venerdì 14 dicembre 2007

NELL'EMBRIONE HO VISTO MIA FIGLIA


Il dottor Yamanaka spiega come ha iniziato a ricercare una via alternativa alla clonazione per le cellule staminali
Nicoletta Tiliacos

Tratto da IL FOGLIO del 13 dicembre 2007

Roma. “Quando ho visto l’embrione, ho improvvisamente realizzato che c’era una differenza piccola tra lui e le mie figlie”. Il dottor Shinya Yamanaka – il ricercatore dell’Università di Kyoto che è riuscito a far regredire cellule della pelle allo stato di staminali embrionali, senza utilizzare e distruggere embrioni umani – ha spiegato sul New York Times di martedì da dove è partito per raggiungere un risultato scientifico che non è esagerato definire immenso.




Ha spiegato in modo disarmante e molto semplice perché è partito da lì, da un’occhiata data, più per caso che per curiosità, a un microscopio, mentre era in visita a un amico che lavorava come medico in una clinica della fertilità. Per Yamanaka, ricercatore di lungo corso e deciso sostenitore della libertà di ricerca (“la libertà di ricerca mi piace”, dice all’intervistatore del NYT), non è stato dunque impossibile riconoscere l’umano in quell’embrione sotto il microscopio. Non ha fatto finta di nulla, ha accettato il responso dei propri occhi e del proprio istinto, e gli sono venute in mente le due figlie: “Ho pensato. Non possiamo continuare a distruggere embrioni per le nostre ricerche. Ci deve essere un altro modo”.

Un altro modo c’è. Lui lo ha dimostrato, scegliendo una strada in apparenza secondaria e tortuosa. Una strada data troppo presto per perdente rispetto a quella, propagandata come miracolistica, della clonazione terapeutica. Tuttora mai realizzata da nessuno, però. Non è mai superfluo ricordarlo: dalla strage di embrioni a fini di ricerca non è uscita, a tutt’oggi, nessuna staminale su misura di malato. Le acquisizioni di Yamanaka e quelle, indipendenti e contemporanee, dell’équipe di James A. Thomson dell’Università del Wisconsin (in passato, uno dei primi scienziati a isolare cellule staminali embrionali umane) dimostrano invece che l’accettazione di un limite – in nome dell’umano, dell’umano riconoscibile in un embrione sotto l’occhio di un microscopio – non solo non ha fatto del male al progresso della conoscenza, ma ha consentito di trovare “un altro modo” per cominciare a risolvere problemi fin qui insoluti.

Il dottor Yamanaka, per come lo racconta il cronista del NYT, è un quarantacinquenne dalla faccia da ragazzo serio, fama di eccentrico e creativo, grande appassionato di sport. “Per sua stessa ammissione drogato di lavoro, il dottor Yamanaka abitualmente lavora tra le 12 e le 16 ore al giorno. Nel campus è famoso perché non accetta mai di pranzare con i colleghi. Mangia nel suo ufficio, in modo da poter continuare a lavorare”. A quanto pare, la recente celebrità planetaria, legata alla pubblicazione dei suoi risultati su Cell, gli crea qualche problema. Tutta questa attenzione, dice, lo distrae dalla ricerca.

Il successo arriva, per lo scienziato giapponese, dopo molti anni faticosi, a tratti quasi disperati. E’ stato lui a concepire per primo, lavorando sui topi, l’idea di una riprogrammazione delle cellule adulte per farle comportare come staminali embrionali, a opera di geni capaci di funzionare come interruttori, e di attivare o disattivare la crescita e la differenziazione delle cellule. Oggi il dottor Shinya Yamanaka è una gloria nazionale: “E’ la prima volta che una ricerca medica di importanza mondiale nasce interamente in Giappone”, dice al New York Times il dottor Hitoshi Niwa, del Centro Riken per Biologia dello sviluppo di Kobe: “Nessuno aveva pensato, prima, di ottenere cellule staminali in questo modo. Si tratta di una direzione totalmente nuova”.

Il dottor Yamanaka è, a suo modo, un outsider. Ha cominciato come ortopedico, attratto da quella specializzazione dopo aver sperimentato da ragazzo molte ossa rotte dal rugby e dal judo, e poi è passato a occuparsi di farmacologia come ricercatore, passando per una divisione medicina (alla Dr. House, per capirsi. Yamanaka dice che, se gli dovesse andare male con la scienza, quella è la sua polizza di assicurazione per il futuro). Della ricerca, spiega, gli piace la libertà e anche il rischio: “Quando gli si chiede quale sia l’origine del suo successo, il dottor Yamanaka risponde che lui è uno disponibile ad assumersi dei rischi”. Quindi anche il rischio di andare controcorrente – lui non la racconta così, ma a ben vedere è così che è andata – e il rischio di battere sentieri meno promettenti e meno pubblicizzati.

La storia di Yamanaka è da manuale. Attratto dalla ricerca sulla terapia genica, punta naturalmente sugli Stati Uniti, ovvero “il posto migliore per conoscere la genetica e la ricerca sui topi geneticamente modificati”. In America, però, “il dottor Yamanaka non aveva né amici né contatti. Racconta di aver spedito una trentina di lettere a università americane e a specialisti dei quali aveva ricavato i nomi da periodici e riviste. Una delle poche a rispondergli fu l’Università della California, con sede a San Francisco, che nel 1993 gli offrì un posto”. Tre anni dopo, Yamanaka tornerà all’Università di Osaka, portando con sé una partita di topi geneticamente modificati, di quei “knockout mice” sui quali sperimenterà, a partire dal 2004, la possibilità di riprogrammare le cellule adulte, riportandole a uno stato equivalente a quello di staminali embrionali. In patria, nel frattempo, lo aspettano anni faticosi e oscuri. Pochi fondi, una sedia in un laboratorio affollato. Arriva la depressione, la sensazione di essere incompreso, la tentazione di smettere con la ricerca, che lui ama ma che non lo ama.

Il dottor Yamanaka arranca per anni. Fino al 2004, quando l’Università di Kyoto, dove era nel frattempo approdato, gli mette a disposizione un vero laboratorio e qualche fondo in più. Risale a quel periodo la visita casuale all’amico medico nella clinica della fertilità, la scoperta dell’essere umano in miniatura nell’occhio del microscopio, l’ispirazione di cercare in qualche modo “un altro modo”. Che doveva esserci, e infatti c’è. In Giappone, spiega Yamanaka, di fatto lui non avrebbe potuto usare nel suo laboratorio embrioni umani, nemmeno se lo avesse voluto. Dice anche che, personalmente, non ha mai manipolato embrioni umani, mentre nel piccolo laboratorio con due persone che continua a gestire a San Francisco, staminali embrionali sono utilizzate “per verificare che le cellule adulte riprogrammate si comportino come vere cellule staminali”. Ma, dice, “il mio obiettivo è quello di evitare del tutto di usarle”.

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