giovedì 27 dicembre 2007

COME FOSSIMO PRIMITIVI. LE SCHIAVE IN MEZZO A NOI

ci vuole un sussulto di dignità che non ci faccia accettare la vendita del corpo umano, del sesso, della dignità umana come una attività fieristica a cui destinare una zona di periferia.


Prostituzione, la prima lotta è culturale
di Davide Rondoni

Tratto da AVVENIRE del 23 dicembre 2007




L’ Italia è un Paese dove vige la schiavitù. E se in un paese c’è la schiavitù significa che tutti siamo colpevoli. Là dove esiste uno schiavo non esiste la libertà per nessuno. E chi dice o pensa: sono libero, compie una censura violenta, colpevole.

Una schiavitù avviene sotto i nostri occhi. Anche se non vediamo catene o lacci perché non si vedono contro la luce dei fanali sui viali di periferia o nelle misere luci stroboscopiche dei night. Centomila ragazze vendute per strada, cinquantamila in locali miserevoli.

Colpevoli siamo noi clienti, noi governanti, noi prostitute, noi passanti.

Il governo tergiversa, prepara disegni di legge confusi e poi li ritira. Nei comuni si profilano soluzioni che non sono soluzioni, ma segni di disperazione. O peggio, di accondiscendenza alla schiavitù. È una peste. Che andrebbe combattuta, e invece la si lascia proliferare. E non ci si ripari dietro il vecchio adagio che tanto si tratta del più antico mestiere del mondo. Se anche fosse vero, e se anche consideriamo inevitabile l’umana debolezza e la tendenza a lasciarsi andare, tutto questo non giustifica tale esercito di schiave, né il colossale laido business che continua a crescere sulle loro schiene, sulle loro gambe, sul loro ventre. Perché una debolezza va corretta, e un mercato mostruoso di schiave va combattuto.
Se in un Paese c’è la schiavitù significa che la mente dei governanti e quella dei passanti è ormai abituata a considerare normale la schiavitù. E questo annulla ogni presunzione di progresso raggiunto. Una mente abituata alla schiavitù non è progredita in nulla. Semmai è tornata ad essere incivile.

La manifestazione che ieri sera gli amici di don Benzi, il sant’uomo che aveva lanciato dal fondo della sua carità il grido d’allarme per queste schiave, e a loro ha aperto le sue braccia di prete e di cittadino, ecco quella manifestazione è il segno a cui dobbiamo aggrapparci tutti, per non soffocare dentro alla colpa dell’acconsentire alla schiavitù.

Poiché un uomo ha detto: «questa indegnità deve finire» allora c’è speranza per noi, per la nostra mente schiavista di governanti e di passanti, di prostitute o di clienti. Aggrapparci alle richieste di don Benzi e dei suoi è l’unico modo per mostrare che qualcosa nella nostra coscienza non ha ceduto all’accettazione della schiavitù come fatto normale. È l’unico modo per dire «l’Italia è un Paese civile» senza dover provare interamente vergogna dei nostri parlamenti, dei nostri viali, delle nostre città.


Si deve colpire duro questo commercio di schiave. Se lo si lascia continuare, possiamo cambiare tutte le leggi elettorali, tutti i governi, tutti i partiti e le coalizioni che vogliamo, ma l’Italia resterà una terra di schiavi.

E di schiavisti. Si deve colpire duro, combattendo con la possibile disperazione che si tratti di ragazze perdute. Combattendo il sottile e velenoso cinismo che non possa essere che così. Quel cinismo e quella disperazione che ci fanno considerare quelle ragazze, spesso giovanissime, meno che bestie.

Buone solo ad essere vendute.

Ci vuole una polizia che vigili sulle strade, e una speranza che vigili nelle coscienze.

Una polizia che dia la caccia a coloro – uomini e, fatto tremendissimo, anche donne – che sfruttano tali schiave, e ci vuole un sussulto di dignità che non ci faccia accettare la vendita del corpo umano, del sesso, della dignità umana come una attività fieristica a cui destinare una zona di periferia.

Ci vuole la polizia e ci vuole la dignità. Come sempre, quando una generazione che non voglia esser vile e disumana si trova a combattere le forme peggiori di potere e di violenza. Se non combattiamo per liberare l’Italia dalla schiavitù, che generazione saremo?

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