domenica 23 dicembre 2007

NELLA ROSSA EMILIA SPIEGANO ALLE DONNE CHE SI PUO? NON ABORTIRE

"Passano gli anni e anche quelli che non frequentano la chiesa incominciano ad avere dubbi sul bene della legge 194.
Ci si sente progressisti quando si puo' andare contro alla chiesa e alle parole che il PAPA pronuncia.
Il tempo mostra poi che la chiesa ,attraverso i suoi pastori,indica una strada ,o meglio la strada che conduce alla vera felicita'
Cristo che e' entrato nel mondo e' la risposta ai desideri dell'uomo."


Progetti bipartisan di moratorie quotidiane
di Piero Vietti

Tratto da il foglio del 22 dicembre 2007





Roma. Arriva dalla rossa Emilia Romagna un importante esempio di collaborazione tra movimenti pro life di ispirazione cattolica e il mondo laico degli ospedali e della sanità sul tema dell’aborto e dell’applicazione della legge 194. Lo racconta al Foglio Antonella Diegoli, presidente per l’Emilia Romagna di di Federvita, sigla che raccoglie cinquanta tra movimenti di volontariato, servizi, centri e case d’accoglienza sparsi sul territorio.

Per quanto riguarda l’aborto, Carpi e Forlì sono due esempi illuminanti di come si possa utilizzare la legge per non rassegnarsi all’ineluttabilità dell’aborto. Lì sono nati due progetti, diversi per forma e procedure ma simili per i contenuti: l’idea è quella di formare medici, ostetrici, infermieri e assistenti sociali che hanno a che fare con le donne che vogliono abortire “affinché sia attuata quella parte della legge 194 che in trent’anni non è mai stata considerata, e cioè la prevenzione dell’aborto”, dice Diegoli. Con questa prospettiva, a Carpi è nato “un tavolo operativo a cui siedono operatori ospedalieri, la commissione Pari opportunità e i consultori pubblici e privati da una parte, e l’associazione Giovanni XXIII e il Servizio di accoglienza alla vita come rappresentanti del mondo prolife”. Il progetto, “Scegliere di scegliere” è stato voluto dal primario di ginecologia di Carpi, il professor Masellis.

Senza forzare le rispettive idee di partenza, si è cercato di capire quale sia il problema di fondo:
“La domanda a cui bisogna rispondere è come aiutare in concreto le donne che vorrebbero abortire, non quale sia il metodo abortivo da utilizzare.

Nella mia esperienza ho visto come non obiettori e abortisti siano convenuti con obiettori e antiabortisti, al di là dell’essere ‘laici’ o cattolici, sul fatto che si deve rispondere al grido di dolore che una donna in quella situazione ha nel cuore. Da qui si può costruire”, afferma Antonella Diegoli.


I numeri le danno ragione: a Forlì, dove è stato stipulato un vero e proprio protocollo di collaborazione tra operatori, consultori e movimenti, “in pochi mesi l’undici per cento delle donne che aveva già ottenuto il certificato per abortire ha deciso di tenere il figlio. Se questo protocollo fosse applicato in tutta la regione, verrebbero salvati oltre mille bambini all’anno solo in Emilia Romagna.

E molti di più sarebbero se la scelta per la vita fosse via via incentivata”. Come funziona questa “rete” di aiuto? “Quando una donna si rivolge al medico o all’ospedale, le viene segnalata la possibilità di parlare con esperti che le spiegano che ci sono alternative all’aborto”. Cosa che molte nemmeno sanno. “Una ricerca relativa agli ultimi anni ha dimostrato che il quaranta per cento delle donne che hanno abortito a Modena non sapeva che esistessero alternative a quella scelta. Se poi teniamo conto che la maggior parte delle decisoni sono prese per problemi economici, capiamo che c’è qualcosa che non va: la legge dice che quella economica non può essere una motivazione, la donna deve poter essere aiutata”. Questo è quanto esperti e assistenti sociali provano a trasmettere. “Succede – aggiunge Diegoli – che alcune donne decidano di tenere il bambino nel momento in cui si rendono conto che c’è qualcuno che le ascolta, che condivide la loro fatica, che è disponibile ad ascoltarle e aiutarle durante e dopo la gravidanza”.

A muovere questi progetti, spiega ancora Antonella Diegoli, “da parte dell’operatore pubblico è la volontà di applicare davvero e fino in fondo la legge. Per decenni, però, posizioni ideologiche hanno impedito di costruire questa rete di aiuto”.


Anni fa, a Bologna era stato firmato un protocollo simile a quelli di Carpi e Forlì, ma alcune femministe si opposero e occuparono, nude, la sede della regione. Il progetto non partì. Cosa è cambiato? “Credo che oggi non ci sia più nessuno che pensi all’aborto come un bene per la donna. Conosco tanti medici non obiettori, non cattolici, che a un certo punto smettono di praticare aborti perché, parole loro, ‘non ce la fanno più’.

Per quanto riguarda le donne, la possibilità di sapere che se tengono il figlio non saranno da sole, dà loro una speranza inimmaginabile”.

Un dato a sostegno di questa tesi è il numero sempre più elevato di donne che ricorrono alla psicoterapia perché non si perdonano di avere abortito.


“La legge è chiara – conclude Diegoli – una volta ottenuto il certificato, prima dell’operazione bisogna far passare un certo periodo in cui la donna abbia il tempo di pensare a cosa sta per fare”. Quello è il momento in cui dare sostegno e informazioni alla donna perché la scelta sia reale e non imposta dall’indifferenza.





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