lunedì 5 marzo 2007

RITIRO DI QUARESIMA DELLA FRATERNITA' HAUTERIVE


P. Mauro-Giuseppe Lepori
"Ecco ora il momento favorevole"

Il paradosso del cristianesimo


"..L’avvenimento pasquale di Cristo, infatti, è una cosa così straordinaria, così formidabile, che il semplice fatto che sia accaduto distrugge, cancella il tempo come proroga tra ciò che vivo adesso e ciò che posso vivere in Cristo"....

Uno dei ritornelli costanti della liturgia della Quaresima è un’espressione di san Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2).
Perché è «qui ed ora» il momento favorevole, il giorno della salvezza? San Paolo introduce questa affermazione con le seguenti parole: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio. E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: “Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” (Is 49,8). Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 5,18-6,2).

È la grazia della Salvezza operata da Cristo che fa sì che il momento favorevole sia qui ed ora, è il mistero pasquale che fa del momento presente che viviamo il «tempo favorevole», il tempo che è in nostro favore, il tempo in cui siamo salvati.
Come per sottolineare questa positività e per sottolineare anche che essa non dipende dalle condizioni o dalle contingenze della vita, Paolo inizia a stilare un elenco delle circostanze negative attraverso cui passa il suo ministero che annuncia la grazia della Salvezza, dunque la gratuità positiva per tutti: «In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; (…) nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6,4-10).

Questa pagina di san Paolo illustra il paradosso del cristianesimo. In virtù della morte e risurrezione di Cristo, chi vive della grazia pasquale può passare attraverso tutto, passa attraverso tutto, attraverso le circostanze, le situazioni e gli stati più disparati e contrastati, e tuttavia niente di ciò lo definisce, niente di ciò lo rinchiude, lo ferma, perché c’è nella giustificazione mediante la grazia pasquale di Cristo un punto di totale positività che redime tutto. C’è nella riconciliazione con Dio in Gesù Cristo una positività tale che tutto il negativo è come assorbito in essa, assorbito nel positivo. C’è nella riconciliazione con Dio in Cristo e mediante Cristo una grazia che è come un «giorno della Salvezza», come una luce, un sole che si leva e assorbe tutte le notti, tutte le ombre per farne delle luci.
Questa grazia è già accordata, questo «giorno della salvezza» è già sorto, la riconciliazione con Dio è cosa fatta, e ciò fa dell’istante che sto vivendo un «momento favorevole», il momento favorevole.

Una scelta assurda

Ma se tutto è già dato, perché questa urgenza, questa insistenza di san Paolo? Perché agitarsi? Se la riconciliazione con Dio in Cristo ci è concessa perfettamente, allora la casa non brucia, si può aspettare un poco, soprattutto se non viviamo troppo male, se siamo in qualche misura dei buoni cristiani… Se siamo già riconciliati con Dio mediante Cristo, per grazia, allora, se non è per oggi sarà per domani, per la settimana prossima, per il mese prossimo, per la prossima Quaresima…

Il problema è che, se veramente abbiamo incontrato Cristo, se siamo veramente coscienti di ciò che significa la morte e la risurrezione del Signore, se siamo coscienti di ciò che è il nostro battesimo, allora questo rinvio, questa esitazione non hanno più posto, non hanno più tempo, diventano come un tempo irreale, un tempo senza realtà, un tempo senza ragione, irrazionale, assurdo. L’avvenimento pasquale di Cristo, infatti, è una cosa così straordinaria, così formidabile, che il semplice fatto che sia accaduto distrugge, cancella il tempo come proroga tra ciò che vivo adesso e ciò che posso vivere in Cristo. Se incontro il Cristo pasquale che mi riconcilia con Dio e salva tutta la mia vita, non vi è più proroga, non vi è più distanza tra l’istante che sto vivendo e la positività che Cristo dà a questo istante. Non vi è più distanza tra l’istante che vivo e l’avvenimento di Cristo. Allora non riconoscerlo, aspettare, ritardare questa esperienza è assurdo, è una scelta assurda.

È come qualcuno che si trova in una camera totalmente oscura e deve farvi un lavoro. Mettiamo che debba scolpire una statua in legno. Fa come può. Cerca gli attrezzi, tenta di afferrarli bene, poi cerca il legno da scolpire, prova a fissarlo bene, poi si sforza di utilizzare il meglio possibile i suoi attrezzi sul legno. È molto difficile per lo scultore armonizzare tutti gli elementi della realtà nella quale lui si trova e la sua opera. Molto difficile armonizzare la stanza, il legno, gli attrezzi, le sue proprie mani, la sua propria intelligenza e la sua abilità, allo scopo di realizzare l’opera per la quale è lì, per la quale dispone di tutti i mezzi e gli strumenti necessari.

Ora, supponiamo che qualcuno arrivi e porti la luce. Di colpo, tutto assume il suo senso, tutto può armonizzarsi e tutti gli elementi possono lavorare verso la loro finalità, la statua, senza essere in conflitto tra loro. Fino a quel momento lo scultore si feriva con gli attrezzi, rovinava il pezzo di legno, non riusciva a scolpire il naso, gli orecchi, la bocca, le braccia della statua al loro posto giusto. E, non vedendo gli altri oggetti o le altre persone presenti nella stanza, rompeva e rovinava le cose, feriva le persone, e feriva se stesso. Tutta la realtà attorno a lui diventava un disordine crescente, una distruzione progressiva, anche se tutti avevano l’intenzione di fare del bene e del bello.

Ora vede tutto e può finalmente, assieme agli altri, compiere ogni gesto con un senso, e ogni gesto può armonizzarsi con l’insieme dello spazio, della realtà. Tutto ha la sua giusta misura. Non dico che diventa necessariamente uno scultore migliore, né che, d’ora in poi, la statua si fa per magia, senza sforzo, senza errori, senza impegno della libera volontà dello scultore; ma ora, in ogni istante, in ogni gesto sa dove è, sa se ha fatto bene o male, se ha rotto tutto o no, se fa qualcosa di bello o di brutto. E questo cambia tutto. Infatti, quest’uomo può essere finalmente ciò che è, realizza ciò per cui è lì, qui e ora, e anche tutta la realtà intorno a lui trova con lui il suo senso, il suo scopo. Il martello è un martello, lo scalpello è uno scalpello, il pezzo di legno è un pezzo di legno, è di quercia e non di abete, e le sue mani sono le sue mani, se si ferisce, vede il sangue, vede la profondità della ferita, vede se basta un cerotto o deve andare dal medico, se può continuare il suo lavoro o deve fermarsi. E se si ferma per mangiare, mangia con la forchetta e il coltello, e non con la lima e lo spazzolino da denti… Insomma, è un uomo per il quale ogni istante ha un senso, ogni gesto può essere responsabile verso tutta la realtà. Vive in pienezza tutta la sua umanità, pur coi suoi limiti e debolezze, i suoi errori e le sue mancanze; tutto ha il suo senso e la sua misura.
Ma se l’altro non avesse portato la luce, tutto ciò non sarebbe possibile. Allora, la cosa più ragionevole sarebbe che lo scultore cominci a guardare con gratitudine colui che gli porta la luce. La cosa più ragionevole sarebbe che cominci col ringraziare quest’uomo, e poi che continui a scolpire rimanendo cosciente del fatto che ogni gesto che fa, ogni colpo di scalpello, non sarebbe possibile, non sarebbe giusto, coerente, non sarebbe un gesto positivo, se l’altro non fosse lì con la sua lampada. E più ama realizzare la sua scultura, che è il senso della sua vita, più si sente spinto a dire all’altro di accomodarsi, di avvicinarsi, di restare lì, con lui, vicino a lui. E vedendo che l’altro lo fa, vedendo che resta lì per illuminare la sua stanza e il suo lavoro, lo scultore dovrebbe continuare la sua opera con un crescente senso di gratitudine verso il misterioso personaggio che l’illumina, che fa questo per lui, che ama talmente la sua vita e la sua opera, che ama talmente che la sua vita e la sua opera abbiano un esito positivo, si compiano, che resta lì con la sua luce, perdendo del tempo, dando la sua vita per illuminarlo.
Allora, se lo scultore è ragionevole, comincia anche, pur continuando il suo lavoro, a chiedersi perché l’altro è lì, perché è venuto, perché fa ciò che fa, perché perde del tempo, perde la sua vita affinché lui possa realizzare positivamente la sua esistenza, affinché lui possa vivere e lavorare con senso e con gusto. E queste domande, se egli se le pone, lo porterebbero a un certo momento ad interrompere il suo lavoro e, con gli attrezzi in mano, a chiedergli: «Ma tu, chi sei? Perché fai questo? Da dove prendi la tua luce? Come sapevi che ne avevo bisogno? Come mai sapevi meglio di me ciò di cui ho bisogno, qual è il mio bisogno, il mio bisogno adesso, il mio desiderio adesso? Io non sapevo che avevo bisogno della tua luce. Pensavo di poter vivere senza di essa, anche se sentivo in qualche modo che vivevo male, ero a disagio. È incredibile: da quando sei qui con la tua luce, vivo con un senso, e più vedo che la mia vita ha un senso, più manipolo la realtà della mia vita alla luce della tua lampada, anche quando sbaglio e mi ferisco ancora, e più cresce nel mio cuore il desiderio di conoscerti, di guardarti, di restare con te!».

«Lasciatevi riconciliare con Dio»!

Ma fermiamo un momento questo film e ritorniamo indietro. Ritorniamo alla domanda con cui ho cominciato a immaginare questa storia: la domanda dell’assurdità che c’è a creare una distanza, una proroga, di fronte al Cristo pasquale e alla riconciliazione in Lui con Dio.
Immaginate che il nostro scultore, anziché lavorare alla sua scultura, anziché approfittare della luce e sentire sempre di più il desiderio che l’altro resti lì per illuminarlo e il desiderio di conoscere chi sia lui e la ragione della sua presenza, immaginate che dica: «Vattene! Mi disturbi! Non ho bisogno di te. Lasciami solo! Voglio lavorare da solo! Non voglio lavorare. Preferisco non fare nulla. Preferisco fare una statua brutta e sgraziata. Preferisco ferirmi coi miei attrezzi, e rompere e rovinare tutto ciò che mi sta intorno, piuttosto che averti tra i piedi e dover dipendere dalla tua luce!».

Bisogna essere folli per reagire così. Ebbene, quando non viviamo l’istante presente come un momento favorevole per accogliere la Salvezza, la riconciliazione con Dio, la luce pasquale di Cristo, la presenza di Cristo risorto, è proprio così che ragioniamo, che reagiamo, è così che siamo.
Inutile allora ragionare sui motivi del nostro rifiuto, della nostra negligenza di fronte alla Salvezza. Basterebbe rendersi conto che questo rifiuto è assurdo, che è contro la natura del nostro cuore, contro il senso della nostra vita. È come se un neonato che sta nutrendosi al seno di sua mamma, che gli sorride e lo accarezza, di colpo si staccasse dal seno e si mettesse a parlare come un adulto e dicesse: «Vattene! Non ti voglio più! Mi disturbi!».

Questa assurdità è il fondo del peccato e noi dobbiamo saperla scoprire e riconoscere subdolamente presente nella nostra vita, nella nostra posizione di fronte alla vita, di fronte alla realtà quotidiana della nostra vita. Dal peccato originale in poi, l’uomo permette all’assurdo di annidarsi nella sua vita, senza troppo accorgersene. È contro questa tendenza assurda che la Chiesa ci offre e domanda di lavorare durante la Quaresima e sempre. La Chiesa è una Madre che in fondo raccomanda solo questo: «Lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor 5,20). Non, innanzitutto, «Fate i bravi! Comportatevi bene! Non fate questo o quello! Fate attenzione a questo e a quello!», ma: «Lasciatevi riconciliare con Dio!».
Perché la Chiesa insiste su questo? Perché è gratuito, e perché questo è la pienezza della nostra umanità, di ogni istante che viviamo.
Riconciliarsi con Dio vuol dire ritrovare la presenza amante ed amata di Dio nella nostra vita, ritrovare la relazione di amicizia con Dio, la familiarità con Dio. È il ritorno alla casa del Padre, ma soprattutto è accogliere Dio che vuole entrare nella nostra vita, dunque lasciar entrare Cristo nella nostra vita con la sua luce che riempie la nostra vita di senso e di positività.
Una delle più belle espressioni di ciò che è o dovrebbe essere la riconciliazione con Dio in Cristo è descritta nell’episodio dell’incontro di Gesù con Zaccheo (Lc 19,1-10). Zaccheo non era un uomo pio, ma desiderava vedere Cristo. Questo desiderio un po’ vago, questo desiderio ancora oscuro, perché è un miscuglio di curiosità, di disgusto della propria vita e di slancio religioso mal educato, questo desiderio incontra un’iniziativa inattesa del Signore: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua!».

«Oggi devo fermarmi a casa tua!»: è assolutamente lo stesso desiderio espresso dal Signore nell’Apocalisse: «Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,19-20).

«Mostrati dunque zelante e ravvediti». Quale zelo, quale ardore chiede Gesù a ciascuno di noi? Quale pentimento vuole da noi? Vuole l’ardore di Zaccheo: «In fretta scese [dal sicomoro] e lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,6).

Ma questo ardore è provocato ed è suscitato dall’urgenza dell’amore di Cristo, dell’iniziativa di Cristo: «Oggi devo fermarmi a casa tua!». È meditando, è ripetendosi continuamente la frase di Gesù a Zaccheo che possiamo comprendere quale atteggiamento ci è chiesto affinché, come per Zaccheo, la Salvezza entri oggi nella nostra casa, nella nostra vita, nel nostro cuore: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa…; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,9-10).
È questa la luce che è assurdo rigettare della nostra vita quotidiana, la luce che ci permetterebbe di realizzare il senso della nostra vita, in armonia con tutto ciò che costituisce la realtà della nostra esistenza: le relazioni, le cose, il lavoro, tutto.

L’istante presente

«Oggi devo fermarmi a casa tua!»: si tratta di lasciar entrare Gesù nell’istante presente che stiamo vivendo. Si tratta di vivere l’istante presente come quello in cui Cristo fa irruzione nella nostra vita per illuminarlo, dargli il suo senso e la sua bellezza. Il problema di fronte all’avvenimento di Cristo non è allora quello di metterci in ordine, di risolvere il nostro passato, di calcolare il nostro avvenire. Gesù non dice a Zaccheo: «Preparati, vengo a cenare da te fra un’ora!». No: oggi, adesso, in questo istante, così come si presenta, voglio entrare nella tua vita, sono presente nella tua vita!

Bisogna pensare a questa scena del vangelo per capire cosa vuole dire san Paolo quando proclama: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2).

Soltanto il «sì», come quello di Maria, che desidera lasciare entrare Gesù nell’istante presente permette alla nostra vita di convertirsi e di cambiare. Se Gesù può entrare nell’oggi della nostra vita, da lì e solo da lì, Egli può convertire tutta la nostra vita, anche il nostro passato irreparabile, anche il nostro futuro preoccupante: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri – dice Zaccheo – e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). Non è solo un problema di conti da rendere, di cose da regolare e da riparare: è un cuore che, unito a Cristo che lo ama, diventa capace di riconciliarsi col suo passato, di cambiare i suoi progetti per il futuro, ed è sicuro che questo cambiamento è cosa fatta, perché è fondato sull’oggi del Salvatore che entra nella sua vita. Zaccheo parla di riparare il suo passato e di ciò che farà in futuro, ma lo dice guardando Gesù negli occhi, tenendosi attaccato a questo istante eterno in cui Gesù rimane presso di lui. È questa intensità dell’istante presente che Zaccheo vuole conservare per sempre, ed è l’attaccamento a Cristo che prende come vera risoluzione di vita, perché sa benissimo che non può contare su se stesso per cambiare la propria vita, il proprio passato, il proprio futuro, e il proprio cuore con tutta la sua miseria radicata.

«Esèrcitati nella pietà"

Questa applicazione della libertà ad accogliere il desiderio di Cristo di venire a dimorare nella nostra vita, nel nostro cuore, è ciò che san Paolo chiama la «pietà». Scrivendo i suoi consigli al discepolo e figlio Timoteo, Paolo gli ricorda che deve concentrarsi sull’essenziale: «Esèrcitati nella pietà, perché l'esercizio fisico è utile a poco, mentre la pietà è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente come di quella futura.» (1 Tm 4,8).

La pietà è la memoria di Cristo, il fatto di riconoscerLo presente, vivente, e salvatore della nostra vita. È in questo senso che la pietà è «utile a tutto», perché se Gesù è qui e gli apro la mia vita, Egli la salva e la rende strumento della Salvezza per tutti.
La pietà consiste nel riconoscere in ogni istante che abbiamo bisogno che Cristo sia presente affinché la nostra vita vada bene. Se si fosse intervistato Zaccheo sulla sua vita dopo l’incontro con Gesù, non credo che avrebbe detto: «La mia vita andava male perché ero un pubblicano, un truffatore, un avaro e non ubbidivo alla Legge». Avrebbe detto, molto semplicemente: «La mia vita andava male perché Gesù non ci era ancora entrato. Da quando è entrato nella mia vita, da quando è presente al mio cuore, la mia vita va bene, anche quando le cose vanno male, anche quando ricado nelle mie vecchie abitudini».
La pietà cristiana è questo. È riconoscere che il bene per la nostra vita è la presenza di Cristo. È un’esperienza e un giudizio, come per lo scultore di cui parlavo prima, che ha dovuto ammettere che da quando l’uomo con la luce era entrato nella sua stanza, tutto andava meglio.

La Chiesa, la Fraternità vogliono renderci più sensibili e vigilanti ad acconsentire all’avvenimento di Cristo che desidera entrare realmente e intimamente nella nostra vita. Dovremmo vivere tutti i gesti che ci chiedono la Chiesa e la Fraternità come se fossimo Zaccheo nel momento in cui scende dal sicomoro, cioè nella gioia di accompagnare Gesù verso la nostra casa, verso la nostra vita di tutti i giorni, verso il nostro cuore, affinché possa dimorarvi e vi possa portare la Salvezza. Zaccheo faceva questi passi con gratitudine e domanda. Era pieno di gioia nell’accogliere Gesù, e nello stesso tempo chiedeva la sua presenza, la mendicava, perché percepiva tutta la gratuità di questa presenza, che lui non la meritava.

Nell’Exordium di Cîteaux che racconta come e perché questo monastero è stato fondato e ciò che hanno fatto i primi tre abati, Roberto, Alberico e Stefano, si dice: «Ventuno monaci, usciti insieme con l’abate del monastero, Roberto (…), dopo numerose pene ed enormi difficoltà, che devono sopportare necessariamente tutti quelli che vogliono vivere in Cristo con pietà, infine possessori di ciò che desideravano, giunsero a Cîteaux» (cap. 1).

«Vivere piamente in Cristo Gesù» (2 Tm 3,12): ecco lo scopo profondo del passo dei primi cistercensi, ma anche lo scopo profondo di ogni comunità cristiana, della nostra Fraternità. Non si tratta evidentemente di diventare pii e devoti, ma di poter veramente e profondamente vivere in Cristo, cioè vivere il nostro battesimo.
La pietà è autentica se, anche grazie a gesti semplici e brevi come un Angelus, una giaculatoria, ci aiuta a vivere in Cristo, a fare di Cristo la dimora della nostra vita, Lui che è venuto a dimorare nella nostra vita per salvarla.

È in questo che dobbiamo imparare ad aiutarci, come i primi cistercensi, e soprattutto come i primi cristiani. La comunità deve aiutarci a vivere insieme in Cristo con pietà, cioè ad aderire alla grazia della Salvezza, a non perdere il momento favorevole che è la presenza del Risorto in ogni istante della nostra vita; a non perdere la riconciliazione con Dio che questo comporta; a non rifiutare la luce su tutta la nostra vita che è la presenza vivente di Cristo.
L’identità battesimale

La pietà cristiana non è pietismo se l’attenzione alla presenza di Cristo diventa sempre di più coscienza della nostra identità battesimale, dunque di ciò che siamo grazie a Cristo, grazie alla morte e alla risurrezione di Cristo, e – ma è la stessa cosa – grazie alla Chiesa.

Trovo che una delle più belle descrizioni profetiche della nostra identità battesimale è la vocazione di Mosè. Dio gli annuncia la sua intenzione di inviarlo a liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto. Mosè vede la sproporzione e ha paura. Dice al Signore: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?», e Dio gli risponde: «IO SONO con te!» (Es 3,11-12).

«Chi sono io?» - «IO SONO con te!».

È questa la nostra identità battesimale, la nostra identità nuova in Cristo risorto. È questo ciò che noi siamo se Cristo è qui, e perché Cristo è qui. È questo che deve coltivare e approfondire la vera pietà cristiana: la coscienza che la risposta alla domanda «Chi sono io?» è l’avvenimento che Dio è con me, che Dio è qui.
Io sono Lui che è con me! Più il Signore è qui, più Egli mi è vicino, più mi tengo attaccato a Lui, e più io sono, sono me stesso, sono quello che sono chiamato ad essere da Dio che mi fa.
Non bisogna pensare a questo come a una teoria filosofica, perché solamente un fatto, un avvenimento ce lo fa comprendere, ci dà questa coscienza. Il bambino ha questa coscienza rispetto a sua madre, non perché ci ha pensato, ma perché ne fa l’esperienza, perché sua mamma è vicino a lui.

Pensiamo ancora una volta a Zaccheo. «Chi sono io?»: un pubblicano, un pubblico peccatore, un truffatore, un bandito, un parassita, un collaboratore dei Romani invasori? Queste sono le risposte della folla, ma erano anche le risposte che la coscienza di Zaccheo portava in sé. Zaccheo doveva avere vergogna della sua identità, tanto che evitava di porsi questa domanda: «Chi sono io?». Ma dopo la visita di Cristo nella sua casa, Zaccheo è come un nuovo Mosè: «Chi sono io? Io sono colui presso il quale Gesù è venuto a dimorare! Sono quello presso cui Cristo è presente!».

È solamente quando si comincia a definirsi come «Colui con il quale Dio è», o almeno come «Colui che non è niente senza Dio», che la vita può cominciare a cambiare, a convertirsi. Ci convertiamo solamente se cominciamo almeno un poco a definire la nostra identità a partire dalla presenza di Cristo nella nostra vita quotidiana, nella nostra casa, nel nostro istante presente. Perché da quel momento, la forza che ci salva non è più in noi, non dipende da noi, e tuttavia è con noi. Quando Jahvé si rivela così a Mosé, come Colui che lo chiama e gli dà la sua vera identità, il contesto è un contesto di liberazione del popolo, di salvezza per il popolo. Arrivare ad accettare che la nostra identità sia la compagnia di un Altro, la familiarità con un Altro, fa che la nostra vita entri nel campo della missione impossibile che Dio rende possibile. Si diventa strumenti delle meraviglie di Dio, come è avvenuto letteralmente per i discepoli di Gesù dopo la Pasqua e la Pentecoste.

Ma perché ciò sia possibile, bisogna cominciare a coltivare questa coscienza che Lui è con me e che senza di Lui non sono niente, non posso niente. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5): in questo consiste la pietà cristiana, in questa coscienza e in questo atteggiamento di fronte alla vita. È un’identità, una concezione di se stessi in cui la presenza di Cristo è necessaria, indispensabile alla vita, e alla pienezza della nostra vita.

La missione pasquale

Allora il frutto della vita diventa una missione pasquale di liberazione del popolo, come la vocazione di Mosè. Ma per noi, liberare il popolo vuol dire che attraverso la nostra semplice presenza là dove siamo, la nostra identità battesimale diventa una proposta per la vita dell’altro, per la libertà e la pienezza della vita dell’altro. La missione vuol dire comunicare all’altro, in tutte le circostanze della vita, la gioia e la pace di appartenere a Cristo e di non essere niente senza di Lui, fuori di Lui.
In questo senso, la missione è sempre possibile, la missione è facile. Mosè fa resistenza prima di accettare la sua missione, dice che non ne è capace, che bisogna mandare un altro (Es 4,13). E Dio si arrabbia, come per dirgli: «Non fare lo sciocco! Non ti chiedo di esserne capace, ma di non poter fare ed essere niente senza di me. Non ti chiedo delle capacità, ma una concezione di te stesso in cui Io sono indispensabile. E questa non è che la concezione di te stesso più conforme alla tua natura, perché sono Io che ti creo ad ogni istante. Ti chiedo solamente di vivere ciò che tu sei. Del resto, per capirlo, non sarebbe necessario che Io ti appaia in un roveto ardente o nella nube oscura e terribile del Sinai: ti basterebbe guardare un bambino nelle braccia di sua mamma».
La conversione della Quaresima deve essere innanzitutto una conversione a ciò che siamo grazie a Cristo, una conversione alla nostra identità battesimale. Durante la Quaresima, ridiventiamo tutti catecumeni; non per ricevere ancora una volta il battesimo, ma per riprendere coscienza di ciò che ha fatto di noi il battesimo. Quando abbiamo ricevuto il nostro battesimo da piccoli, in realtà abbiamo vissuto perfettamente la nostra identità battesimale, lasciandoci portare, accettando che Cristo viva in noi senza nessuna obiezione, senza nessun timore. Poi, crescendo, la nostra identità battesimale ha dovuto cominciare a lottare contro una falsa concezione di noi stessi, una concezione autonoma, indipendente, senza appartenenza a Cristo e senza familiarità con Lui. Ci siamo allontanati da Lui senza accorgerci che ci allontanavamo anche da noi stessi, dalla verità della nostra vita e del nostro cuore. Eravamo nella casa del Padre, siamo andati in un paese lontano, e la grazia ora è di renderci conto che era nella casa del Padre che eravamo veramente noi stessi. Desideriamo allora tornarci, ma non sappiamo come. Ed ecco che Cristo, la nostra vera identità filiale, è Lui che viene, ci guarda come ha guardato Zaccheo, e ci riporta a casa nostra. E «casa nostra», è la Sua presenza, il fatto che Egli rimane con noi.
Dovremmo passare tutta la Quaresima ripetendoci dal mattino alla sera la domanda: «Chi sono io?» e ascoltando dal Signore la risposta che ci esprime attraverso la Chiesa e nel nostro cuore: «IO SONO con te!», finché tra la domanda sulla nostra identità e il riconoscimento della Sua presenza non ci sia più distanza, non ci sia più differenza, affinché la nostra povera persona non sia che testimonianza del fatto che Cristo è risorto e rimane sempre con noi per salvare il mondo.
(traduzione di Antonio Tombolini
approvata dall’autore)

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