mercoledì 19 dicembre 2007

DA LEGGERE

P. Mauro-G. Lepori – Ritiro della Fraternità – Avvento – Hauterive, 1.12.07

Non appena si sperimenta un poco il dramma della condizione umana, non si percepiscono più le parole e le espressioni del Salve Regina come sdolcinate, perché si comprende che niente è più necessario all’uomo ferito della dolce e misericordiosa maternità di Maria.

Una sola cosa è necessaria
Uno sguardo di Misericordia

Salve Regina, madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, esuli figli di Eva;
a te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime.
Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!



In tutti i monasteri cistercensi del mondo, cantiamo ogni sera il Salve Regina. Attraverso le nostre preghiere, vogliamo essere ascoltati da Dio, da Maria, dai Santi e dagli Angeli. Ma ogni preghiera della Chiesa è fatta anche per essere ascoltata da noi stessi, per imparare a pregare, per imparare a vivere secondo la fede.

Mediante il Salve Regina, affidiamo la nostra giornata e la nostra vita, e la notte che comincia, all’intercessione della Madre di Dio. Poiché si rivolge alla Madre, è una preghiera di fiducia, una fiducia ben fondata, perché Maria è Madre e Regina, ha un potere, un’autorità unica in Cielo, presso Dio, perché è la Madre di Dio, la Madre del Re.

Tutti i titoli e le qualità che questa preghiera attribuisce a Maria si fondano sulla sua Maternità divina. Gesù è «il frutto benedetto del suo seno», e, in quanto Madre di Gesù, Maria è Madre di misericordia, il che può intendersi anche: Madre della Misericordia. Poiché Maria è Madre di Dio, Madre di Gesù, Madre della Misericordia, è la nostra migliore Avvocata, nel senso innanzitutto letterale: colei verso la quale va la nostra invocazione (ad-vocata), ma anche nel senso che ci saprà difendere, che difenderà la nostra causa, nel migliore dei modi. Con lei, mediante lei, siamo sicuri di averla vinta, anche con Dio. Che cosa potrebbe rifiutare Gesù a sua Madre, il Padre alla sua Figlia prediletta, lo Spirito alla sua Sposa?

Così possiamo rivolgerci e affidarci a lei in tutta la miseria della nostra umanità, e con tutte le miserie di tutta l’umanità. Ci rivolgiamo a lei in quanto «figli di Eva». La nostra prima madre ci ha esiliati dal Paradiso verso una «valle di lacrime». Maria è la nostra nuova Madre in quanto Madre del Redentore, e il fatto di lasciarci generare di nuovo da lei, ci fa risalire dalla valle delle lacrime e dell’esilio verso la visione di Gesù, il nostro vero e definitivo Paradiso.

Tutto ciò accade nell’ambiente materno che Maria crea intorno a noi, nella Chiesa. Il Salve Regina insiste sui termini della dolcezza, della clemenza, della misericordia, della consolazione. Noi gridiamo, gemiamo, piangiamo, ma la Madre acquieta, consola, abbraccia.

Ciò può sembrare sentimentale, ma solo a chi non ha mai sentito o voluto sentire, ed ascoltare, in sé e negli altri, il grido dell’umanità ferita, esiliata, peccatrice, il grido della nostra miseria. Non appena si sperimenta un poco il dramma della condizione umana, non si percepiscono più le parole e le espressioni del Salve Regina come sdolcinate, perché si comprende che niente è più necessario all’uomo ferito della dolce e misericordiosa maternità di Maria.

Ora, tutto ciò Maria ce lo dice con il suo sguardo, con i suoi «occhi misericordiosi». Gli occhi misericordiosi di Maria ci mostrano la Misericordia di Dio, il Dio di Misericordia: Gesù. Se Maria volge verso di noi i suoi occhi misericordiosi, noi vediamo in essi, come in uno specchio, il Cristo misericordioso. Nello sguardo di Maria, vediamo lo sguardo di Gesù.

.In Maria troviamo uno sguardo che risponde al grido della nostra miseria, al gemito della nostra miseria, quel grido che si leva in noi nella valle di lacrime in cui ci troviamo. Siamo in basso e sospiriamo verso qualcosa che ci alzi, che ci faccia salire e uscire. L’immagine della valle di lacrime esprime una condizione di abbassamento e di chiusura. È la stessa condizione descritta da Dante all’inizio dell’itinerario della Divina Commedia.

L’uomo, solo, si ritrova in una condizione di abbassamento e di chiusura che contraddice la sua sete di felicità. Questa condizione è una valle di lacrime, perché il cuore non può essere che triste, può solo piangere quando percepisce di ritrovarsi chiuso in una condizione che contraddice la sua natura, che contraddice ciò per cui si sente fatto, che contraddice il suo profondo desiderio. Dalla valle di lacrime non si esce da soli, non si esce perché si vuole uscire. Occorre un aiuto; occorre qualcun altro, capace di accompagnarci, di guidarci.

Tutta la Divina Commedia di Dante è il poema dell’uomo accompagnato verso il suo destino, verso la liberazione, verso la sua vera felicità; dell’uomo che accetta di essere guidato, che accetta di seguire e di domandare a coloro che con la ragione e la grazia possono, in nome di Dio, condurlo alla Salvezza. È dunque il poema dell’uomo che accetta di seguire la Chiesa.



È la stessa condizioneIl vero grido del nostro cuore


Ma prima che dalla valle di lacrime esca l’uomo accompagnato verso il suo destino, occorre che da questa valle di lacrime esca il grido, il gemito; un gemito che, prima di essere sentito da chi ci aiuterà, deve essere sentito da chi l’esprime, o, piuttosto, da chi lo porta in sé, senza volerlo, senza veramente saperlo.

Non è vero che sappiamo gridare, sospirare, gemere, piangere, per riprendere semplicemente i termini utilizzati nel Salve Regina. Infatti, queste espressioni del desiderio, queste espressioni del bisogno, noi le soffochiamo.

Le soffochiamo nei nostri lamenti, nei nostri rancori, nelle nostre accuse rivolte agli altri. Quando gridiamo, non gridiamo veramente: facciamo dei capricci, come i bambini che battono i piedi, che rompono i loro giocattoli, che si liberano violentemente dalle braccia della loro mamma.

Gridiamo perché i nostri progetti e desideri non sono soddisfatti, non per esprimere l’attesa di un altro, il bisogno di un altro.

Analizziamo un poco le nostre grida, i nostri gemiti, le nostre lacrime: domandano un altro o domandano qualcosa?


Chiedono la presenza di qualcuno, o semplicemente ciò che desideriamo, ciò che vogliamo. E spesso, le nostre grida sono così ripiegate sul nostro progetto che anche quando chiedono un’altra persona, la riducono a una cosa, a una cosa secondo i nostri desideri, una cosa fabbricata da noi, che deve corrispondere al nostro progetto, dunque al nostro possesso. «Ho bisogno di te, per tenerti e usarti come voglio!»: è questa la traduzione di molte nostre grida e gemiti rivolti agli altri e anche a Dio.

È come il gemito di Marta: «Ho bisogno di mia sorella, affinché sia e faccia ciò che voglio!» (cfr. Lc 10,40). Allora, Gesù la richiama, non a far niente, non a lasciar perdere la preparazione del pranzo, ma a spingere il bisogno del suo cuore e il suo grido fino a Lui, fino a Gesù presente nella sua vita, come fa sua sorella Maria. Il problema non è ciò che si fa o non si fa; il problema non è essere chiamati a una vita più contemplativa o più attiva: il problema è spingere fino alla fine il grido del nostro cuore, il bisogno del nostro cuore: di spingerlo fino a Cristo, fino al bisogno di Cristo. Ma «spingere» non è il termine migliore. Non si tratta di «spingere» il nostro desiderio, ma di lasciarlo andare verso il suo vero fine, di non riprenderlo ripiegandolo sul nostro progetto, che è sempre più meschino del progetto del Dio che ha fatto il nostro cuore.

Si tratta dunque piuttosto di lasciare che il desiderio ci trascini fino a Cristo, anche quando questo desiderio emerge in noi in una situazione terra terra, come il pranzo che sto preparando o il fastidio davanti alla pigrizia di mia sorella, del mio collega di lavoro o l’atteggiamento del tal membro della mia comunità. La vita è un efficace strumento per «spremere» dal nostro cuore il desiderio di Dio, ma troppo spesso, quel desiderio che, per sua natura, è destinato al Signore, lo rinchiudiamo subito nella pentola, con lo spezzatino che cuoce male.


L’avvenimento dello sguardo


Che cosa può liberarci dalla riduzione del nostro desiderio in lamento, dalla riduzione del grido del nostro cuore in accusa dell’altro, in critica, in vittimismo?



«Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi!».
È proprio così: ci occorre uno sguardo, uno sguardo diverso dal nostro, uno sguardo che ci rivela qualche cosa di più grande di noi stessi, del nostro bisogno. Se non percepisco qualcosa di più grande del mio bisogno, del mio desiderio, è normale che sia frustrato, che sia scontento, arrabbiato. Infatti, se non c’è niente da desiderare, il desiderio è un tormento gratuito, una piaga senza ragioni il cui solo scopo è di tormentarci. Dunque, un «qualcosa» nel mio cuore che mi affretto a soffocare, a ingannare, a anestetizzare.

Se non c’è qualcosa di più grande da desiderare, il desiderio è una malattia, un’allucinazione. E tuttavia, la vita continua a tormentarci. L’uomo contemporaneo è indaffarato a dover vivere nella valle di lacrime facendo finta di non aver bisogno di consolazione. Ma resta nella valle di lacrime, anche quando crede di uscirne attraverso false uscite di sicurezza.

Ci occorre uno sguardo, uno sguardo diverso dal nostro, uno sguardo che ci riveli qualche cosa di più grande di noi stessi, del nostro bisogno.

Questo sguardo esiste e si è manifestato. Si è posato sull’uomo, in uno sguardo di carne, lo sguardo di Cristo, Dio fatto uomo affinché Colui che vede tutto possa guardarci come ci guarda nostro padre o nostra madre, nostro marito o nostra moglie, nostro fratello, il nostro amico. Ci occorre uno sguardo che ci sorprende anche e soprattutto quando stiamo esprimendo male il nostro desiderio. Immaginate Marta che si getta su Gesù interrompendo senza riguardo il suo insegnamento; immaginate i suoi occhi pieni di collera, quello sguardo di collera di cui le donne sono specialiste, quello sguardo che mitragliava tutti i presenti, a cominciare da sua sorella; immaginate questo sguardo che si ritrova guardato da Gesù!

L’avvenimento cristiano è questo.
Il nostro sguardo, così come esso si sprigiona dalla condizione umana mal vissuta, che si scopre guardato dagli occhi dell’Eterno, del Misericordioso, del Dio Creatore e Redentore, del Buon Pastore che dà la sua vita per le sue pecore! Il Cristianesimo è questo. E se non è questo, non è, è inutile, inconsistente, non cambia niente, né in noi, né nel mondo.

Che cosa ha visto Marta nello sguardo di Gesù?

Non basta dire che ha visto che Gesù l’amava più di tutti, più di lei stessa, più dei suoi genitori e degli amici. Infatti, detto così, non si comprende quale cambiamento di vita provochi un tale sguardo. Marta ha visto l’amore di Gesù, ma in quanto avvenimento che penetrava al cuore della sua vita reale, in quanto avvenimento che veniva a fare nuova tutta la sua vita reale. Per obbedire a questo sguardo, Marta non ha avuto bisogno di sedersi estasiata ai piedi di Gesù lasciando bruciare il suo spezzatino e offrendo ai suoi invitati una buona opportunità per dimagrire. Per obbedire a questo sguardo, Marta non doveva lasciare la realtà della sua vita; soprattutto non doveva lasciare la realtà della sua vita, perché lo sguardo di Gesù era come una luce che entrava nella realtà della sua vita e ne trasformava completamente il senso, trasformando il cuore di Marta, trasformando lo sguardo di Marta su lei stessa, sulla sua vita, su sua sorella.


Immagino che tre giorni più tardi, dopo che Gesù era partito, Marta è, evidentemente, davanti alle sue pentole. E siccome è generosa, ha ancora degli invitati. Questa volta sono i vicini della fattoria accanto, una famiglia all’orientale, dunque una trentina di persone. E tutto ricomincia: infatti sua sorella prega nella sua camera, le donne invitate, anziché aiutare, chiacchierano e non fanno attenzione ai bambini che stanno distruggendo la casa, gli uomini urlano discutendo di politica, ecc. Tutto così ricomincia nel cuore di Marta, perché il suo temperamento non è molto cambiato da quel giorno. La tentazione è dunque quella di reagire come sempre, di lamentarsi come sempre. Ma, c’è un «ma»: ciò che è accaduto tre giorni prima, Marta non l’ha dimenticato. Non ha dimenticato lo sguardo di Gesù. E perché non l’ha dimenticato? Perché è stato un avvenimento. Ha dimenticato forse le parole che Gesù le ha detto. Ma lo sguardo, no.

È stato un fatto, un avvenimento. Tre giorni prima, quelle parole poteva anche aspettarsele, perché dall’età di tre anni, da quando era emerso il suo carattere, non aveva fatto che sentire delle prediche sul suo carattere.
«Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose!». Non era la prima volta che sentiva questa lezione. I suoi genitori, i suoi nonni, suo fratello e sua sorella, i suoi domestici, il suo rabbino, tutti le avevano sempre detto questo.

Allora, quando si ritrova nella stessa situazione, si rende conto che non si tratta tanto di ricordarsi delle parole di Gesù, perché sa che parole simili è da 50 anni che se le ripete, e questo non ha cambiato la sua vita di un millimetro. Ciò che ha cambiato veramente il suo sguardo sulla sua vita tre giorni prima, è stato lo sguardo di Gesù. E perché è onesta col suo desiderio nascosto sotto la sua collera, comprende che è di questo che ha bisogno adesso, in questa nuova situazione, in ogni situazione. Allora, che cosa fa? Sono sicuro che il suo cuore, anche suo malgrado, si è messo a mendicare lo sguardo di Gesù, il rinnovarsi dell’avvenimento dello sguardo di Gesù su di lei. E poco importa se lo ha fatto prima di esplodere, o dopo aver mandato al diavolo, come al solito, tutti i suoi invitati. L’essenziale è che ha compreso che ciò che salva e cambia la sua vita reale è l’avvenimento di una Presenza che ti guarda, che guarda proprio te, e che se ciò è accaduto una volta, se ciò l’ha sorpresa una volta, ciò deve accadere di nuovo, deve sempre accadere.

Lo sguardo di Gesù rimaneva per lei un avvenimento sempre presente al quale tutta la sua vita, tutto il suo cuore, chiedeva di acconsentire. Aveva almeno compreso, e questa comprensione diventerà sempre più evidente, che tutta la sua vita reale mendicava che il suo cuore si lasciasse penetrare dallo sguardo di Gesù, di Gesù presente, perché solo una persona presente può guardarci.

Una sola cosa è necessaria

Notiamo che quando Gesù dice a Marta: «Una sola cosa è necessaria» (Lc 10,42), non dice niente di più. Non spiega ciò che è «la sola cosa necessaria» scegliendo la quale la vita trova la sua pace, smette di preoccuparsi e di agitarsi. Si interpreta in mille modi questa «sola cosa necessaria». Ma se ci mettiamo al posto di Marta, comprendiamo ciò che lei ha dovuto capire. Perché, se Gesù non ha spiegato a Marta ciò che era la sola necessaria, non è per tormentarla ancora di più, non è per farle un indovinello.

No. Marta ha capito ciò che Gesù intendeva, perché ha ascoltato questa parola di Gesù vedendosi guardata da Lui. Allora, ha afferrato subito che niente più di questo sguardo poteva essere necessario alla sua vita. La sola cosa necessaria, Gesù non l’ha spiegata, perché gliel’ha mostrata. La sola cosa necessaria per la vita non è fuggire la vita per raggiungere non so che, ma poter vivere sotto lo sguardo di Cristo, di Colui, come scrive san Paolo ai Colossesi, nel quale «sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra», nel quale «tutto sussiste» (Col 1,16-17).

Se ci rendessimo conto di ciò che vuol dire essere oggetto dell’attenzione personale di Colui nel quale tutto è creato e nel quale tutto sussiste, dunque di Colui che è la consistenza dell’universo, di tutto ciò che è, noi saremmo molto meno distratti e superficiali! Ma poco importa: la Sua attenzione è più grande della nostra distrazione, e il Suo amore più accanito delle nostre infedeltà.


Dio si è fatto uomo per rendere esperienza personale, relazione personale, scambio personale di sguardi, ciò di cui abbiamo veramente bisogno. L’essere umano ha sempre sentito in sé il desiderio e il bisogno di fissarsi sull’essenziale. Ma si sempre è rivelato incapace di definire fino in fondo la natura della sola cosa necessaria. Ogni volta che la filosofia definiva l’essenziale, il cuore dell’uomo doveva gridare che non era ancora questo, che ciò non spiegava ancora tutto, che ciò non dava ancora un senso a tutto.

Ogni volta che mi metto in viaggio, vorrei tanto che mi apparisse un angelo per dirmi qual è lo stretto necessario per fare la mia valigia.

Sarei pieno di gratitudine nei suoi confronti, perché il mio viaggio ne sarebbe alleggerito, sarebbe più dinamico, e io avrei posto per riportare dal mio viaggio più cose, più regali, ecc.


Ma è soprattutto per il viaggio della vita che questo sarebbe necessario.
Ebbene, per il viaggio della vita, non è un angelo che viene a dirci qual è lo stretto necessario, ma Dio in persona.

È come quando Gesù dice: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?» (Mt 16,26). In altre parole: a cosa mi serve possedere il mondo intero, se non possiedo l’essenziale che dà alla mia vita il suo senso? Se non ho la sola cosa necessaria, tutto è inutile. Se non ho l’essenziale, tutto è secondario.

Ecco, la sola cosa necessaria per la vita ci è data come lo sguardo di Gesù a Marta, o meglio: nello sguardo di Gesù a Marta. Il Mistero, origine e fine, consistenza di tutto ciò che esiste, ci è dato in Qualcuno che è presente e ci guarda con un’attenzione al nostro cuore senza pari, e che ci dice che è proprio quella la sola cosa necessaria al viaggio della vita. Ce lo dice mostrandocelo, non facendo un discorso, ma guardandoci e facendoci fare l’esperienza che è proprio questo sguardo ciò di cui parla parlando dell’essenziale. E il nostro cuore è convinto da questo; il nostro cuore non può più negare questo, anche se può rinnegarlo e tradirlo mille volte al giorno.

Mendicare lo sguardo di Cristo

Allora, da questa esperienza nasce un metodo di vita, una disciplina di vita, nel senso letterale di disciplina: imparo qualcosa da questa esperienza e voglio vivere imparando sempre più ciò che questa esperienza mi ha insegnato.

Ciò che Marta ha imparato da questa esperienza, e che ha applicato poi come disciplina della sua vita, era che ogni volta che sorge dalla vita il suo bisogno di senso, di pace, di unità, di bellezza, di verità, il suo bisogno di essere perdonata e di perdonare, dunque sempre, la reazione più giusta è quella di mendicare l’incontro con lo sguardo di Gesù, di mendicare la Sua presenza che mi guarda, sapendo che la sua presenza che mi guarda è un dono gratuito, e che mendicarla vuol dire tendere gli occhi per riconoscerla già presente, già seduta nella mia casa, già pronta a cercarmi col Suo sguardo d’amore.

C’è una magnifica espressione di questa domanda, formulata dal padre di un ragazzo posseduto da un demonio, che supplica Gesù dicendo: «Maestro, ti prego di volgere lo sguardo a mio figlio, perché è l’unico che ho!» (Lc 9,38).

Quest’uomo ha capito che ciò che poteva chiedere di più giusto ed esauriente per suo figlio era che il Mistero presente lo guardasse, che il Mistero di Dio presente nel mondo si facesse presenza personale per suo figlio. Se ciò avviene, allora tutto vi è compreso. Se l’unica cosa necessaria avviene per suo figlio, allora tutto il resto è compreso: la guarigione, la conversione, una vita serena, un buon mestiere, una buona famiglia, ecc., o il contrario di tutto questo, ma nella pace di vivere tutto nell’amicizia del Signore.

La fede consiste proprio nel riconoscere che la presenza personale di Cristo nella nostra vita è la sola cosa necessaria, l’essenziale, ciò che dobbiamo avere di più caro. È questa fede che trasforma la vita, che la rinnova, perché permette a Cristo di affermarsi come l’origine, lo scopo, il centro della nostra vita.

Quale grande amore ha espresso Gesù verso Marta, nel dirle e mostrarle ciò che è l’unica cosa necessaria! E nel dirgliela e mostrargliela dandogliela, dandogliene l’esperienza nel suo sguardo su di lei. Era come se le dicesse: «Marta, stai perdendo la tua vita, la stai sprecando. Non vivi in pienezza come posso e voglio darti di vivere. Non mi accontento che tu sia la mia domestica: ti ho scelto come amica, come sposa. Non voglio solamente il tuo pasto: voglio il tuo cuore, tutta la tua vita. Perché sono io che faccio la tua vita, che ti creo in ogni istante. Io ti sono assolutamente necessario, perché senza di me non esisti. Senza di me, non potresti nemmeno irritarti con tua sorella. La tua vita non può essere vera, non può essere ciò che è, se non mi guardi come l’unico necessario, se tutto, nella tua vita, non è legato a me. Sono geloso di te: tu mi appartieni!».

Una sola cosa è necessaria. Ma normalmente, quando crediamo di prendere sul serio questo richiamo di Gesù, cominciamo a chiederci: Che cosa devo tagliare della mia vita per vivere dell’unico necessario?

Questo pensiero è un po’ l’ultima tentazione a concepire Cristo come qualcosa di importante, ma a lato della vita.

È come se Gesù ci dicesse «Io sono l’unica cosa necessaria» dal Cielo, e non al cuore della nostra vita, guardandoci negli occhi. Insomma, noi riduciamo il valore assoluto del Signore a qualcosa di astratto, al di fuori della vita, tanto che concepiamo la nostra religiosità come una dimensione per vivere la quale dobbiamo uscire dalla vita reale, uscire dal reale, astrarci dalla realtà quotidiana. Ciò è segno che non ci lasciamo guardare veramente da Cristo, dal Mistero del Dio-con-noi, del Dio presente in mezzo a noi.


No; non si tratta affatto di tagliare qualcosa della nostra vita per riconoscere che Gesù è l’unico necessario, ma di aderire a Lui come al centro ontologico ed affettivo della nostra esistenza reale. Si tratta di fissare il suo sguardo su Lui, e di preferire la relazione con Lui in tutto, fino al fondo del mio cuore, attraverso tutto e non accanto a tutto.


Tua sorella ha scelto la parte migliore


Solo se ci si lascia raggiungere da questa chiamata di Cristo a trovare in Lui l’unica cosa necessaria della nostra esistenza, anche i rapporti tra di noi possono cambiare.

Marta era partita in guerra contro sua sorella e aveva cercato in Gesù un alleato per abbatterla, per vincerla; e Gesù la disarma totalmente. Ma non dicendole: «Ascolta, sei troppo severa, tua sorella non è poi così inetta, cerca di comprenderla, è stanca, il suo passato disordinato la rende psichicamente debole. Sii buona con lei, fa’ uno sforzo per sopportarla!». No, la prima cosa che Gesù dice a Marta è: «Sono Io che ti sono necessario; sono io la cosa più importante della tua vita!». Ma poi aggiunge: «Sono Io che sono necessario a tua sorella; sono Io la cosa più importante per tua sorella!».

Di colpo, tra Marta e Maria, non ci sono più soltanto le pentole, gli invitati, la tavola da preparare, i caratteri differenti, i giudizi reciproci, le tare psicologiche e soprattutto il progetto che avevano l’una sull’altra. Di colpo, tra esse c’è la totalità, c’è l’unico necessario, c’è la parte migliore, c’è Gesù che è tutto per ciascuna, e che non lo è in teoria, perché guarda ciascuna in un modo unico.

E ciò non vuol dire che Marta ritorna alle sue pentole solo essendo diventata più indulgente verso sua sorella. Il cambiamento è più profondo. Di colpo sua sorella è diventata per lei testimone dell’unico necessario; sua sorella è diventata colei che le dà accesso all’unico necessario.

Marta si era abituata a un rapporto con sua sorella totalmente determinato da loro due. E dal momento che era lei, Marta, che aveva il carattere dominante, e che era probabilmente la maggiore, si era abituata a vivere il rapporto con lei e a giudicarla secondo i propri progetti, secondo il proprio punto di vista.

In questo episodio, Gesù la obbliga a fare un salto di coscienza e di relazione. In fondo, la domanda è questa: «Che cosa c’è tra me e mia sorella, tra me e i miei fratelli, tra me e mia moglie o mio marito, tra me e i miei figli, tra me e i miei amici e colleghi? C’è solo il mio progetto, la mia reazione di fronte agli altri, i nostri rispettivi difetti, o altro?»


Qui Gesù annuncia a Marta che tra lei e sua sorella, è Lui che è presente.


Ma Lui come, in quale senso?

Lui in quanto unica cosa necessaria alla nostra vita.


È importante questo! Se dico che tra me e l’altro c’è Cristo, va bene, ma può voler dire tutto e niente. Ma se dico che c’è Cristo come unica realtà necessaria, questo cambia tutto. Infatti, ciò vuol dire che tra me e l’altro c’è il fine ultimo del mio desiderio, c’è la pienezza della mia vita, c’è ciò che salva la mia vita, c’è la risposta alla provocazione magnifica e terribile di Gesù quando dice: « Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26).

Se il mondo intero non salva la mia vita, la grande questione è trovare la sola cosa necessaria alla mia salvezza, la sola cosa che vale la mia vita, la mia vita che vale più del mondo intero. Cristo è venuto a darci questo, dandoci ciò che vale più del mondo intero, ciò per cui la mia vita ha un senso, un valore. E questa cosa è Lui stesso, può essere solamente Lui stesso: Colui che fa il mondo intero e la mia vita e che si dà a me, gratuitamente.


Ora, tutto ciò, Gesù lo pone misteriosamente tra me e l’altro, nella relazione tra me e l’altro, tra me e mio fratello, mia sorella. L’altro mi diventa necessario, non più per aiutarmi a cucinare e servire il pranzo, non più per realizzare il mio progetto, ma per aderire all’unico necessario, per aderire a Colui che salva la mia vita. L’altro mi diventa necessario per trovare ciò che vale più del mondo intero per la mia vita. L’altro mi diventa amico perché Cristo lo rende strumento, incarnazione, di ciò che Lui stesso è per me.


È questo il mistero della comunione cristiana, dell’unità dei cristiani, della vita della comunità cristiana; è questo il mistero della Chiesa. L’unità con l’altro mi è necessaria perché Cristo è per me l’unica cosa necessaria. È quanto Gesù fa capire nel capitolo 15 di san Giovanni, dove afferma al tempo stesso: «Senza di me non potete far nulla» (15,5) – ossia: «Io sono per voi l’unico necessario» – e «Amatevi gli uni gli altri» (15,12).


Guardiamo le nostre comunità, i nostri gruppi di Fraternità. Bisogna confessarlo: non sono un granché! Francamente, Dio potrebbe assortire meglio le comunità della sua Chiesa…

In ogni comunità cristiana, c’è sempre qualcuno che, secondo il nostro punto di vista, sarebbe meglio che fosse altrove. Quando incontro dei membri di gruppi di Fraternità, il ritornello che sento è quasi sempre: «Sto pensando se non farei meglio ad andare in tale altro gruppo che è molto migliore del mio...».


Perché Dio fa così male le cose? Perché compone così male le sue comunità? Proprio perché una comunità non deve servire a nient’altro che a ricordarci che una sola cosa è necessaria: Cristo presente in mezzo a noi da riconoscere, al quale mendicare il suo sguardo, la sua bellezza.

Se le nostre comunità fossero meglio composte, meglio assemblate, si potrebbe credere che devono servire ad altro, o almeno anche ad altro.
Nemmeno per sogno! Gesù ha voluto e fondato la sua Chiesa solo per porre nel mondo un luogo di persone che annunciano, tra loro e al mondo intero, che Gesù solo è necessario, e che non serve a nulla guadagnare il mondo intero se si dimentica Cristo, se non si sente più il bisogno di Cristo.

Perciò la ragione che, col tempo, deve imporsi per rimanere fedeli alla propria comunità, è il desiderio dell’unico necessario che salva la nostra vita, che libera la nostra vita, che ci libera anche e soprattutto da noi stessi, dai nostri progetti, dai nostri sguardi meschini, dalla nostra istintività, dal nostro lamento continuo, dalla nostra presunzione di essere noi a salvare il mondo.

Ma se è per questo che si rimane fedeli alla propria comunità, ai propri amici – come del resto anche al proprio marito o alla propria moglie – non si vive più l’appartenenza alla comunità, alla Chiesa, come una prigione, come un peso da trascinare. Infatti, se è lì che Cristo mi dice e mi mostra, come a Marta, che è Lui la sola cosa di cui ho veramente bisogno, allora il legame con mio fratello, mia sorella, la mia comunità è il luogo privilegiato della mia liberazione, della dilatazione del mio cuore, della mia felicità, anche se devo sacrificare alcuni dei miei punti di vista, dei miei giudizi, dei miei progetti.

La preghiera

Ma se la comunità è questo, allora essa diventa anche il luogo che mi insegna a pregare, a cercare l’incontro personale con Cristo, ad affermare col mio cuore che sì, è Lui il mio unico necessario.

E se è Lui la sola cosa necessaria che libera la mia vita da tutti i suoi falsi legami, allora non c’è niente di più vero che mendicare la sua presenza,

il suo sguardo su di me. Senza di Lui, sono totalmente solo, nel senso che la mia vita non ha più senso, anche se possiedo il mondo intero. Ma la mia solitudine è vinta quando il suo sguardo mi penetra il cuore, come il cuore di Marta, nel bel mezzo della realtà della mia vita. Non devo lasciare la realtà della mia vita, ma comprendo che non posso più viverla con verità e libertà se Lui non la vive con me.
Vivo con un cuore che mendica la sua Presenza. E allora constato che il mio rapporto con Lui libera il mondo ad ogni passo che faccio, ad ogni gesto che compio, ad ogni parola che dico.

Un cistercense del dodicesimo secolo, Baldovino di Ford, in un’omelia sul Cantico dei Cantici, esprime tutto questo in una bella preghiera: «Signore, togli da me questo cuore di pietra, questo cuore irrigidito, questo cuore incirconciso, e dammi un cuore nuovo, un cuore di carne, un cuore puro. Tu che purifichi il cuore e che ami il cuore puro, possiedi il mio cuore e abita in esso; contienilo e riempilo, tu che superi tutto ciò che sono e che mi sei più interiore e intimo di me a me stesso.

Tu, il modello della bellezza e il sigillo della santità, sigilla il mio cuore nella tua immagine, sigilla il mio cuore sotto la tua misericordia, Dio del mio cuore, Dio, mia parte per sempre!» (Hom. 6, su Ct 8,6).


«Contieni il mio cuore e riempilo, tu che superi tutto ciò che sono e che mi sei più interiore e intimo di me a me stesso»: è questo in fondo tutto lo straordinario dell’esperienza cristiana, della mistica cristiana: portare nel nostro cuore Colui che crea l’universo, portare nel nostro cuore Colui che fa il nostro cuore.

È pregando così che noi diventiamo ciò che siamo nello sguardo di Dio, come la Vergine Maria.


(traduzione di Antonio Tombolini,

Nessun commento: