giovedì 27 marzo 2008

FERRARA PREFERISCE UN RISCHIO PUBBLICO CHE UNA CERTEZZA PRIVATA PERCHE' FA PIU' POLITICA

l’iniziativa “politico-etica” di Ferrara ha provocato molto di più e di diverso dalla sola radicalizzazione del dibattito. Presto attenzione e reagisco a formule che, nel loro insieme (il “compromesso virtuoso” nel sociale e nel locale, il “libero operare di famiglie, movimenti ecc. ”, opposti alle condotte affermative), rischiano di sottovalutare l’autonomia e la portata, infine la necessità, della dimensione politica pubblica, e della azione esplicita nel quadro della sfera pubblica. La dimensione politica, il Politico, non è solo, né anzitutto, governance; l’agorà non è né la piazza dove si conversa in fine giornata, né dove si fa (opportunamente) mercato, né è disegnata dalle solidarietà organiche.

di Pietro De Marco
Tratto da L'Occidentale il 25 marzo 2008

Le obiezioni di inopportunità, persino di condotta autodistruttiva, rivolte al Giuliano Ferrara della lista “Aborto? No, grazie” sono note.


Oscillano dalle valutazioni tecniche a quelle relative al merito, ideale e politico, della campagna per la moratoria, passando per l’evocazione del dissenso (o del mancato consenso) politico di Avvenire, del Giornale, di CL, di Radio Maria, di Famiglia cristiana, per ciò che essi rappresentano. Nonostante l’opinione di Michele Brambilla (Il Giornale, 15 marzo 2008), solo le valutazioni di opportunità strettamente tecnico-elettorali alla discesa in campo del direttore del Foglio sembrano avere una plausibilità inequivoca. Vi è, invece, un corredo di ragioni “più alte” che non riesco ad approvare e che mi sembrano negare nella sostanza, all’iniziativa di Ferrara (parlo della moratoria), quel valore che a parole le viene riconosciuto.

Facciamo un passo indietro, all’intervento di Giorgio Vittadini, sul Giornale del 29 febbraio u. s. Tanto ambiziosamente titolato, nel riferimento alla libertas ecclesiae et societatis, quanto cifrato (tra l’altro non menziona né la moratoria, né Giuliano Ferrara), contiene una esplicita difesa delle pratiche sociali silenziose e concrete contro “ogni atteggiamento utopico che per affermare principi morali e ideali non tiene conto delle condizioni reali” finendo col favorire l’affermazione di sistemi di potere illiberali. Poiché questa formula potrebbe applicarsi a troppo numerosi casi nell’arco dei secoli, Vittadini aggiunge che tale effetto perverso può essere ottenuto oggi “sostenendo iniziative politico-etiche sacrosante nel contenuto ma che, nei fatti, provocano solo (!) un radicalizzarsi dialettico del dibattito e quindi una minor probabilità di poter intervenire in modo ponderato ed approfondito, oggi o in futuro, su temi non negoziabili in quanto legati alla concezione stessa della persona”. “Oppure - prosegue, per la verità – l’errore può esprimersi anche disperdendo voti ecc. ”.

Lontano sempre, per formazione come per meditate ragioni, da tentazioni utopizzanti mi sento libero di esprimere delle riserve, e non solo a partire dall’evidenza che l’iniziativa “politico-etica” di Ferrara ha provocato molto di più e di diverso dalla sola radicalizzazione del dibattito. Presto attenzione e reagisco a formule che, nel loro insieme (il “compromesso virtuoso” nel sociale e nel locale, il “libero operare di famiglie, movimenti ecc. ”, opposti alle condotte affermative), rischiano di sottovalutare l’autonomia e la portata, infine la necessità, della dimensione politica pubblica, e della azione esplicita nel quadro della sfera pubblica. La dimensione politica, il Politico, non è solo, né anzitutto, governance; l’agorà non è né la piazza dove si conversa in fine giornata, né dove si fa (opportunamente) mercato, né è disegnata dalle solidarietà organiche.

L’agorà prende forma nelle scelte divergenti di una pluralità di attori, nella concorrenza di progetti di bene comune, nel conseguente apparire pubblico, “allo scoperto”, di avversari. Questo è l’essere-insieme della Politica, diverso da quello della comunità domestica come della collaborazione-competizione dell’uomo economico. Hannah Arendt associava genialmente spazio politico e apparire pubblico: “lo spazio dell’apparire si forma ovunque gli uomini condividano le modalità del discorso e dell’azione”; questo momento, per se stesso, “anticipa e precede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle diverse forme di governo”. Aggiungeva: “La sfera pubblica, lo spazio nel mondo di cui gli uomini hanno bisogno per apparire, è opera dell’uomo più specificamente di quanto non lo sia l’opera delle sue mani (…)”. Ma “la convinzione che ciò che di più grande l’uomo può raggiungere è il proprio apparire e la propria attualizzazione non è affatto ovvia”. Vi si oppone (in particolare nel periodo in cui Human Condition, pubblicato nel 1958, fu scritto) il mito del primato del lavoro e del homo faber.

La pubblicità della dimensione politica, in quanto tale, non può essere anonimità e silenzio, né può evitare la tensione del confronto affermativo, che è la forma propria della condivisione politica. Vi è in questi anni sete di “cultura politica”. Ma una cultura politica esiste se è capace di generare progetti determinati (non utopie) e forze, entro uno spazio, lo spazio politico appunto, in cui di fronte ad una volontà si delineano anche i suoi avversari. Avversari, non nemici personali. Un venerato amico, Adriano Prosperi, che attribuisce anche lui, come un qualsiasi giornalista politico schierato, a Giuliano Ferrara il clima di Genova (“Donne in ospedale trattate come delinquenti, … un ginecologo suicida in una città dove l’arcivescovo antiaborista governa ospedali, ecc. ”, Repubblica, 14 marzo 2008), oltre a scrivere sulla disciplina e dottrina cattolica moderna dell’aborto cose troppo polemiche, troppo poco misurate per uno storico, è oggi un avversario. Come hostis viene schierato da Repubblica, col pretesto del recente libro di Adriano Sofri, contro Ferrara come contro Roma e la chiesa italiana. Non me ne faccio motivo d’ansia; perderemo tutti, forse (o forse no), un po’ del nostro à plomb ma ciò che conta è che è in corso una partita pubblica con dei contendenti, che Repubblica vi gioca di rimessa, che comunque non si tratta più di un a solo in cui quel fronte parli incontrastato, com’è avvenuto per troppo tempo.

Se gli attori della sfera politica sono (politicamente) veri, se l’agorà si palesa nel venire alla luce di volontà diversamente ordinate al bonum comune, non potremo (né dovremo) evitare il conflitto. Perché mai, chiedo a Vittadini, il contrasto affermativo di oggi impedirebbe domani di “intervenire in modo ponderato e approfondito” ? E su cosa poi si negozierebbe, domani, se non fossero formulati oggi e proposti alla sfera pubblica degli obiettivi contrapposti?

So che la mission, come si dice, del presidente di una Fondazione per la Sussidiarietà non è la elaborazione della linea culturale e politica di CL. Ma da persona che di CL non è mai stata, riuscendo egualmente ad apprezzarne (e molto) persone e ragioni, ho qualche rimpianto per la presenza affermativa di altri anni. Anche CL mi appare sotto la tentazione dell’ideologia invisibilista ricavata dalla Lettera a Diogneto (cavallo di battaglia delle culture cattoliche che CL ha avversato!).


Eppure la cultura politica cattolica maggioritaria ha perso il suo peso nella storia italiana (e più generalmente europea) proprio alimentando in sé teorie e pratiche di una politica della latenza, più tardi, nella débacle, definita come crescita cattolica alla “laicità”! Prediligendo la negoziazione riservata tra i soggetti politici, ha sottovalutato la necessità di esistere seriamente come parte del dibattito pubblico e della lotta politica. Gli ultimi lustri di storia democristiana hanno mostrato, ma troppo tardi, riguardo a valori e istituti fondamentali, come quel tanto che di volta in volta la DC tutelava non fosse saldamente posto. E non a causa della “secolarizzazione”, insopportabile escamotage, ma perché non si volle più motivare istituti e valori, ragionarli di fronte all’opinione pubblica, incarnarli in culture e forze intellettuali e morali pubblicamente consistenti. Le sconfitte, anzitutto legislative, su divorzio e aborto furono solo sintomi vistosi quanto mal interpretati (incidenti di percorso!) di un fenomeno esteso: su tutto, progressivamente, l’azione politica cattolica subiva l’iniziativa di chi, invece, ragionava in forma persuasiva e ad alta voce. Quando la DC scomparve, essa era (politicamente) solo un nome senza arendtiana forma pubblica.

La pertinenza di queste considerazioni alla questione Ferrara è evidente. Non è bastato e non basta davvero “il libero operare di famiglie, movimenti, istituzioni ecc. ” a frenare la “deriva edonistica”, la “cultura della morte”, nelle nostre società. Alla riflessione alta non meno che al common people bisogna dare ragioni, non solo esempi: gli esempi restano i tuoi, influenzano circoscritti mondi relazionali; solo le ragioni possono diventare di tutti. Il Politico è altro dal domestico e dal sociale. Solo se l’altro è raggiunto da “ragioni” (che diano, tra l’altro, significato universale agli “esempi”) egli può condividere con te una azione pubblica conforme, ad esempio rivolta ad affermare (e tutelare) la santità della vita “dal concepimento alla morte naturale”. Questo è Politica. Carlo Galli ha sottolineato una profonda formula di Carl Schmitt: “il ‘politico’ può trarre la propria forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo; esso infatti non indica un particolare settore concreto ma solo il grado d’intensità di un associazione o di una dissociazione di uomini”.

Ma le idee dividono. Come dialogheremo poi? Obietto: chi ha ridotto la teologia politica cattolica (non penso ora al collega Vittadini) a trepido emozionalismo, fosse pure solo di facciata, a comunitarismo tutto slogan, a convinzioni (quando vi sono) senza progetto e senza ragioni, se non quelli degli altri, delle altre culture politiche? Giuliano Ferrara proponendo nello spazio pubblico grandi tesi, razionali e cattoliche, teoriche e pratico-politiche, non ha solo aperto una querelle; ha fatto e fa politica nella sua forma fontale, quella che mette in gioco idee e idealità con l’effetto di disegnare spazi di azione. Nell’agorà qualcuno ha posto in agenda, quindi ci ha obbligato a ponderare, quanto conformi al bonum comune siano le leggi e l’ethos (nulla è privato sui terreni antropologici) su vita e morte del nascituro; e a decidere di conseguenza. Antropologia, dunque, ed etica pubblica e istituti: niente che non sia al cuore della polis.

Se questo qualcuno non è chi avrebbe dovuto essere, se cioè la cultura politica cattolica è stata e resta assente (assente la cultura politica, non la passione e l’intelligenza dei movimenti per la vita), questo è responsabilità cattolica. Che abbiamo fatto noi dell’immenso “patrimonio di saggezza della Chiesa” (per usare una espressione di Brambilla)? Se in noi era rimasto (politicamente) inerte non dovrà essere Giuliano Ferrara a scontarlo.

Ma, si osserva, Ferrara è andato troppo oltre. Chi decide dell’oltre, ossia dei limiti della spinta e della profondità di penetrazione di una campagna (che è più che tale)? Non ci lasceremo confondere dall’abile messa in scena, da parte degli avversari, di un loro naturale ripudio dell’aborto, di un loro virtuoso consenso sull’essenziale, ferito dall’intransigenza di Ferrara. Chi eleva geremiadi sullo scontro di idee difende l’egemonia che vede messa in discussione. Che poi qualcuno difenda persino, ciecamente, l’egemonia altrui su di sé è solo la riprova che quell’egemonia funziona.

Brambilla tende a dare dei criteri più interni e sottili. Ferrara non dovrebbe (non avrebbe dovuto) compiere scelte che sono di danno al suo stesso obiettivo. Su due fronti. Il primo: la metamorfosi politico-elettorale di una battaglia etica dispiace all’opinione pubblica italiana (così “la presentazione di un partito … ha fatto calare la simpatia e il consenso verso la moratoria per l’aborto”), e il suo fallimento elettorale peserà sulla battaglia stessa, denunciandone l’irrilevanza per la maggior parte dei cittadini. Il secondo: il linguaggio si radicalizza nel confronto politico immediatamente ordinato al voto; ma un clima da “rissa verbale” non aiuta la causa di Ferrara e degli altri oppositori della cultura dell’aborto. Convincere a non abortire vuole azione culturale e “(soprattutto) una realtà di accoglienza”.

Suppongo che Brambilla abbia qualche ragione sul primo punto. Portare una già difficile battaglia sui principi nelle strettoie di una competizione elettorale ove, nella decisione di voto, giocano molte variabili, è un rischio certo. Ma non credo si debba insegnarlo al direttore del Foglio. Il secondo punto, però, echeggia la nostra difficoltà cattolica a pensare il Politico, che non è ciò che intendiamo col pensare politicamente, per rapporti di forza ed effetti a breve (momento necessario ma secondo). La questione e l’enjeu dell’interruzione volontaria di gravidanza è più che l’opera amorevole e quotidiana di convincere delle donne a non abortire. È ad esempio sanzione della santità della vita umana nei princìpi e negli ordinamenti delle società avanzate; è protezione dello spirito delle costituzioni democratiche dalla tentante semplificazione delle bioetiche materialistiche; è conflitto di interpretazioni su logica ed estensione dei diritti umani.

Associarsi e dissociarsi nella sfera pubblica per questo più è apparizione del Politico. Potrebbe calamitare il voto di molti che il “disgusto per la politica” induce oggi a non votare

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