venerdì 22 febbraio 2008

L'UTOPIA (DISUMANA)DEL FIGLIO SANO AD OGNI COSTO

di Francesca Lozito (avvenire)

Ascol­tare la don­na e l’uomo e soste­nerli nei nove mesi che li vedranno diventare genitori.


Non allarmarli con facili preoccupazioni, ma informarli in maniera onesta e corretta.

Valorizzare il rapporto umano che devono imparare ad avere da subito con il figlio che nascerà. Perché non sarà importante quanto riusciranno a dargli, ma l’intensità con cui lo faranno.




È il senso di quanto sostengono, nei rispettivi campi, alcune degli esperti che hanno a che fare con la diagnosi prenatale. Ascoltarli aiuta a discernere meglio quanto, tra il clamore e le conclusioni sbrigative ascoltate in questo periodo a proposito di 'figlio sano' e 'aborto terapeutico', si fa fatica a comprendere.

Cominciamo da chi che ha il compito pratico di far nascere il piccolo: il ginecologo: Alberto Zanini guida il reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Fatebenefratelli di Erba. «Quando una coppia viene da me per farsi seguire in gravidanza – racconta – dopo aver effettuato una serie di analisi parlo loro della diagnostica prenatale.

Perché dev’essere una scelta, non un’imposizione. Si tratta infatti di qualcosa che è legato a un discorso esistenziale. Nel caso in cui, poi, attraverso gli esami di routine emerga una patologia strana è mandatorio fare una consulenza presso esperti di genetica e diagnosi prenatale».

Lo conferma chi si occupa da vent’anni di seguire psicologicamente le coppie di genitori, offrendo un supporto serio ed effettivamente utile: difficoltà e condividere con loro, accanto al mio impegno professionale, le vicende della loro avventura». a dottoressa Patrizia VerganGiuliana Mieli ha lavorato prima all’Ospedale San Gerardo di Monza e poi al San Giuseppe di Milano. Da psicoterapeuta sottolinea l’importanza di un approccio che non sia semplicemente medico al problema (ma tutto questo si scontra con la sordità di alcune aziende sanitarie, che per problemi di bilancio decidono di chiudere questo importante servizio pubblico alla maternità, ndr): «Non ho mai affrontato in maniera routinaria i casi di diagnosi prenatale – afferma –. Ho proposto agli operatori interessati, medici e non, la stessa strada che avevo seguito con le ostetriche, utilizzando di nuovo la riflessione sulla nascita, sul parto, sul rapporto mamma­bambino, sull’importanza della Lvita affettiva, sulla sua organizzazione, fornendo così l’indicazione dei comportamenti corretti per accompagnare e stimolare le pazienti in i, professore di ostetricia e ginecologia all’Università di Milano Bicocca di cui è clinica universitaria l’Ospedale San Gerardo – che può vantare un’esperienza di punta nei diversi campi della ginecologia –, è una delle persone più competenti per parlare di questa materia. Lo fa invocando la parola chiave dell’alleanza terapeutica: «La diagnosi prenatale, strumento prezioso per prevenire e guarire malattie fetali – spiega –, non può essere ridotta a tecnica volta a disumanizzare la donna in gravidanza, trasformandola da persona in oggetto di studio, né può divenire uno strumento di selezione eugenetica. Il rischio di una diffusione impropria delle tecniche di diagnosi prenatale (applicate ad esempio su donne prive di fattori di rischio) è quello di incentivare un’estrema medicalizzazione della gravidanza, trasformandola da evento naturale a malattia, con conseguente aumento, tra l’altro, delle procedure invasive». Qui bisogna sottolineare il rischio, su cui tutti sono concordi, che stia avanzando una pericolosa deriva commerciale delle metodiche di diagnosi prenatale invasiva, con i conseguenti rischi seri che comportano. Come si fa, allora, una corretta comunicazione con i genitori? «Se mi trovo di fronte a una situazione a basso rischio – continua la Vergani – discuto con la donna o la coppia su una sua stima realistica (se il rischio ad esempio di avere un bambino con un’anomalia cromosomica è di 1 su 700 nati va detto e non va assolutizzato quel singolo caso come se pesasse più degli altri 699... Un onesto paragone sui numeri reali dà alle coppie uno strumento di paragone utile rispetto a qualcosa di ignoto che può generare ansia). Un secondo punto-chiave è sostenere la donna nell’esperienza positiva della gravidanza e aiutarla a rafforzare la relazione affettiva con il proprio bambino».


Diversa è la situazione quando si individuano rischi concreti: «In questo caso – dice ancora la ginecologa monzese – proponiamo un percorso che, attraverso una consulenza specialistica (un esperto in medicina materno-fetale o in genetica medica), faccia comprendere bene le problematiche, le terapie proponibili, l’esito della malattia sul bambino e le possibilità diagnostiche, favorendo i percorsi meno invasivi. Questo per cercare anche di evidenziare il valore della vita e la dignità della persona, che non dipende dall’avere o meno un handicap». E qui entra in gioco l’importanza dell’informazione:
«In presenza di una malformazione fetale presentiamo nel modo più esaustivo possibile la patologia (anche mediante schemi, immagini e dati), avvalendoci di specialisti e offrendo in modo discreto la possibilità di incontrare altri genitori di bambini affetti dalle medesime patologie. Molte malattie possono essere curate e anche guarite. Comunque bisogna considerare che un bambino portatore di handicap ha un ruolo importante nella società e, pur chiedendo impegno, non toglie felicità alla sua famiglia».

Basterebbe poco, allora: prima di tutto, capire che l’imperfezione non può essere sinonimo di esclusione sociale. La provocazione viene direttamente dalla scienza, e a farla è il genetista Bruno Dallapiccola: «Ma insomma, tutti abbiamo un genoma imperfetto! Non è questo il vero problema. Piuttosto, bisogna preoccuparsi del fatto che la percentuale di genetisti impegnati nell’informazione ai pazienti è molto bassa: basti pensare che nel 2005 in Italia solo il 13% dei test genetici era accompagnato dalla consulenza», cioè da un genetista che spiegasse cosa avrebbe studiato una volta estratto il frammento di Dna tramite prelievo del sangue. Sull’argomento specifico ancora Dallapiccola si chiede: «In Italia si fanno ogni anno 25 mila diagnosi molecolari prenatali, ma c’è un effettivo riscontro dell’abbassamento della frequenza delle malattie. Allora a che servono? Così generano soprattutto ansia. Vanno spiegate!».

Avvenire 21 febbraio 2008




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