa, il che vuol dire credere a questo e a quello, fare e non fare questo e quello».
I contemporanei di Gesù non conoscevano i quattro Vangeli, né gli insegnamenti della Chiesa. Avevano di fronte la pura e semplice persona di Gesù, e la persona di Gesù ancora sconosciuta, che usciva dall’ombra di Nazaret e non aveva ancora pronunciato una sola parola pubblica prima di questa chiamata alla conversione e alla fede nel Vangelo.

È dunque su Se stesso che Gesù attira l’attenzione di tutti. Alcuni devono averlo guardato un istante, il tempo di dirsi: «È un pazzo, un esaltato». Altri, forse perché meno frettolosi, si sono fermati a guardarlo, a fissarlo con una certa curiosità, come per dire: «Bene, allora spiegati, esponi il tuo pensiero, dicci ciò che vuoi dire!».
Alcuni forse gli hanno posto anche esplicitamente la domanda: «Ma che dici? Spiegati! Che cosa vuoi offrirci? Che cosa ci chiedi?»

Questo minimo di attenzione ha permesso a Cristo di guardarli negli occhi, di dire una parola, un insegnamento, di mostrar loro un gesto, forse anche un miracolo, di rivelare il suo volto, la bellezza e l’attrattiva della sua persona, della sua bontà, della sua attenzione verso l’uomo. È questo che può ribaltare una vita, anche la nostra: questo minimo di attenzione, questa attenzione elementare, questo minimo di risposta alla chiamata della verità, che permette a Cristo, alla Verità incarnata, di rivelarci la Sua attenzione verso di noi. Allora, è l’incontro! Allora è un avvenimento per la vita; uno di quegli avvenimenti di cui si rammenta l’ora, le circostanze, e che diventano un punto di riferimento per tutto il resto della vita. Un punto indimenticabile in mezzo alla nebbia del nostro oblio; un punto chiaro e netto in mezzo alla nebbia della nostra distrazione, della nostra dissipazione.

Il senso della vita

Nel libro della Genesi c’è un episodio che annuncia la dinamica dell’incontro con Cristo. Un episodio che riguarda Agar, la schiava che Sara, sapendosi sterile, dà ad Abramo affinché susciti per mezzo di lei una discendenza. E infatti Agar concepisce Ismaele, ma ciò fa sì che la relazione tra le due donne si imbroglia: la schiava si sente superiore a Sara, e Sara, gelosa, si mette a maltrattarla fino al punto che Agar fugge verso il deserto.

È qui che accade un incontro misterioso:
«La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur, e le disse: “Agar, schiava di Sara, da dove vieni e dove vai?”. Rispose: “Fuggo lontano dalla mia padrona Sara”. Le disse l’angelo del Signore: “Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa”. Le disse ancora l’angelo del Signore: “Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine”.» (Gn 16,7-10).

«Da dove vieni e dove vai?»
L’angelo pone ad Agar una domanda fondamentale, e siccome è lui che la pone, il suo senso non può limitarsi a un’insignificante richiesta di informazioni.
Infatti, la domanda dell’angelo riguarda il senso della vita umana. È la domanda fondamentale che si pone ogni essere umano, se solamente si ferma un momento davanti al proprio mistero: “Da dove vengo e dove vado? Qual è la mia origine e qual è lo scopo della mia vita? Vivo nel presente, ma ogni istante presente che passa mi interroga sul mio passato e sul mio futuro.”

Questa domanda è la domanda sul senso della vita. Dal momento in cui lasciamo alle nostre spalle una strada e ci troviamo davanti a una strada che si apre, la domanda riguardo alla direzione, al senso di questa strada della vita, è inevitabile. Si può censurare questa domanda, si può soffocarne la voce, ma non ci si può sottrarre al fatto che la vita, per il fatto stesso che avanza dal passato al futuro, ci pone costantemente questa domanda.

Ci sono dei momenti decisivi nella vita in cui questa domanda ci è posta da una presenza che ci supera, come l’angelo che incontra Agar. Ci sono dei momenti nella vita in cui, a causa degli avvenimenti o a causa del nostro stato interiore, questa domanda diventa più bruciante, più chiara, più drammatica. Ma, al fondo, ogni giornata, ogni istante, ogni scelta della nostra libertà, ci pongono questa domanda, sempre questa domanda: «Da dove vieni e dove vai?»

In realtà, questa domanda è la domanda che Dio pone all’uomo, la domanda che il mistero di Dio pone al mistero dell’uomo. Perché Dio ci pone questa domanda? Lui sa molto bene da dove veniamo e dove andiamo! Lo sa molto bene, perché la risposta è Lui. Dio è la risposta alla domanda sulla nostra origine e sul nostro fine, la risposta alla domanda sul senso della nostra vita.

Se Dio ci pone questa domanda, è dunque perché vuole che noi ci poniamo questa domanda. Dio ci suggerisce la domanda sul senso della nostra vita. Ce la pone soffiando nelle nostre narici il soffio di vita, mettendo nel nostro cuore un desiderio di senso che, in fondo, coincide con la nostra anima, col nostro cuore, con la nostra natura di immagine di Dio. Se Dio non mettesse in noi questa domanda, saremmo delle bestie, degli ippopotami, degli esseri che non sanno se sono terrestri o acquatici, dei bruti che si sprofondano nell’acqua fangosa per non guardare in faccia la realtà. L’anima umana è umana, la ragione umana è umana, perché è creata capace di porsi questa domanda, di sentire questa domanda. Si può non essere capaci di formularla, ma ogni essere umano è capace di percepirla, di sentirla in sé, anche solo come una sorda tristezza, come un’inquietudine indefinita.

«Tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te», scrive sant’Agostino (Confessiones I,1,1). Sì, creandoci per Lui, Dio ha inscritto nel nostro cuore la grande domanda: «Da dove vieni e dove vai?». È il nostro cuore che è questa domanda; è il nostro stesso cuore, l’angelo che ci appare sempre di sorpresa, spesso nei «deserti» della nostra esistenza, per porci la domanda sul senso della nostra vita, la domanda di Dio in noi, la domanda la cui risposta è Dio.

Ma Dio non ci dà la risposta incollata alla domanda, come si mette la soluzione di un indovinello al piede di una pagina di giornale. Ce la lascia cercare. Ce la lascia desiderare. E in questo spazio tra la sua domanda e la risposta che è Lui, Dio lascia in noi uno spazio: lo spazio della libertà. Lo spazio della nostra libertà è creato dal fatto che Dio non si impone come risposta alla domanda sul senso della nostra vita, sebbene sia Lui l’unica vera risposta a questa domanda.

Fuga o dono

Che cosa risponde allora Agar alla domanda dell’angelo sull’origine e il fine della sua vita, sul senso della sua vita? Risponde: «Fuggo lontano dalla mia padrona Sara». Agar risponde che fugge, che è in fuga. Che senso ha la sua vita? La fuga.

La fuga è un atteggiamento la cui origine è la paura del reale e il fine è l’ignoto. In fondo, quando si fugge il reale, la fuga diventa fine a se stessa. La sua origine è la paura, il suo fine è trovare in se stessa la salvezza. Si fugge perché si pensa di trovare una salvezza nella fuga. Così, spesso, la fuga diventa essa stessa il senso della vita: si vive per fuggire. Si credeva di fuggire per vivere, e ci si ritrova a vivere per fuggire. Fuggiamo la realtà che ci fa paura, ma la paura resta con noi e alimenta costantemente la fuga.

Quante persone vivono nella fuga, vivono per fuggire, fuggono per fuggire! Non appena si perde il contatto con la realtà, anche con la realtà che ci fa paura, la fuga si impone e diventa la realtà nella quale viviamo, la realtà irreale nella quale viviamo.
Lascio a ciascuno di noi di guardare con verità la propria vita: credo che ciascuno di noi troverà delle tracce di questa fuga nella sua vita e nel senso che dà alla sua vita. È importante diventarne coscienti, altrimenti non si sentirà la voce dell’angelo, cioè la voce di Cristo, la voce della Chiesa, che ci dice come uscire dalla fuga e dalla paura per trovare un vero senso alla vita.

Che cosa dice infatti l’angelo ad Agar? «Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa». Ossia: «Torna alla realtà della tua vita, anche se ti fa paura e ti fa male, perché non è la fuga che può salvarti, ma la coscienza del tuo vero destino, del vero scopo della tua vita, vissuta nella realtà della tua esistenza. Allora, sì, farai l’esperienza della fecondità della tua vita, la tua vita avrà un senso, un senso conforme alla sua vera origine e al suo vero scopo. Il senso della tua vita non sarà più la paura e la fuga, dunque ciò che è negativo nella realtà, ma l’Amore divino che ti ha voluta e ti desidera, che è origine e fine della tua esistenza. È solamente nella realtà che puoi raggiungere il destino per il quale esisti».

Questo ritorno alla realtà della vita, l’angelo lo presenta in effetti come la condizione della fecondità: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine».
Agar è una schiava maltrattata dalla sua padrona, ed ecco che Dio le promette una discendenza innumerevole, come quella che Abramo avrà da Sara.

Perché questo ritorno al reale che si stava fuggendo diventa il luogo e il mezzo della nostra fecondità? Perché Dio non dà questa fecondità ad Agar nel deserto, lontano dalla situazione difficile in cui si trova nei confronti di Sara?

Il fatto è che Dio non vuole portare a compimento le nostre fughe e i nostri sogni, ma la nostra vita. La pienezza che ci promette e assicura è la pienezza della nostra vita, di ciò che siamo e di ciò che viviamo veramente. Il nostro Dio è il Salvatore della realtà, non del sogno. Così, la fecondità della vita, per essere reale, per essere un’esperienza reale e non un semplice sogno, non può essere data e manifestarsi in una situazione di fuga di fronte alla realtà. Chi fugge la realtà fugge anche la possibilità di una reale pienezza della sua vita.

Sophie Scholl, nel suo diario, si esprime molto francamente su questo punto. Scrive, sotto forma di preghiera: «Rovinami ogni piacere, fammi essere misera e fammi soffrire, prima che perda, sognando, la mia beatitudine.» (autunno 1941).

Infatti, la pienezza della vita è il dono della vita. E non si può veramente donare ciò che non è reale, ciò che non è nelle nostre mani. Una vita in fuga non si dona. Non si può amare fuggendo.
Quante volte, davanti a un esempio esaltante di vita donata, ci riempiamo del desiderio di questa pienezza. Ma l’orgoglio s’immischia, prende possesso di questo desiderio, e genera in noi il fantasma di una pienezza di vita sognata che, alla prima occasione, va a infrangersi contro gli scogli della realtà quotidiana. E del grande desiderio di pienezza non resta più che la schiuma.

Chiedendo ad Agar: “Da dove vieni e dove vai?”, è come se l’angelo le dicesse: «Prendi coscienza che la tua vita viene da Dio e va verso Dio. La tua vita è dunque un dono, un dono da compiere, un dono messo tra le tue mani, a disposizione della tua libertà per compiersi liberamente. Se fuggi, ti sottrai al dono che è la tua vita, alla possibilità di darti realmente, e dunque alla tua vera fecondità. Se invece resti là dove Dio mette la tua vita, anche il male che subisci sarà un dono, sarà un’opportunità e uno strumento del dono della tua vita, e dunque della tua fecondità».

Nel vangelo di san Giovanni, al capitolo 10, Gesù oppone la figura del buon pastore a quella del mercenario. Ora, il mercenario è proprio colui che fugge: «vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge» (Gv 10,12). Il contrario positivo di questo atteggiamento è il dono della vita del buon pastore, un dono che è offerta: «Il buon pastore offre la sua vita per le sue pecore» (Gv 10,11).
L’opposto della fuga è il dono della vita, la vita come offerta.

“Porre” la propria vita

Ora, che cosa significa per Gesù «dare la vita»? Come ce la dà, e come ci chiede di imitarlo in questo?

«Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore».
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
In questi passi del vangelo di Giovanni, il verbo greco utilizzato per dire «dare la vita» non è il verbo didomi, dare, utilizzato normalmente, ma il verbo tithemi, che vuol dire porre, mettere. In latino si traduce con ponere animam, porre la propria vita, posare la propria vita.

Credo che questa sfumatura debba insegnarci un aspetto essenziale del dono della vita secondo Cristo. Il dono della vita è un atto con cui la vita è messa liberamente a disposizione dell’altro. La vita è data se è lì per l’altro. Il dono della vita è un’offerta.

Se facciamo davvero attenzione, tutto ciò che la Chiesa ci offre e chiede, è sempre un’educazione a “porre” veramente e liberamente la nostra vita davanti alla libertà di Dio e degli altri. E ogni volta che rifiutiamo questo posto, ogni volta che fuggiamo questa “collocazione” della nostra vita, il posto di Cristo, la nostra vita rifiuta la grazia di essere donata, e diventa sterile, per noi stessi e per il Regno, per noi stessi e per il Corpo di Cristo che è la Chiesa.

Tutto ciò che ci dà e ci chiede la vita cristiana è di acconsentire a stare là dove Dio ci pone, affinché la nostra vita sia un dono. Per questo, non rimanere al proprio posto, il posto determinato dalla nostra vocazione e dalle circostanze che Dio permette, non stare al proprio posto e scegliere il posto che si decide da sé, sempre con eccellenti e nobili giustificazioni, non è tanto una mancanza di disciplina: è una mancanza al dono della vita, una mancanza d’amore, una mancanza al «più grande amore» (Gv 15,13). Quante volte preferiamo una generosità autonoma all’umile posto del più grande amore!

È questa coscienza che esprime Claudel ne’ L’annuncio a Maria: «Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più in alto» (Prologo).

Una vita veramente offerta è sempre presa da Dio, anche quando è lasciata al suo posto, al suo posto poco splendente. Una vita totalmente offerta si trova sempre al posto che Dio sceglie per essa, anche se non si “muove”. Infatti, la pienezza della nostra vita, la santità, si realizza quando Dio ci prende, poco importa come. Se Dio ci lascia in una situazione che preferiremmo fuggire, ciò vuol dire che ci mette in questa situazione, che questa situazione è il posto della scelta di Dio su noi. Se il cuore resta aperto nell’offerta di sé, tutte le circostanze della vita quotidiana diventano il luogo verso cui siamo mandati, diventano la nostra terra di missione, anche e soprattutto se, queste circostanze, preferiremmo fuggirle.

La Vergine Maria è sempre rimasta dove Dio la metteva, senza manifestare mai le sue preferenze. Sono sicuro che Maria avrebbe preferito seguire Gesù da vicino durante gli anni di vita pubblica. Ma Gesù non l’ha presa con Sé. Solo sul Calvario, Maria ha ritrovato il suo posto vicino a Gesù. E in seguito, aveva un posto al Cenacolo con gli Apostoli per aspettare e vivere la Pentecoste. Ma questo non era mai lei a deciderlo. La sua decisione costante, la sua scelta libera era l’offerta della sua vita. Teneva la sua vita a disposizione di Dio, in un dono costante della sua vita alla libertà di Dio.

«Mi sono fatto tutto a tutti»

Penso a san Paolo quando esclama: «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
«Mi sono fatto tutto a tutti»: è una formula di offerta della vita. Dio ci dà questa libertà, questa possibilità di volere il dono della nostra vita, questa scelta di mettere tutta la nostra vita a disposizione degli altri, a disposizione della salvezza degli altri. Perché è questo sacrificio che compie il senso della nostra vita, e dunque la sua pienezza. Cristo ci ha mostrato che Dio è fatto così, che Dio è questo, e noi non possiamo immaginare e trovare un’altra pienezza di vita che non sia il dono della vita, il sacrificio della nostra vita per tutti.
È un paradosso: ciò che compie la mia vita, ciò che rende la mia vita davvero viva, è il sacrificio della vita, la perdita della mia vita per il tutto, per tutti.

Immaginiamo san Paolo, quest’uomo che è sempre andato sino in fondo del suo desiderio di pienezza, anche quando sbagliava e faceva il male. Ha rinunciato a tutto, e tuttavia, quando si leggono le sue lettere, quando si leggono gli Atti degli Apostoli, si vede che non ha mai rinunciato all’intensità della sua vita. Ha vissuto con intensità le relazioni, le amicizie, gli affetti, il desiderio di conoscere la verità, il senso dell’avventura, la curiosità di conoscere i popoli, le culture, le filosofie, le religioni, la gioia di viaggiare, la passione di insegnare, di educare, di disputare. Andava sempre fino all’estremo delle sue esperienze. E tuttavia, tutta questa intensità di vita, tutto questo possesso della sua vita, li viveva perché sacrificava la sua vita, perché viveva “tutto a tutti”, tutto per Cristo e per gli altri.

Qual era il suo segreto? Cristo, unicamente Cristo. Viveva così perché viveva Cristo, viveva come Gesù, viveva con gli occhi fissi su Gesù. Andava fino alla fine dei suoi desideri e delle sue esperienze perché viveva nell’attrattiva costante che la bellezza di Cristo esercitava su di lui. Come lo esprime, per esempio, scrivendo agli Efesini: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (5,1-2).

Paolo ci dice qui, e dovunque altrove, che la legge della vita, la legge della pienezza della vita, è amare offrendosi, dare la vita offrendola. È la nostra pienezza perché Dio è così, perché Cristo ha vissuto solamente questo, sempre e costantemente, a Betlemme, a Nazaret, a Gerusalemme, nella mangiatoia, in casa, sulle strade e le pubbliche piazze, sulla Croce. Ed è questo il segreto della sua Bellezza, della sua attrattiva su tutti, il suo «soave odore»: il dono della sua vita mediante l’offerta di sé al Padre per noi. È questa la bellezza di Cristo che ci attira, non con un’attrattiva estetica, ma perché in Lui percepiamo la realizzazione piena della nostra umanità, il modello vivente della pienezza della nostra vita umana.

Quando Gesù dice: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32), parla di questa bellezza del dono della sua vita. Ciò che attira tutti gli uomini a Cristo è la Croce, la sua vita completamente data, realizzazione suprema della nostra umanità. Non c’è niente di più bello dell’umanità di Cristo che si offre totalmente sulla Croce, perché è in essa che Dio manifesta e ci fa partecipi del Dono che Egli è in quanto Dio, in quanto Trinità.

Abbandonarsi a questa attrattiva di Cristo, a questa bellezza totale di Cristo, è la nostra missione nel mondo. È questo lo straordinario nel Cristianesimo: che la missione, il compito, il dovere non è altro che ciò che compie la nostra vita. Non dobbiamo fare altro che lasciarci trascinare alla soddisfazione del nostro desiderio di pienezza per compiere la nostra missione verso tutti, perché ciò che ci attira in Cristo è il dono della vita che offre alla libertà di Dio ogni istante e ogni circostanza della vita, affinché Dio compia il suo Regno in noi, nel mondo e per l’eternità. La bellezza che ci attira in Cristo è in fondo l’Eucaristia, perché è lì che Gesù costantemente «ci ama e dà se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore».

E qual è il nostro posto in questa bellezza eucaristica di Cristo? È l’offerta di noi stessi con Lui, è l’offertorio del pane e del vino che noi siamo, della terra e del lavoro che siamo, dunque della nostra esistenza reale, umana, così com’è. È mediante l’offerta della vita che facciamo memoria di questa bellezza, che la perpetuiamo e la irradiamo nella e con la nostra vita.

«Fate questo in memoria di me»: fare memoria di Cristo dato per noi significa offrire. L’offerta è una memoria reale, una memoria “fatta”, una memoria realizzata nel reale della vita; vuol dire conservare nella nostra vita quotidiana la presenza di Cristo che attira tutta l’umanità a Lui, che salva tutto l’universo. Si diventa strumento di Cristo che attira tutti gli uomini a Sé per salvarli, per dar loro la pienezza della vita.

Non dobbiamo temere la persecuzione del mondo, perché non è la persecuzione che elimina il Cristianesimo. Dobbiamo temere piuttosto di perdere questa memoria, dobbiamo avere paura di dimenticare di offrire la nostra vita. È l’oblio dell’offerta di Cristo, dunque della sua bellezza attrattiva, che deve farci paura, non la persecuzione, né il fatto di essere o di diventare un piccolo gregge. Dimenticare di offrire la vita come Cristo ha fatto, è molto più grave, molto più pericoloso. Infatti ciò significa che la nostra libertà non è più attirata dalla vera bellezza del Signore e dunque non consente più all’opera della libertà di Dio nel mondo che è l’opera della Salvezza.

L’offerta come missione

C’è un’espressione nel vangelo di san Luca, là dove Gesù manda i discepoli nel mondo, che dovremmo sentire come la nostra missione di fronte a tutto nella nostra esistenza, e di fronte al mondo che non ama la Chiesa: «Vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (Lc 10,3).
Essere agnelli in mezzo ai lupi non vuol dire tanto essere deboli, ingenui, candidi, remissivi. Essere agnelli vuol dire essere offerti, essere un’offerta a Dio nel mondo. E ciò vuol dire che, qualunque cosa accada, anche quando il lupo ci ferisce e ci divora, la nostra libertà permette sempre alla libertà di Dio di realizzare il suo disegno attraverso la nostra vita e la nostra morte, come attraverso la vita e la morte di Cristo. Allora, è sempre la Pasqua, la Risurrezione e la Salvezza che hanno l’ultima parola sul mondo e sulla storia.

Ma c’è un pericolo quando si parla di offerta: quello di concepire l’offerta della nostra vita come una pietà. L’offerta della vita non è solamente una pietà. È un dono di tutto il nostro essere, un “essere lì per” di tutta la nostra persona. Nella misura in cui ci prende completamente, l’offerta non è soltanto una pietà, ma tutta una vita, tutta una strada, tutta una storia. Per vivere l’offerta della vita come Cristo, ho bisogno di tutta la mia vita, e non soltanto di certi tempi o aspetti “religiosi” e “spirituali” della mia vita. Sulla Croce era inchiodata tutta la vita di Gesù, tutti gli istanti della sua vita a partire dal suo concepimento, tutti gli incontri, tutto ciò che aveva fatto, detto, pensato. Sulla Croce «tutto è compiuto» (Gv 19,30), nell’offerta del Figlio al Padre per gli uomini.

Ora, c’è una modalità oggettiva dell’offerta totale della vita, una misura oggettiva della totalità con la quale ci offriamo a Cristo come Colui nel quale siamo attirati verso la nostra pienezza: è la modalità dell’appartenenza alla comunità, alla Chiesa, agli altri. L’appartenenza è il fuoco che consuma l’offerta di tutta la nostra persona per la fecondità del dono della nostra vita. Quando Paolo dice che si è fatto «tutto a tutti», è di questa appartenenza che parla: “appartiene tutto” a tutti gli altri. L’appartenenza agli altri impedisce all’offerta, al dono della vita, di essere un progetto nostro, cioè un modo di compierci noi stessi, anziché lasciarci compiere da Cristo che ci attira a Sé.

La compagnia di Chiesa che Dio ci dà, se ama la fecondità e libertà della nostra vita, deve aiutarci, provocarci e accompagnarci in questo, con tutta la misericordia, senza avere paura delle nostre debolezze, delle nostre meschinità e dei nostri peccati, perché tutta la nostra miseria fa anch’essa parte del «tutto» che Cristo ci dà di offrire per tutti, del «tutto» a cui Cristo vuole dare compimento, «a lode e gloria della sua grazia» (Ef 1,6).

(traduzione di Antonio Tombolini,
approvata dall’autor

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