mercoledì 16 maggio 2007

TESTIMONIANZA


Lecco, giovedì 4 maggio 2007: Incontro sulla famiglia
(Ciao tiziana, ti invio finalmente le foto di Roma ti allego anche il
testo dell'intervento che ho fatto a lecco in occasione del family day.)
Ciao Silvia e` anche l`autrice del libro < Il ragazzo che guarda il vento>

...."Una volta don Giussani ci ha esortati a spalancare le nostre famiglie all’esperienza dell’accoglienza, ricordandoci questa frase di S.Paolo: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”....

“Famiglie per l’Accoglienza” è un’associazione di famiglie coinvolte in esperienze di adozione o affido di bambini e ragazzi, ospitalità più o meno lunghe di adulti in varie situazioni di bisogno, accoglienza di genitori e parenti anziani e non più autosufficienti, ospitalità estive di ragazzi stranieri, accoglienza di figli disabili.
La radice da cui nasce tutto questo è la consapevolezza che la famiglia è un bene



La radice da cui nasce tutto questo è la consapevolezza che la famiglia è un bene per l’uomo e sollecita chi ne fa esperienza ad abbracciare ogni forma di diversità, coniugando l’aspetto generativo a quello educativo.Questa sera vorrei semplicemente raccontarvi quanto stiamo continuando a scoprire, dentro le varie esperienze di accoglienza che vediamo crescere tra noi.

* 1)Innanzitutto, vorrei partire dicendo che la condivisione è un’esperienza connaturata alla famiglia, perché ognuno di noi cerca un luogo dove sentirsi voluto e amato.
Se un ragazzo è veramente amato dai genitori, sa che cosa è amare. Solo se si è amati, si ama. Occorre, dunque, che ci sentiamo accolti ed amati: non da chi e nei modi che noi desideriamo, ma molto più profondamente ed essenzialmente. Intendo dire che senza l’incombenza di Dio sull’orizzonte della nostra vita, noi non possiamo spalancarci all’accoglienza. A volte questa è una percezione chiara, ma può essere anche solo un presentimento o una intuizione. In ogni caso, quello che definisce il nostro comportamento è un’imitazione. Noi imitiamo un’esperienza che abbiamo vissuto. Per questo il nostro gesto rimanda ad altro da noi. A volte, vedendo il gesto di accoglienza di cui noi siamo strumento, è possibile anche per altri intuire la Presenza misteriosa che sta dietro il nostro gesto.

Un nostro amico medico racconta così la sua esperienza:
”Lavoro in un reparto di neonati e da anni mi trovo a discutere tutti i giorni sul problema delle malformazioni e spesso litigo con i colleghi per questo; quando nasce e ci viene portato un bambino malformato, è naturale dire ‘Ma che ci sta a fare al mondo? Speriamo che muoia!’ Mi sono sentito dire per anni: ‘Che cristiano sei, se vuoi che dei genitori per tutta la vita debbano soffrire per tenere un bimbo del genere?’ Volevo, perciò, raccontare di Daniele, il bimbetto del mio reparto che abbiamo preso in casa con noi. E’ stata un’occasione non forzata. E’ venuto in mente a mia moglie, che è venuta un giorno nel mio reparto e l’ha visto. E’ venuta a casa e mi ha detto: ‘Perchè non lo prendiamo noi?’. E’ stata una decisione istintiva: non abbiamo fatto passare due mesi e mezzo da quando lo ha detto. E adesso lui è con noi. La vicenda di Daniele ha creato scompiglio nel reparto. Tutti si sono chiesti: ‘Ma perché?’ All’inizio mi sono difeso dicendo: ‘ E’ soprattutto mia moglie che ha fatto la scelta, io ero più titubante e timoroso.’ Però tutti si sono interrogati: ‘Noi lo abbiamo avuto per 5 mesi nel reparto e lo abbiamo assistito, ma a nessuno è venuto in mente di prenderlo.’ Siccome in reparto tutti sanno che faccio l’esperienza di un movimento cristiano, è stato naturale collegare questa scelta all’esperienza che vivo. Quel bambino poteva rimanere lì e andare in istituto, come sarebbe stato il suo normale destino, poiché nessuna famiglia lo voleva in adozione. Con l’accoglienza è come se uno non dovesse neanche spiegare che cos’è Gesù Cristo: lo si vede nel gesto”.)

* 2) riflessione che vorrei proporvi è che l’accoglienza è l’abbraccio del diverso e questo si chiama perdono, perché per abbracciare un diverso occorre prima di tutto perdonarlo. Accogliere è la stessa cosa che perdonare. In questo senso la prima accoglienza, e perciò il primo perdono, è con il marito e con la moglie, perché mai un uomo avrà accolto interamente una donna, se non acuendo la consapevolezza della sua diversità. Anche in questo siamo chiamati ad un’imitazione. Non c’è diversità più grande di quella tra l’essere e il nulla. “Ti faccio sentire niente, perché tu ti affidi di più a me”, dice Dio nella Bibbia.
Spesso con i figli adottati o con i ragazzi in affido capita che tutta la loro diversità venga a galla, e questo ci obbliga ad approfondire la natura del nostro gesto.Vi riferisco alcune esperienze, che possono rendere più chiaro questo.

Ad alcuni nostri amici, a cui era stata data in affido una ragazza adolescente, è capitato

che questa ragazza scappasse ripetutamente da casa. Il padre si è lamentato di questo fatto dicendo: “Quando io vedo che lei non vuole essere vera nel rapporto con me, mi viene voglia di chiudere con lei, magari per un solo giorno, ma di chiudere”. Di fronte a questo legittimo lamento, un altro amico, che ha accolto in casa alcuni ragazzi difficili, gli ha risposto: “’L’altro non ci sta nel rapporto con me’ è una frase giusta, ma che blocca tutto, come hai detto tu. Invece dire: ‘Io non ci sto a Cristo in quel rapporto’ apre, è un’altra cosa.

Perché la questione è sempre se al centro metto l’altro che deve essere educato, o metto me, che ho bisogno di lui adesso per affermare ciò per cui vivo. L’altro è una sfida che fa il Mistero a me. ‘Io ti amo – mi dice il Mistero – e voglio che tu mi riconosca dentro un pezzo di realtà che non è apparentemente quella che vuoi tu’”.

Un altro nostro amico,

a cui era morta una figli disabile di 15 anni, ci ha detto:


“Qual’è il vertice dell’amore? Il perdono della diversità. La diversità per accoglierla bisogna perdonarla. Ad un certo punto della mia vita ho quasi pensato di dover perdonare Dio per avermi chiesto di amarlo dentro una forma così apparentemente disumana come quella di mia figlia. Poi ho capito che, più che perdonare Dio, dovevo perdonare la diversità. Il perdono non è quella cosa che noi mettiamo in moto quando le abbiamo provate tutte e nessuna cosa riesce. Il perdono è l’unica forma di amore: perché non si perdona quando l’altro presenta un’asperità che mi punge, ma si perdona perché l’altro è sempre altro da me, e per non sentirlo estraneo devo riceverlo come parte di me. Quello che permette questo è il perdono.”

* 3)Vorrei proporvi un’altra considerazione. Dopo 10, 20, 30 anni di matrimonio, quello che c’è tra un uomo e una donna è un riconoscimento profondo del bene che l’uno è per l’altro, e questo è molto di più dell’affettività iniziale che c’era tra loro. Infatti, l’amore a Cristo non è qualcosa da cui prendere spunto per vivere certi rapporti, ma coincide con i rapporti.
Per questo, l’esperienza di accoglienza è occasione di cambiamento per chi la vive.

Lo esprime bene questa esperienza dei nostri amici Riri e Maurizio.


Eravamo a Rimini al Meeting e nel parlare con alcuni amici siamo venuti a sapere che si stava cercando una famiglia per Roussel, un ragazzo africano che sarebbe rimasto a Lecco per alcuni mesi per un trapianto di cornea. Roussel, di 19 anni , proveniva dalla missione in Camerun dove vive il nostro amico P. Marco Pagani.
Non ci lasciava tranquilli pensare a P. Marco e P. Maurizio, che dall’Africa dovevano occuparsi di questo ragazzo, perciò abbiamo affrontato e risolto tutti i problemi che ci impedivano questa scelta, accorgendoci che quando c’è un urgenza che ti sta a cuore si è capaci di scegliere in fretta!
Roussel si è trasferito da noi e subito ci siamo dovuti scontrare con il suo ritmo lento, con la sua fatica nel rapportarsi con noi donne, col suo maschilismo, con le sue abitudini igieniche…
Così in questa fatica abbiamo iniziato a confrontarci spesso in famiglia , a condividere la fatica e le arrabbiature e il nostro legame è diventato ancora più concreto e forte nella quotidianità.
Ci hanno invitati a “Famiglie per l’accoglienza”, e per noi è stato un incontro fondamentale: dai racconti che ascoltavamo emergevano le fatiche di ogni giorno che le famiglie affrontavano, perché la maggior parte di adozioni e affidi riguardavano situazioni di malattia, di handicap o comunque problematiche.
Vedere ed ascoltare queste persone che ogni giorno nell’accoglienza, come dice don Giussani, mostrano “ un’umanità che realizza la loro passione per l’esistenza e la loro adesione al dramma della vita con realismo e una profondità altrimenti impossibili”, ci ha profondamente toccati.
Il nostri io si è scontrato con una grande testimonianza, a tal punto che per Maurizio, mio marito, è stato il cammino della conversione, colpito profondamente da gente così appassionata alla vita.
Ero preoccupata per la fatica che davamo ai nostri tre figli, la casa non era mai tranquilla, ma ricordo con emozione un fatto molto semplice: Roussel dormiva in camera con Marco che aveva 5 anni e una sera, mentre Roussell era in ospedale, Marco era disteso nel letto pensieroso e mi ha detto: “Ma con chi parlo stasera? Chi mi fa compagnia qua in camera?”
Il rapporto con Roussel era difficile, ma riusciva pian piano a smuovere l’umanità di tutti noi e ci ha consentito di trovare risposte alle domande della nostra vita, magari non nel modo che ci aspettavamo.

La preghiera è entrata come momento importante nella quotidianità di casa nostra:


dal momento del mettersi a tavola, alla sera, al coraggio di fermarsi e dire una decina di “ave marie” per amici che ne avevano bisogno, fino alla S. Messa insieme.
La storia con Roussell, che ora è in Camerun, è continuata e con l’aiuto di alcuni amici abbiamo creato una “adozione a distanza”, che sta permettendo a lui ed ai suoi fratelli di continuare gli studi. Ora Roussell sta frequentando il primo anno di “Ingegneria Rurale”.
P. Maurizio ci ha raccontato un fatto molto interessante:

un giorno il papà di Roussell stava litigando con sua moglie, e Roussell si è intromesso difendendo la madre; questo ha offeso il padre, che ha radunato tutti parenti per risolvere l’offesa ed ha accusato Roussell di superbia, perché era stato in Europa. Ma Roussell ha risposto che qui in Italia aveva visto famiglie in cui si parlava e ci si aiutava, ed aveva incontrato amici con cui condividere e fare cose belle. Questo era quello che voleva anche per lui, lì in Africa.

Una coppia di nostri amici di Madrid, ha avuto, dopo 2 figlie sane, una bambina con una disencefalìa, ossia una gravissima patologia cerebrale, che determina molteplici disabilità (la bambina non parla, non cammina, non sente, non vede…).


Nei primi mesi di vita la bambina ha dovuto restare per molte settimane in ospedale ed i genitori si alternavano ad assisterla. Ad un certo punto, i loro amici si sono fatti avanti: ‘Lasciate che facciamo qualche turno noi in ospedale, in modo che voi possiate stare a casa con le altre due figlie’.
Dapprima i genitori hanno resistito, poi hanno finito per accettare. Col passare dei giorni si sono accorti che, per i loro amici, quel gesto semplice era una preziosa occasione di cambiamento. La loro bimba disabile si rivelava un’occasione misteriosamente feconda per la vita di tanti. Allora la mamma ha detto: ‘Ho capito che a me è chiesto di prendermi cura della felicità di questa mia figlia; ma ho pure capito che lei ci è stata data per essere occasione di cambiamento per la nostra famiglia e per il mondo intero.
Ciò che vediamo accadere nella nostra famiglia e tra i nostri amici è una grazia non prevista, ma provvidenziale”.

Anche Valeria e Daniele raccontano un cambiamento in atto.


“Quando Mirella, dalla Cometa di Como, mi ha telefonato dicendo che i servizi di Milano stavano cercando una famiglia senza figli che desse la disponibilità di accoglienza per un bimbo di sette anni per un periodo di almeno 2 anni e che loro avevano pensato a noi, mi sono detta “Credo abbia sbagliato famiglia! Io e Dani lavoriamo come matti tutto il giorno: come facciamo ad occuparci di un bimbo a tempo pieno?” Quando poi ho letto la relazione dei servizi su Edo la paura di non essere minimamente adeguata a quello che mi veniva chiesto è stata enorme. Naturalmente ho telefonato a Dani e quando alla sera ne abbiamo parlato lui, con molta sicurezza mi ha detto: “Se ce l’hanno chiesto i nostri amici è perché credono che noi due andiamo bene per accompagnare questo bimbo per un tempo della sua vita e quindi dobbiamo accettare. E poi non ti preoccupare, qualcuno anche qui a Lecco che ci aiuta lo troviamo sicuramente.”
Così l’11 agosto 2005 Edo è arrivato nella nostra casa.
Ripensando a questo periodo mi stupisco di alcune cose: quella più bella è che il fatto di sentire Edo come altro da me, spesso non corrispondente alle aspettative o ai comportamenti che mi attenderei da lui, mi porta quotidianamente a “ritarare” il mio sguardo su di lui cercando di andare a fondo veramente delle sue esigenze, di cosa veramente lo può aiutare a diventare un uomo vero e felice anche perché non so “quanto tempo sarà a nostra disposizione”. Questa posizione la vivo poi anche nel rapporto con le persone a me più care, a partire da mio marito: l’opportunità di Edoardo ha decisamente rafforzato e reso più serio e cosciente il rapporto che ci lega, è come se niente fosse scontato o dovuto. Naturalmente uno è portato a farsi trascinare dalla quotidianità, ma adesso capita spesso che ci si richiami e ci si confronti sulle cose che succedono. L’altra cosa bella sono i nuovi rapporti d’amicizia nati da quando Edo è con noi: la disponibilità delle nostre famiglie, ma anche di alcuni amici ad aiutarci nella “gestione quotidiana” a volte mi stupisce perché per me non è scontata. Uno tende sempre a dire “ce la faccio da solo” anche perché chiedere costa fatica, ma l’uomo solo con la mendicanza alla fine è veramente felice e poi spesso dai rapporti ottieni cose che neanche ti saresti aspettato.
Sicuramente per noi l’accoglienza è stato un cambiamento positivo della vita, a conferma che Dio ha sempre in serbo un progetto buono per noi, pur dentro la fatica che sempre ci accompagna”.

* 4) Da ultimo, vorrei sottolineare che la nostra, prima che un’organizzazione, è un compagnia, un’amicizia, un’esperienza. Dentro questa compagnia nasce una volontà di aiuto vicendevole, che partendo dagli aspetti pratici della vita, porta al nesso che il nostro agire ha con la sua sorgente ultima: il mistero di Dio.

C’era tra noi una coppia senza figli,


che stava con noi, condividendo alcuni gesti che vivevamo nella nostra parrocchia. Desideravano un figlio, ma continuavano a sperimentare la sterilità. Sembrava che vivessero ai margini della vita cristiana, chiusi nella loro muta sofferenza. Poi, mentre si stavano trasferendo in un altro paese, è arrivata la sorpresa. A dispetto di una diagnosi di sterilità, che sembrava definitiva, ecco la gravidanza. Dopo nove mesi di lieta attesa, finalmente è nato il figlio. Si trattava di un bambino down. Siamo andati a trovare i genitori in ospedale e ci siamo sentiti dire: “ Abbiamo capito solo ora a cosa è servito il tempo passato insieme a voi. Oggi non saremmo capaci di dire di sì a questo bambino down, senza quello che abbiamo capito stando con voi”.

Concludendo, possiamo dire che la nostra esperienza ci insegna che la famiglia è il luogo dove avviene questa esperienza di novità, capace di cambiare la persona e la società.

Una volta don Giussani ci ha esortati a spalancare le nostre famiglie all’esperienza dell’accoglienza, ricordandoci questa frase di S.Paolo: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”.

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