sabato 13 gennaio 2007

EDUCARE ALLA RAGIONE

EDUCARE ALLA RAGIONE
JULIÁN CARRÓN
Università degli Studi di Firenze
Aula Magna
lunedì 18 dicembre 2006, ore 17.00



1) Due parole decisive: educazione e ragione
Nel titolo del nostro incontro appaiono due delle parole di più decisiva attualità: educazione e ragione. Gli episodi accaduti nelle scuole hanno messo davanti ai nostri occhi, volenti o nolenti, la questione educativa: cosa vuol dire educare? Può l’educazione rispondere ai problemi che ci troviamo davanti? È in grado essa di generare un adulto, di far interessare veramente i giovani a qualcosa, impedendo loro di finire nell’apatia e nella violenza? Che questa sia una preoccupazione universale lo mette in evidenzia il fatto che perfino l’Unesco considera l’educazione l’emergenza più seria.
D’altro canto, Benedetto XVI ha meritoriamente reso d’attualità l’altra parola: ragione. Nel suo storico intervento all’Università di Regensburg papa Benedetto XVI ha sfidato tutti gli uomini a un «allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa», convinto che solo in un vero concetto di ragione e nel suo uso corretto possano trovare risposta adeguata le questioni scottanti del nostro tempo. È proprio questo che mette in rapporto tutte e due le parole, educazione e ragione.
Ma è possibile questo allargamento della ragione? E a quali condizioni? O, detto con altre parole, è possibile educare alla ragione?La curiosità sconfinata del bambino documenta che l’uomo, nasce con una struttura originaria che può essere definita come «di inesausta apertura della ragione di fronte all’inesausto richiamo.

( Faccio riferimento ai contenuti emersi nell’incontro dal titolo «Educare, un cammino all’amore» svoltosi presso la sede dell’Unesco a Parigi nel mese di novembre di quest’anno.
Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Regensburg, 12/9/2006.
del reale».)
Egli viene al mondo dentro il contesto storico di un popolo, che possiede una sua cultura, cioè un suo particolare modo di guardare e concepire la realtà e di rapportarsi a essa4. Con un’immagine più potente e più affettivamente cogente, possiamo dire che ognuno è introdotto al reale attraverso gli occhi di sua madre. «Il cuore delle madri è il primo libro dei figli», ha affermato efficacemente e poeticamente Musa Bin Jafaar Bin Hassan, presidente della recente conferenza dell’Unesco. Da questa “maternità” l’uomo è senza dubbio storicamente condizionato.Ma è corretto sostenere che questo condizionamento sia in grado di precludere un rapporto autentico tra uomini? Si può – come oggi spesso accade – accusare questo condizionamento di essere la causa di una chiusura della ragione? O, invece, questo condizionamento è un grande trampolino di lancio verso la realtà di cui essere grati?
Non deve sfuggire la portata di questa questione per la situazione storica odierna, caratterizzata dalla inusitata possibilità di molteplici scambi tra culture, anche le più diverse. E per il pensiero dominante sembra che non ci siano altre strade che la violenza (lo scontro tra usi e civiltà) e l’indifferenza (il multiculturalismo astratto e fintamente tollerante). Contemporaneamente un’altra sfida ci richiama all’urgenza di educare alla ragione: la difficoltà di interessare qualcuno alla realtà. L’assuefazione e la noia così tipiche nella società odierna sono state spesso combattute con raffinate dialettiche e con tecniche specifiche; ma tutti questi antidoti si rivelano prima o dopo fallimentari, poiché partono da un piano etico che non affascina. È la preminenza dell’estetica sull’etica, cioè di un fatto che ci colpisce su uno sforzo pio, a costituire la strada percorribile.

2) L’incontro tra persone come origine di una novità culturale
Un fatto nella sua apparente piccolezza mi ha sempre costretto a riflettere. Cosa succede quando, per circostanze della vita, due persone di culture diverse diventano amiche? Possono appartenere a mondi culturalmente lontanissimi: un cattolico italiano e un bonzo giapponese, o un egiziano musulmano. Eppure le differenze non possono impedire che sorga una amicizia tra di loro e ciascuno è costretto ad allargare la ragione per cercare di entrare nel mondo culturale dell’amico, nel suo modo di percepire le cose e di rapportarsi al reale.

Tutti noi l’abbiamo potuto vedere davanti ai nostri occhi sullo schermo della televisione recentemente. Mi riferisco al viaggio di Benedetto XVI in Turchia. Preceduto da tante polemiche, fomentate da estremisti turchi e opinion-leader occidentali, esso si è rivelato un incontro storico. Le persone che hanno accolto il Papa (autorità religiose e civili anzitutto) hanno fatto un’esperienza imprevista: quella di una impensabile cordialità e simpatia reciproca. Tutti i pregiudizi costruiti su posizioni astratte e ideologiche sono crollati in poche ore. Questo incontro personale e diretto tra uomini ha costretto tutti i presenti – protagonisti, testimoni, commentatori – ad aprire la propria ragione oltre la misura utilizzata nel guardarsi sino a quel momento. È cioè un rapporto umano come fatto reale a forzare la ragione ad allargarsi, per immedesimarsi nell’altro, per imparare il suo modo di percepire, per scoprirlo nella sua autentica identità con una profondità prima inimmaginabile.
Questa esperienza è paradigmatica, e malgrado l’importanza delle persone coinvolte, non è affatto isolata8. Il fatto che esseri umani appartenenti a mondi estranei si incontrino e diventino amici, e che questo sia l’inizio di un cammino che porta a una conoscenza reciproca grazie alla comune disponibilità ad allargare la ragione, non è mai una vicenda ‘privata’ per quanto edificante. Costituisce, al contrario, una vera e propria novità culturale.
Voglio soffermarmi allora anzitutto a prendere piena consapevolezza del fatto. Cosa permette un incontro, una cordialità e un’amicizia tra persone fortemente segnate dalle proprie tradizioni di appartenenza? È la presenza in ognuno di noi – a qualunque latitudine del pianeta siamo nati – della stessa esperienza elementare, «un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende»9. Nella cultura religiosa giudaico-cristiana, questo livello profondo dell’io è espresso col termine biblico cuore: «L’esigenza della verità, dell’amore, della giustizia, della felicità: queste domande costituiscono il cuore dell’uomo, costituiscono l’essenza della ragione, cioè della coscienza che l’uomo ha della realtà secondo la totalità dei suoi fattori»10.

3) La ragionevolezza come sottomissione ai fatti e all’esperienza

Ho già avuto modo di citare in altra occasione11 un assai esplicativo brano del filosofo francese Alain Finkielkraut, che nel libro Noi, i moderni afferma il primato dei fatti per la comprensione di questioni più complesse, comprese quelle metafisiche. Il volume inizia con una
lunga digressione in cui egli si mette all’ascolto di un fatto: «Il 13 agosto 1977, Roland Barthes annota nel suo diario: “D’improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente”. Frase stupefacente [commenta Finkielkraut], a ben riflettere. A quell’epoca, infatti, essere moderni era fortemente raccomandato, se non addirittura vitale, e nel campo estetico era lo stesso Barthes a distribuire la preziosa etichetta. Allora, infatti, l’autore del Grado zero della scrittura era fra quanti, rarissimi e selezionati, dettavano legge in fatto di modernità. Era uno dei selezionatori della squadra. Tra il vecchio e il nuovo, Barthes era categorico. Separava in continuazione l’attuale dal caduco, il contemporaneo dal defunto. Ed ecco che all’improvviso, solo con se stesso, riconosceva che la linea di divisione passava attraverso il proprio cuore. Era il giudice e al tempo stesso l’imputato. Esercitava a proprie spese un diritto di vita e di morte sulle cose dello spirito. Escludeva ciò che egli stesso amava; i suoi valori proclamati condannavano alcune delle sue inclinazioni profonde. Il suo gusto soffriva per i suoi verdetti, ma lui non osava confessarlo per paura di non essere moderno. Uno strano, tenace timore lo trasformava nel dissidente clandestino della sua stessa dottrina. D’un tratto, l’intimidazione cade. Barthes smette di avere paura. L’altro suo io esce dal nascondiglio e si mette finalmente a respirare all’aria aperta»12.
Questo episodio è oltremodo significativo: nemmeno un moderno come Barthes, abituato a usare la ragione come misura assoluta della realtà, può evitare, a un dato momento, di fare i conti con la propria umanità, fino al punto che il giudice diventa l’imputato davanti al suo cuore, dando il via a una lotta interiore tra i valori ideologicamente proclamati e le inclinazioni profonde del proprio animo. Ciò che emerge chiaramente in questo frangente è che vi è qualcosa in noi che resiste a ogni interpretazione e al tempo stesso la smaschera, quando si rivela ingiustificata, violenta, asfissiante. Barthes ha avuto riscontro nella propria esperienza che il suo gusto soffriva per i suoi verdetti. Egli si trova così davanti alla vera scelta: seguire l’esperienza, le inclinazioni profonde che emergono nell’esperienza e che si palesano nei suoi gusti, oppure rimanere attaccato ai suoi pregiudizi, che si esprimono nei suoi verdetti. E Barthes vince questa battaglia nell’unico modo possibile: cedendo all’evidenza dell’esperienza. E smette di avere paura.
Cosa può provocare una svolta così radicale? Finkielkraut prosegue la narrazione: «Qualche settimana prima di licenziare senza preavviso il Super-Io moderno, Barthes nota nel suo diario: “Vedo la morte dell’essere caro, me ne dispero ecc.” L’essere caro è la madre agonizzante. E c’è un legame tra questa disperazione e quel licenziamento. Barthes ha smesso di proclamarsi moderno e di fare la spola tra i suoi criteri e i suoi gusti quando ha visto morire la madre. “Di colpo, non essere moderno mi è diventato indifferente”. Il diverso atteggiamento in lui non nasce da una riflessione dottrinale, ma da un semplice avvenimento. Un avvenimento intimo e infimo rispetto ai valori non solo artistici ma politici che sono in gioco nella sua adesione alla modernità. È un lutto privato ad aver spinto Barthes a denunciare la sua immagine pubblica»13.
L’avvenimento della morte della madre – non una riflessione dottrinale! – ha letteralmente costretto Barthes ad allargare la ragione. Un avvenimento intimo e infimo finché si vuole rispetto ai valori in gioco nella sua adesione alla modernità, ma decisivo per lo svelarsi della verità. È la natura di evento propria della verità che esige infatti l’avvenimento nel suo stesso svelarsi. Per questo l’avvenimento è il metodo supremo della conoscenza e senza di esso non c’è conoscenza, rimaniamo incastrati negli ingranaggi del già saputo. Invece, è l’avvenimento che fa saltare la misura, che costringe la ragione a un allargamento, mettendola in moto. Analogamente, può essere solo un avvenimento il metodo per educare alla ragione.Se essere moderno significa – come dice Barthes – “separarsi”, cioè significa usare la ragione separata (ab-soluta) dal suo rapporto col reale, il cambiamento consiste nella vittoria su questa separazione. Prosegue Finkielkraut: «In una conferenza tenuta nel 1978 al Collège de France, Barthes confessa il suo desiderio di rompere “con la natura uniformemente intellettuale” dei suoi scritti precedenti, d’iniziare una nuova vita, e cioè una pratica della scrittura che gli permetta di uscire da se stesso, portandolo non più all’“arroganza della generalizzazione”, ma alla simpatia con l’Altro»14. Ecco il cambiamento che inizia a far emergere un io nuovo: uscire da se stessi per aprirsi a un altro. È la vittoria della simpatia sulla separazione. Barthes ha dunque avuto l’audacia di essere davvero ragionevole, secondo la fondamentale massima di Jean Guitton: «“Ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza»15.
4) Sulla ragione
La rilevanza epocale della vittoria sulla separazione si coglie se si capisce l’autentica natura della crisi in cui siamo immersi. María Zambrano ha bene identificato il nocciolo della questione – per questo amo citarla spesso – quando afferma che ciò che è in crisi è proprio il nesso misterioso che unisce il nostro essere con la realtà, che è così profondo e fondamentale da essere il nostro più intimo fondamento16. Questa rottura del nesso con la realtà non è indifferente per capire la natura della ragione e l’uso di essa. Come abbiamo visto nell’episodio di Barthes, basta lasciarsi colpire veramente dal reale perché la ragione si sprigioni e se ne sveli la vera natura. Ma l’esistenza quotidiana attesta che la ragione, pur partendo dai dati di fatto, tende a staccarsi dall’esperienza della realtà per interpretarla e manipolarla secondo pregiudizi e principi che essa non rivela e che non è disposta a mettere in discussione. Così della realtà si finisce per conoscere solo una parte, cioè quella che rientra nella spiegazione dell’interpretazione che si è in grado di dare. Il fenomeno in questo senso più tipico è quello delle ideologie. «L’ideologia è la costruzione teorico-pratica sviluppata su un preconcetto. Più precisamente è una costruzione teorico-pratica, basata su un aspetto della realtà, anche vero, ma preso in qualche modo unilateralmente e tendenzialmente assolutizzato per una filosofia o un progetto politico. L’ideologia è costruita su uno spunto che l’esperienza offre, così che l’esperienza stessa è presa come pretesto per una operazione determinata da preoccupazioni estranee o esorbitanti»17. Come dice sapientemente Hanna Arendt: «Una volta stabilita la premessa, il punto di partenza, il pensiero ideologico rifiuta gli insegnamenti della vita»18.
Al contrario: la realtà si rende trasparente nell’esperienza. Dice Giussani: «L’esistenza stessa delle cose, anzitutto, ridesta la coscienza a quel primo fondamentale senso dell’essere, dell’essere che non dipende da me, mentre io ne dipendo, implacabile presenza che mi si impone. Il fatto cioè che una cosa ci sia, supera sempre sia l’aspettativa sia la capacità di creazione dell’uomo»19. La ragione è esattamente quella facoltà umana che incontra questa presenza implacabile e la rende presente alla coscienza, la fa entrare nel mio orizzonte, la fa ‘interferire’ con me.
In questa esperienza dell’incontro con la realtà la ragione si svela come esigenza di significato, ma non di un significato qualsiasi, bensì di un significato totale.
Ancora mi ricordo, dopo tanti anni, l’impressione che mi fece una volta che portai i miei scolari a visitare il planetario di Madrid. Dopo la visita tornammo a scuola e – poiché casualmente ero proprio io a dover tenere la lezione a quell’ora – cominciai a domandare che cosa li avesse più impressionati tra tutte le cose che avevamo visto. Mi misi alla lavagna a scrivere le risposte, ma rimasi molto colpito dal fatto che nessun ragazzo si dichiarò stupito del numero delle stelle, né domandava quante galassie ci fossero. Tutti, colpiti da quello che avevano visto, riempirono la lavagna di domande come le seguenti: ‘chi ha fatto questo?’, ‘siamo noi i padroni di tutto ciò questo?’, ‘qual è il senso dell’universo?’, ‘quale ne è lo scopo?’. Ai miei giovani studenti erano scattate le stesse domande del grande Giacomo Leopardi: «E quando miro in cielo arder le stelle; | Dico fra me pensando: | A che tante facelle? | Che fa l’aria infinita, e quel profondo | Infinito seren? che vuol dir questa | Solitudine immensa? ed io che sono?»20. È una esperienza di questo tipo che svela la vera natura della ragione, il suo essere esigenza di significato totale. È quella stessa posizione umana che Fëdor Dostojevskij mette in.
bocca a un personaggio di un suo romanzo: «Lo smisurato e infinito è indispensabile all’uomo così come quel piccolo pianeta nel quale abita»21.
La ragione, per sua natura, tende a stabilire nessi, sostenuta com’è dall’indomabile interrogativo ‘perché?’. E né per convenienza né per calcolo riesce ad accontentarsi di soluzioni parziali o provvisorie, poiché il significato pieno di una cosa è dato dal rapporto di essa con tutti i fattori che la riguardano e dalla sua funzionalità a essi22. La ragione è un’urgenza esistenziale, vuole cogliere il senso ultimo, ed è dunque sempre spalancata alla realtà e continuamente all’opera.

Saltare questa evidenza è oltre che errato anche impossibile, come spiega John Henry Newman: «O sono ciò che sono o non sono nulla (…). Non posso non ritenermi sufficiente al bisogno che ho di me, perché non posso fare di me niente di diverso: per cambiarmi posso solo distruggermi. Se non adopero me, non ho alcun altro io da usare»23. Per questo è disumano pretendere di separare l’attività intellettiva dalla totalità dell’io (quasi che l’esigenza di universalità insita nella ragione richiedesse necessariamente l’eliminazione del soggetto): «c’è una unità profonda, c’è una relazione organica fra lo strumento della ragione e il resto della nostra persona. L’uomo è uno, e la ragione non è una macchina che si può disarcionare dal resto della personalità per farla agire da sola come il meccanismo a molla di un giocattolo. La ragione è immanente a tutta l’unità del nostro io»24. Questa unità è la condizione dell’attuarsi sano della ragione. «La condizione perché la ragione sia ragione è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo»25. Per questo la ragione non esiste senza affezione, come ha ricordato di recente il filosofo francese Jean-Luc Marion: «Da Cartesio a Hegel, l’amore è stato relegato a un ruolo secondario, minimo rispetto alla razionalità, alla coscienza. È considerato passione, malattia. [...] L’amore invece è una parte centrale della razionalità»26.
Il mancato rapporto con la realtà dovuto a una ragione intesa come separata conduce a quel nichilismo oggi in voga, che si presenta nella forma di uno svuotamento e di una destituzione della realtà. Quest’ultima finisce per non contenere altro oltre ciò che si può quantificare, calcolare, ed è ridotta a qualcosa solo da usare: è la negazione del reale come segno, cioè come gravido di essere e di promessa per sé. Il nichilismo – afferma Martin Heidegger – è la storia nella quale dell’essere stesso e del suo mistero non ne è più nulla27. Questa eliminazione di profondità è oggi diventata patrimonio comune, tanto che viene vissuta in apparente tranquillità. Il nichilismo oggi non è più una teoria, è la pratica di una vita apatica e dispersa. Non ci si deve poi meravigliare se una realtà

svuotata non riesce a interessare la persona. La ragione domanda incessantemente, ma quanto può durare questa posizione se chi ha il compito di educare fa di tutto per mortificare questa caratteristica? Commenta tristemente Kazimierz Brandys in un suo racconto: «L’alcool [ma oggi dovremmo aggiungere cose anche molto peggiori] contiene la garanzia per riconciliarsi con il presente, una bottiglia da mezzo litro contiene la percentuale desiderata di irrazionale»28.
Per la persona i costi di questa situazione sono enormi a partire – come ha detto Benedetto XVI a Verona – da «una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale»29. A questo miserabile esito, però, un’umanità viva può sempre ribellarsi, essendo la realtà il primo e inesorabile dato, cioè un dono che precede ogni pensiero e ogni riflessione30. Cito spesso, per la sua chiarezza solare, un passo del filosofo spagnolo Xavier Zubiri: «Ciò che è proprio della ragione non sono le sue presunte evidenze, né il suo rigore empirico o logico, ma è innanzitutto la forza dell’impressione della realtà, secondo la quale la realtà profonda si impone coercitivamente nell’intelletto senziente. Il rigore di un ragionamento non cessa di essere l’espressione noetica della forza della realtà, della forza con la quale si sta imponendo a noi la realtà in cui già stiamo impressivamente. Pertanto, il problema della ragione non consiste nel verificare se è possibile che la ragione giunga alla realtà, ma proprio il contrario: in che modo occorre mantenerci nella realtà nella quale già stiamo. Non si tratta di giungere a essere nella realtà, ma di non uscire da essa»31. Si delinea così il principale compito della libertà, perché – dice sinteticamente Sofia Vanni Rovighi – «la “radice” della libertà è la ragione»32. La prima condizione della comprensione è l’accettazione del dato così come ci si dà, lasciare essere ciò che si mostra senza avere la brama di impadronirsene attraverso presuntuose categorie soggettive, bensì mettendosi al servizio dell’oggetto, adorandolo33. «È una passività che costituisce l’originaria attività mia, quella del ricevere, del constatare, del riconoscere»34.
Ma l’imponenza della realtà non lascia indifferente la ragione, come documentano gli esempi citati. Bloccare la dinamica dell’energia della ragione è come fermare la conoscenza. «Il modo con cui il reale si presenta a me è sollecitazione a qualche cosa d’altro. [...] Il reale mi sollecita [...] a ricercare qualche cosa d’altro, oltre quello che immediatamente mi appare. La realtà afferra la
nostra coscienza in maniera tale che questa pre-sente e percepisce qualche cosa d’altro. Di fronte al mare, alla terra e al cielo e a tutte le cose che si muovono in esso, io non sto impassibile, sono animato, mosso, commosso da quel che vedo, e questa messa in moto è per una ricerca di qualcosa d’altro»35.
Questa concezione – «che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura»36 – è rinvenibile come intuizione in alcune tra le espressioni letterarie e poetiche più alte. Mi limito qui all’immagine di Eugenio Montale: «sotto l’azzurro fitto | del cielo qualche uccello di mare se ne va; | né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: | “più in là!”»37. Il poeta ci indica, dunque, che questa dinamica del segno non si compie totalmente se non arriva sino al suo esito massimo, cioè fino allo struggimento pieno di stupore per l’esistenza di Qualcuno che sta all’origine dell’essere, e che l’umanità ha designato coi termini Mistero o Dio. «Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero»38. «Il mondo è un segno. La realtà richiama a un’Altra. La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega»39.
Se per un attimo diventiamo veramente ragionevoli e accettiamo di sottomettere la ragione all’esperienza descritta, possiamo dire che educare alla ragione è educare a questa lealtà con la realtà, che mi fa sorgere delle domande, a cui io non mi posso sottrarre se voglio stare all’esigenza della ragione così come appare nell’esperienza. Se essa per sua natura non si ferma fino al mistero, educare alla ragione vuol dire educare a un rapporto così vero con la realtà che mi impedisca di bloccare la dinamica verso la totalità. Ed è questo rapporto semplice e leale l’unica vera garanzia di un vero e inesauribile interesse per la realtà: «È questo impeto illimitato verso l’infinito che spinge la ragione a interessarsi di tutti i fattori della realtà»40. Per questo ha ragione Albert Einstein quando dice: «Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato»41.


4) L’educazione alla ragione come compito dell’università

Se c’è un luogo eminentemente chiamato a educare la ragione questo è l’università. Si tratta della sua autentica ragione di essere. Senza un uso vero della ragione, essa non potrà realizzare il suo compito. Mentre educando alla ragione l’università compie una vera e propria missione educativa. E, seguendo la grande definizione di Josef Andreas Jungmann, educare è «introdurre alla realtà, in definitiva alla realtà totale»42. Noi tutti siamo coscienti fino a che punto sia necessario, per introdurre alla realtà nella sua interezza, recuperare la passione per la ragione come esigenza di totalità43.
Come può l’università compiere una educazione alla ragione?
Permettete che ancora una volta mi riferisca alla lezione di Regensburg. Ricordando i tempi della sua vita universitaria, il Papa ha descritto la esperienza di universitas, «cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva»44.
[1] Il primo elemento che voglio sottolineare – che è anche il più delicato e decisivo – è questa tensione tra le specializzazioni e il tutto dell’unica ragione.
L’università – per come è oggi strutturata – contribuisce a educare alla ragione attraverso lo studio dei diversi rami del sapere, le diverse specializzazioni. L’uomo viene catturato da una preferenza, che lo porta a sviluppare una passione e un impegno con un aspetto particolare dello scibile. Sta a chi educa il compito di non chiudere, sprecandole, tutte le energie solo su questo aspetto, ma di rilanciare il processo conoscitivo come apertura alla totalità a partire da quel particolare: «la moderna ragione propria delle scienze naturali [...] porta in sé [...] un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche»45.
L’unica ragione è divenuta oggi quella scientifica e il suo ambito d’azione è identificato esclusivamente con quella realtà che può essere trascritta in termini matematici e sottoposta al protocollo dell’esperimento. Tutto ciò che non è traducibile in linguaggio matematico e non è sottoponibile alla dimostrazione sperimentale in definitiva non è conoscibile, è il campo del meramente soggettivo, dove ciascuno può dire quello che vuole: tot capita tot sententiae. Questo è il dogma del razionalismo scientifico: «Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio»46.
Lo denunciava anche Giussani: «solo nel campo scientifico e matematico può essere percepita e affermata la verità sull’oggetto. In altro tipo di conoscenza – concluderebbe [una simile posizione] –, nel problema del destino, nel problema affettivo, nel problema politico, non si potrà mai raggiungere una certezza obbiettiva, una conoscenza vera dell’oggetto»47.
Si può parlare, dunque, secondo il preconcetto in voga, di conoscenza e di conoscenza certa solo quando si può procedere secondo il metodo scientifico, vale a dire quando si può ‘matematizzare’ l’oggetto dell’indagine e applicarvi la ragione calcolante (l’ideale della scienza moderna è la cartesiana mathesis universalis48). La matematizzazione (quantificazione) della realtà sta alla base della ‘scientificità’: tutto ciò che non è quantificabile-calcolabile, riducibile matematicamente, non può pertanto essere conosciuto con certezza, non appartiene alla cerchia dei fenomeni affrontabili razionalmente. L’unico uso della ragione culturalmente ammesso e riconosciuto è quello matematico-sperimentale. Per noi, in conclusione, ‘certo’ (‘razionalmente certo’) equivale a: ‘dimostrato attraverso il calcolo e confermato dall’esperimento’.
La sfera della ‘autentica’ conoscenza si riduce così a un piccolo campo di verità astratte e formali, con le conseguenti applicazioni scientifico-tecniche. Qual è il risultato di tale inaudita restrizione, di questo dominio del razionalismo scientifico? Che la ragione e la conoscenza non hanno più rapporto con la vita, con le questioni della vita, con le esperienze e gli interrogativi più propriamente umani. La ragione si separa dall’esistenza. La conseguenza devastante è perfettamente espressa da Benedetto XVI: «Se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo»49. «L’atteggiamento scientifico – nel senso proprio del termine – già sappiamo che non potrà esaurire l’attenzione all’esperienza. Proprio “per esperienza” viviamo moduli e fenomeni che non si riducono all’ambito biologico e fisico-chimico»50.Ma chi l’ha detto che la ragione si identifica con una sola mossa e un solo fenomeno? «È molto più vasta la ragione; è vita, è una vita di fronte alla complessità e alla molteplicità della realtà, di fronte alla ricchezza del reale. [... Essa] implica diversi metodi, o procedimenti, o processi, secondo il tipo degli oggetti»51. Sarebbe irrazionalità pretendere di usare uno stesso metodo per realtà che si presentano irriducibilmente diverse.
Così si esprime il grande fisico Erwin Schrödinger: «considero la scienza una parte essenziale del nostro sforzo di rispondere a quel grande problema filosofico che comprende tutti gli altri [...] : chi siamo noi? E di più; considero questo non soltanto uno degli scopi, ma lo scopo della scienza, quello solo che conta»52. Solo in questa tensione di ogni branca dell’umano sapere alla totalità, all’unione di tutti i suoi rami, le diverse specializzazioni possono salvare la ragione nella sua natura. Lo spiega bene Edmund Husserl: «Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. [...] Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso e del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. Questi problemi, nella loro generalità e nella loro necessità, non esigono forse, per tutti gli uomini, [...] una soluzione razionalmente fondata?»53. E poco oltre sempre Husserl scrive una proposizione geniale: «A ben guardare, questi problemi, come tutti quelli che sono stati esclusi, hanno una loro inscindibile unità in questo: espressamente o implicitamente, nel loro senso, essi contengono i problemi della ragione – della ragione in tutte le sue forme particolari»54.
Dal canto suo, John Barrow, professore di astronomia, matematica e membro della famosa Royal Society afferma: «Tra tutti gli universi possibili, il nostro è eccezionale perché è adatto alla vita [...] questo è un fatto veramente straordinario, e va interpretato per spiegare scientificamente la nostra stessa esistenza nell’universo. [...] Quando la scienza arriva a porsi domande fondamentali come quelle sulla nascita dell’universo, si crea una profonda risonanza con il pensiero religioso»55. È decisivo questo punto: non quando la scienza fa un passo indietro rispetto alla realtà o quando abdica al suo compito, ma quando è davvero se stessa si crea una profonda consonanza tra essa e il senso religioso. Sembra averlo capito la commissione dell’Università di Harvard che sta facendo una revisione del curriculum dopo trent’anni, per proporre nei nuovi piani di studio corsi di “Ragione e Fede”, prima che gli studenti si avventurino nelle specializzazioni. Scopo dichiarato? Aiutare a capire la complessità del mondo56.D’altronde lo stesso legame lo segnalava mezzo secolo fa il grande matematico Francesco Severi, che nell’andare a fondo del suo impegno scientifico e teorico ha raggiunto evidenze tali da condurlo alla conversione religiosa: «[tutto ciò che indago è] in funzione di un assoluto che si oppone come barriera elastica [...] al suo superamento con i mezzi conoscitivi»57.
La distinzione di saperi e di metodi – come si vede chiaramente – non è oppositiva, ma spinge nella prospettiva di un’unità del sapere, che oggi può essere un’esigenza e un’ipotesi di lavoro, piuttosto che un’affermazione astratta. Soltanto così l’università potrà compiere la sua vocazione ormai secolare: «All’origine dell’istituzione universitaria sta l’idea di una totalità di conoscenza possibile, perché c’è una ragione aperta alla verità in ogni sua forma. Per questo l’università si è sviluppata come luogo di convergenza dei saperi e di comunicazione tra conoscenze e metodi diversi. Una visione come questa, che non rifiuta la ‘grandezza’ della ragione, ma ha invece il coraggio di aprirsi alla sua ampiezza è stata anche la fonte di tutto ciò che l’università ha prodotto di importante e duraturo, del suo metodo di ricerca e di rigore scientifico e della sua capacità formativa»58.
Mi permetto, non per opportunità ma per autentica consonanza con le sue parole, di citare il rettore Augusto Marinelli: «Non credo che oggi nell’università ci sia [la] consapevolezza [di essere un luogo dove si educa alla ricerca della verità]. Non credo che vi sia una passione per la conoscenza e la ricerca della verità come punto fondante della vita accademica. Con questo intendo dire che vedo l’università più orientata a obiettivi tecnici e ad una formazione specialistica: le questioni di fondo si danno per acquisite, insomma. Il rischio però è di ridurre l’universitas del sapere all’universitas delle nozioni: c’è effettivamente una sfida da rilanciare, soprattutto nel momento attuale, per recuperare il senso dell’università, guardando ad essa nella totalità delle sue dimensioni. La percezione del compito educativo dell’università, infatti, può avere ricadute molto importanti non solo nelle scelte del singolo docente, ma anche in quelle di chi guida le strutture e gli atenei»59.

[2] Il secondo aspetto su cui voglio soffermarmi è l’affermazione che il retto uso della ragione è – secondo le parole del Santo Padre – una comune responsabilità.
Avvertiamo – mi sento di affermarlo da professore a professori – certamente un autentico bisogno di aiutarci tra di noi. Una vera comunità accademica è l’unica che può salvare ognuno di noi dalla propria presto o tardi inevitabile parzialità. Quando si vive in questa tensione all’allargamento propria della ragione, infatti, l’altro non è più un ostacolo che limita la mia ricerca, ma un bene perché impedisce che io mi isoli, richiamandomi costantemente a uno sguardo aperto alla totalità. Soltanto una generazione comunionale può salvare la natura della ragione e la verità della ricerca. «La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione della energia e della decisione personale, ma la condizione dell’affermarsi di essa. Se io metto un seme di faggio sul tavolo, anche dopo mille anni (posto che tutto rimanga tale e quale) non si svilupperà niente. Se io prendo questo seme e lo metto dentro la terra, esso diventa pianta. Non è l’humus che sostituisce l’energia irriducibile, la “personalità” incomunicabile del seme: l’humus è la condizione perché il seme cresca. La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto»60.

[3] Il terzo e ultimo punto cruciale – che per certi versi è legato al secondo – è il bisogno di testimoni.
L’allargamento della ragione non avviene solo attraverso la pur giusta difesa di una corretta concezione della ragione, ma viene dal vedere in atto un’umanità che vive la ragione come reale apertura e che ne sperimenta il bene per sé. Lo descriveva filosoficamente molto bene l’allora cardinale K. Wojtyla in un suo testo del 1972: «È propria della persona la capacità di cogliere questo bene, ed in particolare di coglierlo quando la persona diviene soggetto dell’azione, la capacità di coglierlo nell’atto»61. Vi è dunque un bisogno enorme di testimoni. Testimoni di che cosa? Dell’uso vero e vasto della ragione, che aiuta a stare davanti alle sfide che il presente ci pone. Come ha scritto Luisa Muraro, «la nozione moderna di ragione che si è ristretta entro limiti che lasciano fuori gli interrogativi essenziali dell’uomo e lo stesso nome di Dio, si è resa inadeguata ad un vero dialogo con l’umanità intera»62. È seguire la dinamica della ragione spalancata e messa in moto dall’imponenza della realtà che ci rende capaci di un vero dialogo globale tra culture e tradizioni religiose63 e che, per dirla con Dante, ci fa uscire dalla «aiuola che ci fa tanto feroci»64.
Ed è qui anche la vera alternativa al nichilismo che l’università è in grado formulare. Una sola ragione può riuscire a interessare il soggetto: quella che è in grado di rispondere alle domande fondamentali suscitate dal reale, dalla vita65.
Grazie.

(3 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 134.
4 Non è inutile richiamare qui proprio il valore di ‘cerniera’ culturale del padre e della madre: «I genitori [...] non si limitano a chiamare i figli alla vita, facendoli nascere, ma allo stesso tempo li introducono in un mondo» (H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, pp. 242-243).
5 Cit. in: M. Corradi, Sorpresa dall’Unesco: «L’emergenza più seria? Quella educativa», «Avvenire» del 10/11/2006.
6 Con disperata ironia Johann Wolfgang Goethe affermava: «Se le scimmie riuscissero a provare noia, potrebbero diventare uomini» (J.W. Goethe, Massime e riflessioni, Tea, Milano 1988, p. 189).
7 Tommaso d’Aquino sintetizza il problema nella sua dimensione metafisica: «il bene e il male dell’agire, come delle altre cose, si desume dalla pienezza o dalla incompletezza dell’essere» (Thomas Aquinas, Summa theologiae, I-II, 18, 2)
9 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 9.
10 L. Giussani, L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza, Marietti, Genova 2000, p. 36.
11 Cfr. J. Carrón, L’urgenza della ragione, in: A. Gamba (a cura di), Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Milano 2007 (in corso di stampa).
13 A. Finkielkraut, Noi, i moderni, Lindau, Torino 2006, p. 25.
14 A. Finkielkraut, Noi, i moderni, Lindau, Torino 2006, p. 26.
15 J. Guitton, Arte nuova di pensare, Edizioni Paoline, Roma 1981, p. 71.
16 Cfr. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina editore, Milano 1996, p. 84.
Quando Tommaso d’Aquino definisce la persona come «quanto di più nobile c’è nell’universo, ovvero un essere sussistente di natura razionale», egli ci indica che il nesso profondo e arcano tra la nostra ragione e la realtà costituisce tutta la nostra statura umana. (Thomas Aquinas, Summa theologiae, I, 29, 3).)
21 F. Dostojevskij, I demoni, Garzanti, Milano 1986, p. 702.
22 Proprio in ciò trova spiegazione la definizione di ragione come «coscienza della realtà secondo tutti i suoi fattori» (L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1996, p. 79).
23 J.H. Newman, Grammatica dell’assenso, Jaca Book / Morcelliana, Milano / Brescia 1980, p. 214.
24 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 32.
25 L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti, Genova 1999, p. 117.
26 Cit. in: B. Ventavoli, Amo ergo sum, «La Stampa» del 13/11/2006.
27 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 1994, pp. 809-861.)
28 K. Brandys, La difesa della «Grenada» e altri racconti, Mondadori, Milano 1961, p. 41.
29 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Verona, 19/10/2006.
30 Quanto detto si oppone al pensiero filosofico dominante nei testi di divulgazione: «Una persuasione abbastanza diffusa nella storia della filosofia è che la prima verità, immediatamente evidente e presupposta ad ogni altra, sia il cogito, l’io penso [...]. [Al contrario!] Non si ha intuizione del pensiero, del conoscere; si conoscono cose – qualunque siano poi queste cose – si vedono colori, si odono suoni, si pensano numeri ecc., non si vede il vedere, non si ode l’udire e, immediatamente, non si pensa il pensare. La prima verità, implicita in ogni affermazione, non è il cogito, ma c’è qualche cosa» (S. Vanni Rovighi, Uomo e natura. Appunti per una antropologia filosofica, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 171).
31 X. Zubiri, Inteligencia y razón, Alianza Editorial, Madrid 1983, pp. 95-96.
32 S. Vanni Rovighi, Uomo e natura. Appunti per una antropologia filosofica, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 193.
33 Cfr. H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, I, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961, pp. 448-449.
34 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, pp. 140-141.)
35 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 153.
36 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Verona, 19/10/2006.
37 E. Montale, Maestrale, vv. 17-20.
38 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 162.
39 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 195.
40 L. Giussani / S. Alberto / J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo. Nuove tracce d’esperienza cristiana, Rizzoli 1998, p. 21.
41 Cit. in: F. Severi, Scoppiò cinquant’anni fa la «rivoluzione» di Einstein, «Corriere della Sera» del 20/4/1955.)
42 J.A. Jungmann, Christus als Mittelpunkt religiöser Erziehung, Herder & Co. G.M.B.H. Verlagsbuchhandlung, Freiburg im Bresgau 1939, p. 5.
43 Ci muoviamo qui contro le due concezioni pericolose segnalate da Benedetto XVI: «Una di esse è quell’agnosticismo che scaturisce dalla riduzione dell’intelligenza umana a semplice ragione calcolatrice e funzionale e che tende a soffocare il senso religioso iscritto nel profondo della nostra natura. L’altra è quel processo di relativizzazione e di sradicamento che corrode i legami più sacri e gli affetti più degni dell’uomo, col risultato di rendere fragili le persone, precarie e instabili le nostre reciproche relazioni» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale della Diocesi di Roma, Roma, 5/6/2006).
44 Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Regensburg, 12/9/2006.
45 Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Regensburg, 12/9/2006.)
46 Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Regensburg, 12/9/2006.
47 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 36.
48 «Esclusa dalla natura ogni determinazione qualitativa, si capisce che l’unico tipo di mutamento sia il moto locale, e questo si riduce ad una pura variazione di distanza, quindi a qualcosa di relativo» (S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, Editrice La Scuola, 1994, p. 133.
49 Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Regensburg, 12/9/2006.
50 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 133.)
(51 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 24.
52 E. Schrödinger, Scienza e umanesimo. La fisica del nostro tempo, G. C. Sansoni Editore, Firenze 1953, pp. 60-61.
53 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 35.
54 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 38.
55 Cit. in: Luigi Dell’Aglio, La vita è «impossibile» senza Dio, «Avvenire» del 12/11/2006.
56 Cfr. J.I. Jenkins & T. Burish, Reason and Faith at Harvard, «The Washington Post» del 23/10/2006.)
(57 F. Severi, Dalla scienza alla fede, Edizioni Pro Civitate Cristiana, Assisi 1959, p. 103.
58 F. Botturi, Uscire dalla crisi è possibile: occorrono laboratori di umanità, «Il Riformista» del 4/12/2006.
59 A. Marinelli, C`è un capitale umano che vuole crescere, «Il Riformista» del 4/12/2006.)
(60 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, pp. 182-183.
61 K. Wojtyla, L’uomo nel campo della responsabilità, Bompiani Testi a fronte, Milano 2002, p. 129.
62 L. Muraro, O della necessità del ragionar di Dio, «Tempi» del 12/10/2006.
63 È quanto ha affermato Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona: «Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità: non sia quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a non poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e sulla direzione della nostra vita» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Verona, 19/10/2006).
64 Dante, Paradiso, c. XXII, v. 151.
65 «Un contesto come quello accademico invita in modo del tutto peculiare ad entrare di nuovo nel tema della crisi di cultura e di identità, che questi decenni pongono non senza drammaticità sotto i nostri occhi. L’Università è uno dei luoghi più qualificati per tentare di trovare le strade opportune per uscire da questa situazione. Nell’Università, infatti, si custodisce la ricchezza della tradizione che permane viva nei secoli; in essa può essere illustrata la fecondità della verità quando viene accolta nella sua autenticità con animo semplice ed aperto. Nell’Università si formano le nuove generazioni, che attendono una proposta seria, impegnativa e capace di rispondere alla perenne domanda sul senso della propria esistenza. Questa attesa non dev’essere delusa» (Benedetto XVI, Visita alla Pontificia Università Lateranense in occasione dell'inizio dell'Anno Accademico, Roma, 21/10/2006).

1 commento:

Barbara ha detto...

Chilla lo zentorne osse goi ve vi arelli, sibriv nostos... Mas gior rim voi core wageme? Yo jambem acquenot lucassem buejassi. Wag xiro conannomente juscanto ben fantempa zenircor di, vel, lo. Distar bato zio aspirmas se cheire or wagindoo kri, il!!!