giovedì 27 dicembre 2007

AUTORITA' E AUTOREVOLEZZA


Come ormai sappiamo da anni “…il maestro è colui che serve e converte il suo dominio in amicizia...” : cioè la vera auctoritas è quella capace di decisione, ma anche di distacco, di responsabilità, ma nello stesso tempo di condivisione; si è autorevoli perché si ha ben in mente la rotta che deve tenere il vascello, ma come dice don Giussani, si corre spesso l’equivoco che “... "educare significhi semplicemente chiarire le idee...”

L’obbedienza è ancora una virtù - - Autorità ed autorevolezza
Autore: Mocchetti, Giovanni Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica
Un preside racconta che cos’è per la propria esperienza l’esercizio dell’autorevolezza dentro l’autorità, senza il quale l’obbedienza non ha ragioni adeguate.


Non ho mai letto manuali di pedagogia né imparato a memoria manuali d’istruzioni per esercitare l’auctoritas del praesidium (che, etimologicamente, dal latino significa “...essere di sentinella, fare la guardia, stare fermo e vigilante per difendere qualcosa…”.


Non ho mai pensato di svolgere questa autorità, che mi è stata conferita, come una funzione che stabilisce moralisticamente diritti e doveri e ne misura l’applicazione; il nostro mestiere è troppo drammatico, affascinante ed imprevedibile per essere chiuso a priori dentro delle gabbie.


Il nostro mestiere ha a che fare con l’anima, con il mistero dell’io con tutti i fattori di cui è intessuta la sua persona (emozioni, mentalità, corpo, ragione, cuore, ricchezze e limiti);

il nostro educare ogni giorno ha di fronte il magma ardente ed imprevedibile dell’avventura umana della crescita della persona.

Quindi l’auctoritas si forgia impastando la propria carne ed il proprio spirito dentro questa lava misteriosa di un’ infanzia che finisce e di un altro ego che comincia ad essere.

L’autorevolezza nasce dalla compromissione di sé dentro l’umano del discepolo, di cui si ha sempre una grande stima, verso cui non viene mai meno lo sguardo capace di una positività che va oltre, non si ferma all’apparenza della sua recalcitrante tensione a diventare grande (la tendenza è quella di restare come Peter Pan nell’Isola che non c’è).


Ho imparato ed imparo l’auctoritas obbedendo, seguendo, rubando segni di certezza ideale da chi già viveva nel quotidiano una presenza autorevole così evidente che non potevi non accorgertene e quindi gli andavo dietro.


Non è mai stato semplice attuare questa sequela, perché si ritiene, a torto o a ragione, consapevolmente o meno, di saperne sempre di più degli altri, di essere più perspicaci e più accoglienti degli altri, fino a quando succede che un alunno fa una domanda, un genitore compie un’osservazione, un docente vive un gesto gratuito e comprendi che hai sempre molto da imparare dall’alleanza educativa adulta che con te porta ogni giorno il vascello sull’orizzonte spalancato dell’oceano.

Come ormai sappiamo da anni “…il maestro è colui che serve e converte il suo dominio in amicizia...” : cioè la vera auctoritas è quella capace di decisione, ma anche di distacco, di responsabilità, ma nello stesso tempo di condivisione; si è autorevoli perché si ha ben in mente la rotta che deve tenere il vascello, ma come dice don Giussani, si corre spesso l’equivoco che “... "educare significhi semplicemente chiarire le idee...”

mentre questa certezza ideale va sempre sostenuta da un agire, da una lavorare costante dentro le cose di tutti i giorni, nel vivere il particolare per cogliere l’universale che sta nascosto tra le sue pieghe e poi rilanciarlo come compito per tutti.

Quindi, auctoritas come posizione umana certa che tuttavia si fa sorprendere sempre dall’avvenimento della libertà di tutta la ricchezza del prossimo che ti circonda e dall’imprevedibilità della Grazia celata dietro la realtà. Ho imparato quindi a fare il preside, perché ho fatto questa esperienza.

S’impara a fare i genitori vivendo un rapporto con la totalità del reale,

un amore al proprio destino, a quello della persona amata che il Signore ci ha donato e rischiando una paternità , una maternità che non finiscono mai, perché tirar grandi i figli è un continuo “generare”, dato che si ha a che fare con la costituzione paziente, generosa, impegnativa di un io, fino a quando esso non è in grado d’inoltrarsi da protagonista dentro la complessità del reale;

s’impara ad essere genitori “obbedendo”, cioè stando davanti al figlio così com’è,

perché è, quindi in modo realistico, facendo i conti con il dato misterioso della persona del figlio, non con il progetto (per quanto buono) che si ha su di lui, in quanto egli non è una proprietà privata, come dice Gibran “...è un dono della vita stessa”, o sant’Ambrogio, non dobbiamo “…sognare per lui i nostri desideri…”. In sostanza: il figlio è una sorprendente, quotidiana occasione per la verità di sé.

Tutto ciò accade dentro un cammino e soprattutto dentro un rinnovato desiderio di svegliarsi ogni mattina per affrontare in modo appassionato le circostanze di cui è intessuta la vita che ci viene donata, istante per istante, in compagnia dei volti che ci sono stati affiancati o affidati, comportandosi come dice Emily Dickinson in questa sua poesia:

…da un’asse all’altra avanzavo così lenta, prudente. Sentivo le stelle sul capo, e sotto i piedi il mare / Questo solo sapevo: che un altro passo sarebbe stato irrevocabile. Ed avevo quell’andatura incerta che chiamano esperienza”.

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