sabato 26 maggio 2007

FIGLIA DEL SILENZIO


Figlia del silenzio

“Suo padre aveva assistito alla nascita dei suoi figli gemelli, aveva seguito la procedura che conosceva a memoria, attento alle pulsazioni, al battito cardiaco della donna distesa sul lettino, alla dilatazione, fino alla comparsa della testa del bambino. Poi il respiro, la tonicità, le dita delle mani e dei piedi. Un maschio. All’apparenza perfetto, e un canto aveva cominciato a farsi strada nella mente di suo padre. Un momento dopo, l’altro bambino. E il canto si era interrotto.”

Questo primo romanzo di Kim Edwards, che ha ottenuto uno straordinario successo negli Stati Uniti, è ora presente anche nelle librerie italiane: non fatevelo sfuggire!
Il consiglio nasce dall’emozione e dalla commozione che fin dalle prime pagine Figlia del silenzio suscita nel lettore per la capacità di rappresentare i contraddittori moti del cuore dei vari protagonisti e per la sensibilità nell’affrontare alcuni temi complessi e cruciali nel mondo odierno come l’handicap, il rapporto genitori-figli, l’angoscia che può distruggere un nucleo familiare.

In breve la storia. In una notte d’inverno, quando una tormenta di neve rende impossibile raggiungere un ospedale, il dottor David Henry è costretto a far partorire la giovane moglie Norah in condizioni di fortuna, assistito solo dalla fidata infermiera Caroline. Quando nasce un bambino, bello e robusto, tutto sembra risplendere anche se fuori la neve cade sempre più fitta, ma ecco la terribile sorpresa: il parto è gemellare e nasce un secondo bambino, anzi una bambina. La verità si fa subito chiara agli occhi del padre medico: la piccola è affetta dalla sindrome di Down. Impossibile per David dire la verità alla moglie, la ama troppo per farla soffrire e così, guidato da un cieco impulso, decide di consegnare la bambina all’infermiera perché la chiuda in un istituto, facendo credere alla moglie che la piccola sia morta subito dopo la nascita.
Quell'inganno graverà su di lui per sempre, così come quel “lutto” non verrà mai rielaborato dalla moglie, incapace di perdonare al marito di non averle neppure fatto vedere il corpicino della figlia morta.
Tutta la vita di quella famiglia che avrebbe potuto essere felice, compresa l’infanzia e la giovinezza del figlio Paul, sarà condizionata dal peso di un silenzio, di una colpa, di una perdita.

Ma per la bambina (si chiamerà Phoebe, così come la madre avrebbe voluto) invece il destino non sarà l’esclusione sociale prigioniera dell’istituto a cui il padre l'aveva destinata, ma l’amore forte e combattivo di Caroline che decide di tenere con sé la piccola e di crescerla lottando perché le siano riconosciuti i diritti elementari di un essere umano, affrontando, come una vera madre, sacrifici economici e battaglie civili per sconfiggere i troppi pregiudizi che circondano chi nasce con minori chances.

Tante le vicissitudini dell’una e dell’altra vicenda familiare che ci vengono presentate in parallelo e con gli inevitabili intrecci.
Una storia che mostra quanto la vita segua strade imprevedibili, quanto l’amore materno sia una conquista e non solo un fatto genetico, quanto questa società (anche se la duplice nascita è datata 1964) sia crudele e ingiusta e quanto possa condizionare anche le scelte di genitori meno consapevoli.
Un’altra delle doti di questa scrittrice è l’aver saputo presentare una storia emotivamente molto coinvolgente senza mai cadere nella retorica e senza utilizzare espedienti narrativi che esasperino la drammaticità della vicenda.
E ancora. Kim Edwards sembra invitare a non giudicare mai i comportamenti altrui: è troppo difficile conoscere le motivazioni profonde che spingono un uomo o una donna a compiere azioni che, chi non è coinvolto in prima persona, spesso condanna con severità. Insomma una di quelle letture che restano, che segnano e che finiscono con l'appartenere al bagaglio di esperienze umane oltre che culturali, di ogni lettore.

Figlia del silenzio di Kim Edwards
Titolo originale: The Memory Keeper’s Daughter
Traduzione di Luciana Crepax
414 pag, € 18.60 - Edizioni Garzanti
ISBN 978-88-11-68600-2

Alcune pagine cruciali

Lui sedette sullo sgabello di fronte al lettino e allungò una mano nella calda, morbida cavità del corpo di sua moglie. Attraverso il sacco amniotico ancora intatto, sentì la testa del bambino liscia e dura come una palla da baseball. Suo figlio. Il padre, pensò, avrebbe dovuto passeggiare su e giù nella sala d'aspetto. Nella stanza c'era una sola finestra, le tende erano chiuse e, mentre ritirava la mano da quel calore, si scoprì a chiedersi se stesse ancora nevicando.
«Phoebe», disse sua moglie. Non le vedeva il viso, ma la voce era ferma. Per mesi avevano discusso sulla scelta dei nomi e non avevano preso nessuna decisione. «Se è una bambina, Phoebe. Se è un maschio Paul, come il mio prozio. Non te l'avevo detto?» chiese lei. «Volevo dirtelo. Ho deciso.»
«Due bei nomi», osservò l'infermiera, tranquilla e gentile.
«Phoebe e Paul», ripetè il dottore, ma era concentrato sulla dilatazione. Fece un cenno all'infermiera che preparò l'anestetico. All'epoca del suo internato, le donne venivano addormentate durante tutto il travaglio, ma i tempi erano cambiati, si era ormai nel 1964, e lui sapeva che Bentley seguiva un criterio scrupolosamente selettivo nell'uso dell'anestetico. Era meglio tenere sveglia la madre per favorire le spinte e poi addormentarla al momento delle contrazioni più dolorose e della nascita. Sua moglie inarcò il corpo e gridò, il bambino si spostò nel canale del parto e il sacco amniotico si ruppe.
«Ora», disse il medico, e l'infermiera applicò la mascherina sul viso di sua moglie. Lui la sentì a poco a poco allentare le braccia, aprire le mani che aveva tenuto strette, mentre il suo corpo veniva percorso dalle contrazioni.
«Si sta svolgendo tutto rapidamente, anche se si tratta di un primo figlio», osservò l'infermiera.
«Sì, finora mi pare che vada tutto bene.»
Passarono così una mezz'ora. Ogni tanto sua moglie si svegliava, si lamentava e spingeva: quando lui aveva l'impressione che non ce la facesse più, bastava un cenno all'infermiera che le dava dell'altro anestetico. Fuori la neve continuava a cadere, si accumulava lungo i muri delle case, riempiva le strade. Il medico era seduto su una sedia di acciaio, concentrato solo sull'essenzialità di quanto stava avvenendo. Aveva fatto nascere cinque bambini durante gli anni di praticantato, tutto era andato bene e ora continuava a pensarci e a cercare di ricordare quali particolari si fossero rivelati utili durante l'assistenza. Intanto sua moglie, distesa con le gambe nelle staffe e la pancia così grande da nascondere il viso, diventava a poco a poco come una partoriente qualsiasi. Non gli venne in mente di farle una carezza rassicurante. Era l'infermiera a tenerle la mano durante le spinte. Per il medico, attento a come procedeva il parto, lei doveva essere una paziente come tutte le altre: era necessario, più del solito, mantenere l'emotività sotto controllo. Mentre il tempo passava, riprovò la strana impressione che aveva avuto a casa, in camera da letto. Cominciò a sentirsi estraniato dal luogo dove stava awenendo la nascita, come se osservasse tutto da lontano. Si vide praticare impeccabilmente l'incisione per la episiotomia. "Un lavoro ben fatto", pensò, mentre il sangue sgorgava su un telo di lino pulito, senza permettersi di ricordare quante volte aveva appassionatamente toccato quella parte del corpo di sua moglie.
Si intravide la testa del bambino che, dopo altre tre spinte, emerse del tutto. Il corpo scivolò fuori nelle mani che lo attendevano e il neonato gridò forte, mentre la sua pelle livida diventava rosea.
Era un maschio, la faccia arrossata, i capelli neri, gli occhi vigili, insospettiti dalle luci e dallo schiaffo fresco dell'aria. Il medico legò il cordone ombelicale e lo tagliò. "Mio figlio." Si concesse questo pensiero. "Mio figlio."
«È bello», disse l'infermiera. Aspettò che lui esaminasse il neonato, il battito del cuore, rapido e regolare, le mani dalle dita lunghe, i capelli folti, poi lo portò nell'altra stanza per lavarlo e mettergli le gocce di nitrato d'argento negli occhi. Le grida risuonarono nell'aria e sua moglie si mosse. Il medico restò fermo, le tenne una mano su un ginocchio in attesa del secondamento. "Mio figlio", pensò di nuovo.
«Dov'è il bambino?» chiese sua moglie, mentre apriva gli occhi e si scostava i capelli dal viso sudato. «È andato tutto bene?»
«È un maschio», le rispose con un sorriso. «Abbiamo un figlio. Lo vedrai dopo il bagno. È perfetto.»
La faccia di sua moglie, rilassata dal sollievo e dalla stanchezza, all'improvviso s'irrigidì: c'era stata un'altra contrazione. Lui, pensando al secondamento, tornò a sedersi sullo sgabello tra le sue gambe sollevate e premette leggermente una mano sul suo addome. Lei emise un urlo e, in quello stesso momento, lui capì che cosa stava succedendo. Trasalì.
«Va bene», disse, «va tutto bene. Infermiera!» chiamò, mentre arrivava un'altra contrazione.
«Il bambino ha nove nella scala di Apgar», annunciò l'infermiera. «È un ottimo punteggio.»
«Infermiera», insistette il medico, «ho bisogno di lei, subito!»
La donna rimase per un attimo confusa, poi mise due cuscini sul pavimento, vi depose il neonato e si avvicinò al medico.
«Serve dell'altro anestetico.» Lei parve sorpresa, ma subito fece segno di aver capito e obbedì. Il medico tornò a stringere il ginocchio di sua moglie e sentì la tensione muscolare allentarsi sotto l'azione dell'anestetico.
«Gemelli?» chiese l'infermiera.
Il medico annuì. Era sconvolto. "Calma", disse a sé stesso, mentre appariva la seconda testolina, "sei in una sala parto qualsiasi." Abbassò lo sguardo sulle proprie mani che lavoravano con metodo e precisione. "È un parto come tanti altri."
Il secondo neonato era più piccolo e nacque facilmente. Scivolò fuori così in fretta che, quasi temendo che potesse cadere, il medico si sporse in avanti per fermarlo. «È una bambina», disse, e la tenne tra le braccia come un pallone da calcio, a faccia in giù, battendole la mano sulla schiena, finché non la sentì piangere. Poi la voltò per guardarla.
Una cremosa patina bianca avvolgeva la pelle delicata, il corpo viscido era coperto dal liquido amniotico con tracce di sangue. Indifferente all'azzurro degli occhi e al nero dei capelli, osservava quei tratti inconfondibili: il taglio degli occhi obliquo come di chi sta ridendo; la piccola ripiegatura semilunare, l'epicanto, all'angolo interno degli occhi; il naso schiacciato. Un esempio classico, aveva detto anni prima il suo professore, quando avevano esaminato un neonato uguale a quello che ora aveva tra le braccia. Mongoloide. Sapete che cosa significa? E il medico, scrupolosamente, aveva elencato i sintomi: ipotonia muscolare, limitate capacità di apprendimento, possibili complicazioni cardiache, morte precoce. Il professore aveva appoggiato lo stetoscopio sul petto nudo e liscio del bambino. Povero piccolo. Non si può far niente per lui, solo tenerlo pulito. Per risparmiarsi tanti dispiaceri non ci sarebbe altro che metterlo in un istituto.
Il medico si sentì trasportare indietro nel tempo. Sua sorella era nata con una imperfezione cardiaca ed era cresciuta faticosamente, con il respiro che andava e veniva. Per molti anni, fino a quando non erano andati per la prima volta a Morgantown, non avevano capito di che cosa si trattasse. Poi era stata fatta una diagnosi, ma era infausta. Sua madre le aveva dedicato tutta l'attenzione possibile, ma a dodici anni la bambina era morta. Lui, allora, abitava in città e frequentava la scuola superiore, già deciso a seguire gli studi di medicina, a Pittsburgh. Ma ricordava l'abisso di dolore di sua madre, le sue visite assidue alla tomba in cima alla collina.
L'infermiera, in piedi accanto a lui, guardò la bambina.
«Mi dispiace, dottore», disse.
Lui teneva la neonata in braccio, dimentico di quello che avrebbe dovuto fare. Le manine erano perfette. Ma lo spazio tra gli alluci e le altre dita sembrava un dente mancante e, quando le guardò gli occhi più attentamente, vide nelle iridi le macchie di Brushfield, piccole e staccate l'una dall'altra come puntolini di neve. Immaginò il suo cuore, delle dimensioni di una prugna e probabilmente imperfetto, pensò alla camera preparata a casa così accuratamente, con gli animali di pezza e una sola culla. Si ricordò che sua moglie si era fermata sul marciapiedi davanti alla loro casa luccicante di neve e aveva detto: Il nostro mondo non sarà più lo stesso.
La mano della bambina sfiorò la sua e lui si riscosse. Meccanicamente compì le azioni abituali. Tagliò il cordone ombelicale, controllò il cuore e i polmoni. Intanto pensava alla neve, all'automobile argentata slittata in un fosso, al silenzio profondo che lo circondava. Più tardi, nel rammentare quella notte, e l'avrebbe fatto spesso nei mesi e negli anni a venire, erano il silenzio della stanza e la neve che cadeva ininterrottamente a tornargli in mente.
«Bene, la lavi, per piacere», disse, e trasferì la neonata nelle braccia dell'infermiera. «La tenga nell'altra stanza. Non voglio che mia moglie lo sappia. Non subito.»
L'infermiera annuì e si allontanò. Poco dopo ricomparve e mise l'altro bambino nella culla di tela che avevano portato da casa. Il medico adesso era impegnato con le placente che, uscite senza difficoltà, erano scure e pesanti, ciascuna delle dimensioni di un piattino. Gemelli biovulari, un maschio e una femmina, uno visibilmente perfetto, l'altra segnata dalla presenza di un cromosoma in più in ogni cellula del suo corpo. Quale sarebbe stato il peso della differenza? Suo figlio, nella culla portatile, ogni tanto agitava le mani con movimenti rapidi, fluidi, come se fosse ancora nel grembo materno. Il medico iniettò altro sedativo a sua moglie, poi si chinò a ricucire l'episiotomia. Era quasi l'alba, dalla finestra entrava una debole luce. Guardò muoversi le proprie mani e pensò a com'erano belli quei punti di sutura, piccoli e regolari come quelli della copertina che lei aveva ricamato.
Finito il suo lavoro, il medico trovò l'infermiera seduta su una sedia a dondolo nella sala d'aspetto. Aveva la bambina tra le braccia e la cullava. Alzò gli occhi, senza parlare, e lui si ricordò della notte in cui lo aveva sorpreso a dormire.
«C'è un posto», le disse mentre scriveva sul retro di una busta un nome e un indirizzo. «Vorrei che la portasse lì. Quando farà giorno, naturalmente. Preparerò un certificato di nascita e telefonerò per avvertire del suo arrivo.»
«Ma sua moglie...», ribattè l'infermiera e lui avvertì la sorpresa e la disapprovazione nella sua voce.
Pensò a sua sorella, pallida e magra, a quando le mancava il respiro e a sua madre che voltava il viso verso la finestra per nascondere le lacrime.
«Non vede?» disse. «Questa povera bambina avrà quasi certamente una
malformazione cardiaca. Una malformazione mortale. Sto cercando di risparmiare alla mia famiglia questo terribile dolore.»
L'infermiera lo guardava: la sua espressione era sorpresa e impenetrabile. Il medico parlava con convinzione. Credeva alle proprie parole. Non gli venne nemmeno in mente che lei avrebbe potuto rifiutarsi di fare una cosa simile. Non immaginava, come gli sarebbe successo più tardi quella notte e tante altre notti in futuro, in che modo stava mettendo tutto in pericolo. Invece, la lentezza dell'infermiera nel rispondergli lo rese impaziente e a un tratto si sentì molto stanco; lo studio che conosceva così bene gli parve un luogo estraneo. L'infermiera lo fissava con occhi muti. Lui la guardò a sua volta, con fermezza, e alla fine lei fece un cenno di assenso con la testa, così lieve da essere quasi impercettibile. «La neve», mormorò l'infermiera, abbassando gli occhi.

Ma a metà mattina la tempesta era quasi passata e in lontananza il rumore degli spazzaneve strideva nell'aria calma. Dalla finestra del piano di sopra lui guardò l'infermiera liberare l'automobile blu dalla neve e allontanarsi in quella distesa bianca. Sul sedile posteriore, la bambina dormiva, nascosta in uno scatolone foderato di coperte. Vide l'automobile svoltare a sinistra e sparire. Allora tornò indietro e si mise a sedere.
Sua moglie dormiva, i capelli biondi sparsi sul cuscino. Ogni tanto anche lui si addormentava. Poi si svegliava, fissava il parcheggio vuoto, il fumo che usciva dai camini di là dalla strada e pensava alle parole che avrebbe detto. Avrebbe affermato che non era colpa di nessuno, che la loro figlia era in buone mani, insieme ad altri bambini come lei, assistita incessantemente. E che quella era la soluzione migliore per tutti.
Nella tarda mattinata, quando non nevicava più, il piccolo si mise a piangere perché aveva fame e sua moglie si svegliò.
«Dov'è il bambino?» chiese, sollevandosi sul gomito e liberandosi il viso dai capelli. Lui lo teneva in braccio, caldo e leggero: le sedette accanto e glielo diede.
«Come stai, mio tesoro?» le disse. «Guarda com'è bello nostro figlio. Sei stata coraggiosa.»
Lei baciò il bambino sulla fronte, poi si slacciò la camicia da notte e lo accostò al seno. Il bambino si attaccò subito. Lui le prese la mano libera e si ricordò di come lei l'aveva tenuta stretta alla sua, affondandogli le ossa delle dita nella carne. Si ricordò dell'intensità con cui aveva desiderato proteggerla.
«Va tutto bene?» chiese lei. «Amore, che cosa c'è?»
«Abbiamo avuto due gemelli», le disse lentamente, pensando ai capelli neri, ai piccoli corpi scivolosi che aveva tenuto tra le mani. Gli vennero le lacrime agli occhi.
«Un bambino e una bambina.»
«Oh, una bambina!» esclamò lei, «Phoebe e Paul. Ma dov'è la bambina?»
Lui pensò che le sue dita erano fragili, come le ossa di un uccellino.
«Amore», continuò, ma gli si spezzò la voce e non trovò più le parole che aveva preparato con tanta attenzione. Chiuse gli occhi e quando riuscì a parlare di nuovo, le labbra pronunciarono parole diverse da quelle che aveva preparato.
«Amore mio, soffro tanto. La nostra bambina è morta appena nata.»

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