lunedì 10 dicembre 2007

GUARDA ALL'INSU'


Un allenatore di serie A ha portato in palestra un gruppo di ragazzi autistici, psicotici e down. Per diventare una squadra, superando i propri limiti. Per giocare a basket e vincere
"La prima volta che ho portato mio figlio in palestra" racconta la mamma di Junior, "volevo scappare via, ho pensato che non sarei mai tornata. Non avevo mai visto nessuno rivolgersi così a degli handicappati, urlare, sgridarli. Ho detto a mio figlio che non l'avrei riportato e lui mi ha risposto che non avevo capito nulla, perché Marco non sgridava, dava solo delle regole, e urlava per farle rispettare, come si fa con i giocatori professionisti". "Tratto i miei ragazzi ora come trattavo i miei giocatori di serie A", ammette. "Pretendo che rispettino le regole e i compagni, che mi ascoltino quando parlo. Non tollero che protestino quando siamo in partita, con qualcuno di loro ho avuto scontri piuttosto forti, c'è chi ha minacciato di andarsene ma poi è tornato".
Guarda all'insù
L.Tencati - 8 Aprile 2007
di Daniela Fabbri
La prima volta che l'ho visto in palestra, Ale camminava avanti e indietro in mezzo a gente sconosciuta, aggrappandosi alla ripetitività del gesto come a un'ancora di salvezza. Alto, magro, sguardo dolce ma assente, Ale è un adolescente autistico che vive in una dimensione in cui l'esterno è una minaccia e l'altro un intruso portatore di un'invadenza dolorosa. Non parla molto, ripete all'infinito piccoli gesti che gli danno sicurezza: dondolare da una gamba all'altra, muovere le mani, oscillare la testa. La consuetudine è il suo nido caldo, ogni novità è un attentato al suo precario equilibrio. Era così anche quel pomeriggio, in palestra. Almeno fino a quando non ha scoperto la palla, e il canestro. Ha cominciato a bersagliare il tabellone con una precisione quasi infallibile. Senza guardare l'allenatore, rifiutando qualsiasi contatto fisico, Ale ha continuato a tirare: faceva un canestro, riprendeva il pallone e ricominciava. Alla fine, dopo un'ora e mezzo a ripetere lo stesso gesto, ha persino abbozzato un sorriso. L'ho rivisto 15 giorni e due allenamenti dopo, e il suo mondo si era già un po' dischiuso: aveva accettato di sedersi con gli altri, aveva imparato a palleggiare ma soprattutto a "passare" la palla ai compagni, accettando in questo modo di comunicare con loro. La palla, oggetto legato alla dimensione del gioco, per Ale e gli altri era diventata un mezzo di comunicazione, uno strumento per favorire uno scambio di emozioni che era stato interrotto dalla malattia.

Il passato: un cestino come canestro

A portare in palestra Ale e i suoi compagni (non solo autistici, tutti con gravi handicap psichici) e a scoprire il valore terapeutico di uno sport difficile ma appassionante come il basket sono stati il lavoro caparbio e la passione di un allenatore professionista, quasi 30 anni di esperienza e più di 300 partite dirette in serie A, più una laurea in filosofia in tasca. Un piccolo, grande miracolo frutto del caso: nell'estate di 11 anni fa Marco Calamai era un allenatore di basket di successo, appena rimasto senza lavoro. Livorno, la sua squadra, era rimasta fuori dal campionato di serie A per questioni burocratiche e lui, da disoccupato, aveva incrociato per la prima volta una comunità, La Lucciola di Ravarino, vicino Modena, che ospitava ragazzi con gravi problemi psichici. Marco li aveva osservati e lì era nata la sua intuizione: "Li avevo visti nuotare o andare a cavallo", spiega. "Attività individuali, dove non c'è interazione con l'altro. Con la palla è tutto diverso: se la passi al tuo compagno e lui non la piglia finisce il gioco. La palla è la metafora dell'integrazione". Con la forza "competente dell'incompetenza", come la definisce lui, Calamai spiega la sua intuizione a Emma Lamacchia, la neuropsichiatra della comunità: il basket, sport fatto di passaggi, di scambio, di grande collaborazione, di forza ma anche di delicatezza, potrebbe essere lo strumento adatto a tentare di forzare l'involucro che chiude questi ragazzi nella malattia mentale. Lui non sa niente di patologie psichiche, ancora non distingue i sintomi di un autistico da quelli di uno psicotico. Lei ha come unico legame con lo sport un paio di scarpe da tennis che stanno nel suo guardaroba. Ma i due si capiscono e decidono di dare il via all'esperimento. La prima palestra è una ex stalla, il canestro è un cestino per la carta, gli esercizi sono soprattutto giochi in cui la palla viene toccata, manipolata, passata sul corpo. Un oggetto che rappresenta il mondo esterno con cui i ragazzi accettano di entrare in contatto. Dopo questo primo periodo di sperimentazione un po' artigianale il metodo Calamai cresce e ha successo. Marco studia esercizi sempre più difficili, adatta la sua esperienza con i professionisti ai ragazzi che i genitori o la Asl gli mandano in palestra, e i successi sono incredibili. "Mi sono capitati ragazzi che prima di allora non avevano mai parlato" racconta. "E che all'improvviso, uscendo dalla palestra, mi hanno salutato con un ciao". Bologna, la città dove lui, fiorentino di nascita, è cresciuto cestisticamente e dove il basket è una religione, è l'ambiente migliore per far crescere il progetto e i primi dieci ragazzi diventano in poco tempo una sessantina. Anche perché Calamai trova il sostegno economico di Emilbanca ma soprattutto l'appoggio della Fortitudo (per intenderci: la Juventus del basket), che gli mette a disposizione la sua storica palestra. L'esperienza cresce fino ad osare quello che si pensava inosabile: iscrivere una squadra al campionato degli oratori bolognesi, un campionato vero, mandando in campo in ogni partita due persone "diversamente abili" e tre volontari "normodotati". Risultato: la Fortitudo Emilbanca Overlimits chiude al secondo posto il suo campionato, conquistando anche le finali nazionali del torneo. Autistici, down, epilettici, schizofrenici, spastici e psicotici giocano alla pari con ragazzi normali in una disciplina complicata e piena di regole come il basket. E vincono.



Il presente: il gruppo diventa squadra


Non è stato un passo facile. Calamai non nasconde di aver avuto paura. Paura della reazione delle altre squadre davanti ai suoi ragazzi, paura che sconfitte troppo pesanti potessero compromettere il delicato lavoro di anni. Anche i genitori si sono interrogati a lungo prima di acconsentire: si trattava di andare in trasferta, in posti e palestre sconosciuti, di sperimentare la tensione della partita, la frustrazione della sconfitta. Ma alla fine l'entusiasmo dell'allenatore e la voglia di misurarsi dei ragazzi sono stati più forti di tutte le paure. Un piccolo miracolo, anche se Marco tiene a dire che i miracoli non li fa e non li promette. Fa solo l'allenatore, e per di più senza neppure un pizzico di buonismo di facciata. "La prima volta che ho portato mio figlio in palestra" racconta la mamma di Junior, "volevo scappare via, ho pensato che non sarei mai tornata. Non avevo mai visto nessuno rivolgersi così a degli handicappati, urlare, sgridarli. Ho detto a mio figlio che non l'avrei riportato e lui mi ha risposto che non avevo capito nulla, perché Marco non sgridava, dava solo delle regole, e urlava per farle rispettare, come si fa con i giocatori professionisti". "Tratto i miei ragazzi ora come trattavo i miei giocatori di serie A", ammette. "Pretendo che rispettino le regole e i compagni, che mi ascoltino quando parlo. Non tollero che protestino quando siamo in partita, con qualcuno di loro ho avuto scontri piuttosto forti, c'è chi ha minacciato di andarsene ma poi è tornato". Perché per questi ragazzi, abituati a respirare compassione o tolleranza pietistica, anche l'essere "sgridati" come persone normali ha un valore. Certo, non tutti i ragazzi che si allenano nella storica palestra della Fortitudo a Bologna sono in grado di scendere in campo con la squadra vera: "Ci ho messo cinque anni a far toccare la palla a una bimba autistica. Ci sono ragazzi che vengono in palestra e per mesi, o per anni, se ne stanno in disparte, osservano, apparentemente non si lasciano coinvolgere. Ma tornano sempre, e ti rendi conto che sentono di appartenere a una squadra, finché all'improvviso si inseriscono nel gioco". Quello che sembra funzionare a meraviglia è l'interazione fra i ragazzi, con le loro diverse patologie, quasi come se le capacità dell'uno potessero compensare i limiti dell'altro. "Molti testi sconsigliano di far lavorare insieme casi diversi come questi", spiega Calamai. "Ma la realtà mi ha insegnato che è vero il contrario. Nessuno di noi sa insegnare a passare la palla a un autistico come sa fare uno psicotico: lo fa con una tale delicatezza che ti chiedi dove trovi questa sensibilità. Io penso la trovi nel dolore, accresciuto dalla diffidenza con cui gli altri, quelli normali, in genere lo guardano". E la palla del basket, tonda, un po' rugosa, è già un mondo di sensazioni per chi rifiuta ogni contatto con l'esterno. "La pallacanestro è uno sport particolare: è l'unico che ti costringe, per tirare, a guardare in alto, verso il cielo. E per un ragazzo che tende a guardare in basso per proteggersi, che anche nella postura cerca di rimpicciolire il contatto verso l'esterno, questo è importante. È come il pugno del pugile che finisce però in una carezza, perché è duro nei suoi contatti, nella difesa, nei blocchi, ma deve essere dolce quando tiri a canestro. Non ti chiede potenza, o forza, ma morbidezza". Per questo lascia spazi da protagonista anche a Fatima, la piccola down che in partita riesce sempre a farsi trovare proprio lì, sotto canestro, per infilare il suo pallone nella retina. Ognuno ottiene il suo piccolo risultato, se ne va dalla palestra con una piccola soddisfazione, ma soprattutto sente di far parte del gruppo.



Il futuro: un campionato per tutti


Oltre il gioco e il valore terapeutico dell'attività fisica, quello che sembra funzioni davvero è l'integrazione con i "normali". Prima e dopo l'orario di allenamento della squadra di Calamai nella palestra di via San Felice lavorano i ragazzi delle giovanili della Fortitudo: sono molti quelli che si fermano a giocare con gli Overlimits, come i giocatori di serie B o C che si mettono a disposizione per completare i quintetti nelle partite. A giocare con questi ragazzi sono arrivati campioni di oggi e di ieri, professionisti che hanno sostituito il loro allenamento con amichevoli contro questi ragazzi e hanno parlato loro con il linguaggio che avevano in comune: il basket, il passaggio, la palla. Dopo l'esperimento di Bologna il "metodo Calamai" sta allargando i suoi confini: molti studenti ne hanno fatto una tesi di laurea, ci sono collaborazioni con varie università, e molti sono i disabili che possono sperimentare questa esperienza: ci sono centri che seguono il metodo a Roma, a Milano (con la collaborazione dell'Armani Jeans), a Rimini, Cattolica, San Giovanni in Marignano. L'ultimo centro nato è a Pavia, dove Calamai ha passato molti anni da allenatore e dove ha coinvolto nel progetto due ex giocatori, Dante Anconetani e Chicco Falerni, e ha ritrovato lo sponsor che lo aveva seguito in serie A, la pellicceria Annabella. A Pavia, in nemmeno 15 giorni, lo "Special Team Annabella '87" ha riunito in palestra più di 20 ragazzi, con genitori entusiasti per l'impatto positivo del basket sulla vita dei figli. È a Pavia che è cominciata l'avventura con la palla di Ale, è a Dante Anconetani che Ale ha scritto, con il computer, una bella lettera in cui spiega cos'è diventato per lui il basket. Forse fra qualche anno Ale e Nicolò, Filippo e Stefano, Matteo e Eleonora sfideranno Fatima e Christian, Junior e Giancarlo, i fratelli maggiori bolognesi con più esperienza cestistica, come loro si iscriveranno a un campionato. O forse no. Ma grazie a una palla e a un canestro avranno imparato a comunicare meglio e abbattuto in parte quel muro che li separa dal mondo e dalla normalità. Non serve molto per arrivare a questo risultato: una palestra, un pallone, un allenatore. Poche risorse, risultati impagabili.

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