venerdì 14 marzo 2008

BENEDETTO XVI COS'E' LA VITA? ESSERE ATTESI, ESSERE DESIDERATI

..... che cosa è la vita? che cosa è la morte? come vivere? come morire? San Giovanni, per farci meglio capire questo mistero della vita e la risposta di Gesù, usa per questa unica realtà della vita due parole diverse, per indicare le diverse dimensioni di questa realtà “vita”: la parola bíos e la parola zoé. Bíos, come si capisce facilmente, significa questo grande biocosmo, questa biosfera che va dalle singole cellule primitive fino agli organismi più organizzati, più sviluppati; questo grande albero della vita, nel quale tutte le possibilità di questa realtà bíos si sono sviluppate. A questo albero della vita appartiene l’uomo; egli fa parte di questo cosmo della vita che comincia con un miracolo: nella materia inerte si sviluppa un centro vitale; la realtà che noi chiamiamo organismo......

Qui si può consultare il testo integrale dell'omelia
nella santa messa nel XXV anniversario del Centro internazionale giovanile San Lorenzo, chiesa di San Lorenzo “in piscibus”, Via Pfeiffer, Roma, V Domenica di Quaresima, 9 marzo 2008, dalla quale citiamo:


[...] Veniamo adesso al Vangelo di questo giorno dedicato ad un tema grande, fondamentale: che cosa è la vita? che cosa è la morte? come vivere? come morire? San Giovanni, per farci meglio capire questo mistero della vita e la risposta di Gesù, usa per questa unica realtà della vita due parole diverse, per indicare le diverse dimensioni di questa realtà “vita”: la parola bíos e la parola zoé. Bíos, come si capisce facilmente, significa questo grande biocosmo, questa biosfera che va dalle singole cellule primitive fino agli organismi più organizzati, più sviluppati; questo grande albero della vita, nel quale tutte le possibilità di questa realtà bíos si sono sviluppate. A questo albero della vita appartiene l’uomo; egli fa parte di questo cosmo della vita che comincia con un miracolo: nella materia inerte si sviluppa un centro vitale; la realtà che noi chiamiamo organismo.
Ma l’uomo, pur essendo parte di questo grande biocosmo, lo trascende perché è parte pure di quella realtà che san Giovanni chiama zoé. E’ un nuovo livello della vita, in cui l’essere si apre alla conoscenza. Certo, l’uomo è sempre uomo con tutta la sua dignità, anche se in stato di coma, anche se allo stadio di embrione, ma se egli vive solo biologicamente, non sono realizzate e sviluppate tutte le potenzialità del suo essere. L’uomo è chiamato ad aprirsi a nuove dimensioni. Egli è un essere che conosce. Certo anche gli animali conoscono, ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica. La conoscenza dell’uomo va oltre; egli vuol conoscere tutto, tutta la realtà, la realtà nella sua totalità; vuol sapere che cosa è questo suo essere e che cosa è il mondo. Ha sete di una conoscenza dell’infinito, vuole arrivare alla fonte della vita, vuole bere a questa fonte, trovare la vita stessa.

E abbiamo toccato così una seconda dimensione: l’uomo non è solo un essere che conosce; egli vive anche in relazione di amicizia, di amore. Oltre alla dimensione della conoscenza della verità e dell’essere, esiste, inseparabile da questa, la dimensione della relazione, dell’amore. E qui l’uomo si avvicina maggiormente alla fonte della vita, dalla quale vuol bere per avere la vita in abbondanza, per avere la vita stessa.


Potremmo dire che tutta la scienza è un’unica grande lotta per la vita; lo è soprattutto la medicina. In fin dei conti, la medicina è ricerca di contrapporsi alla morte, è ricerca dell’immortalità. Ma possiamo trovare la medicina che ci assicuri l’immortalità? E’ proprio questa la questione del Vangelo di oggi. Proviamo ad immaginare che la medicina arrivi a trovare la ricetta contro la morte, la ricetta dell’immortalità. Anche in quel caso, si tratterebbe pur sempre di una medicina che si collocherebbe entro la biosfera, una medicina certamente utile anche per la nostra vita spirituale e umana, ma di per sé una medicina confinata entro questa biosfera. E’ facile immaginare quel che succederebbe se la vita biologica dell’uomo fosse senza fine, fosse immortale: ci ritroveremmo in un mondo invecchiato, un mondo pieno di vecchi, un mondo che non lascerebbe più spazio ai giovani, al rinnovarsi della vita. Comprendiamo così che questo non può essere quel tipo di immortalità a cui aspiriamo; non è questa la possibilità di bere alla fonte della vita che noi tutti desideriamo.

Proprio a questo punto in cui, da una parte, capiamo di non poter sperare in un prolungamento infinito della vita biologica e tuttavia, dall’altra, desideriamo bere alla fonte stessa della vita per godere di una vita senza fine, proprio a questo punto interviene il Signore e ci parla nel Vangelo dicendo: “Io sono la Risurrezione e la Vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”. “Io sono la Risurrezione”: bere alla fonte della vita è entrare in comunione con questo amore infinito che è la fonte della vita. Incontrando Cristo, entriamo in contatto, anzi in comunione, con la vita stessa e abbiamo già attraversato la soglia della morte, perché siamo in contatto, al di là della vita biologica, con la vita vera.

I Padri della Chiesa hanno chiamato l’Eucaristia farmaco dell’immortalità. Ed è così, perché nell’Eucaristia entriamo in contatto, anzi in comunione, con il corpo risorto di Cristo, entriamo nello spazio della vita già risorta, della vita eterna. Entriamo in comunione con questo corpo che è animato dalla vita immortale e siamo così già da ora e per sempre nello spazio della vita stessa. E così questo Vangelo è anche una profonda interpretazione di che cos’è l’Eucaristia e ci invita a vivere realmente dell’Eucaristia per poter essere così trasformati nella comunione dell’amore. Questa è la vera vita. Il Signore nel Vangelo di Giovanni dice: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Vita in abbondanza non è, come alcuni pensano, consumare tutto, avere tutto, poter fare tutto ciò che si vuole. In quel caso vivremmo per le cose morte, vivremmo per la morte. Vita in abbondanza è essere in comunione con la vera vita, con l’amore infinito. E’ così che entriamo realmente nell’abbondanza della vita e diveniamo portatori della vita anche per gli altri.

I prigionieri di guerra che erano in Russia per dieci anni e più, esposti al freddo e alla fame, dopo essere ritornati hanno detto: “Potevo sopravvivere perché sapevo di essere aspettato. Sapevo che c’erano persone che mi aspettavano, che ero necessario e atteso”. Questo amore che li aspettava è stata l’efficace medicina della vita contro tutti i mali. In realtà, noi tutti siamo aspettati. Il Signore ci aspetta e non solo ci aspetta; è presente e ci tende la mano. Accettiamo la mano del Signore e preghiamolo di concederci di vivere realmente, di vivere l’abbondanza della vita e di poter così comunicare anche ai nostri contemporanei la vera vita, la vita in abbondanza. Amen


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Benedetto XVI: una società senza storia è più facilmente manipolabile dall'ideologia

A lato, la bolla giovannea di convocazione del Concilio Vaticano II : "... ad perpetuam rei memoriam ..."

Udienza ai membri del pontificio comitato di scienze storiche, Sala dei Papi, venerdì, 7 marzo 2008

Reverendo Monsignore,
Illustri Signori, gentili Signore!
Sono lieto di rivolgerVi una speciale parola di saluto e di apprezzamento per il lavoro che svolgete in un campo di grande interesse per la vita della Chiesa. Mi congratulo col vostro Presidente e con ciascuno di voi per il cammino fatto in questi anni.

Come voi ben sapete, fu Leone XIII che, di fronte a una storiografia orientata dallo spirito del suo tempo e ostile alla Chiesa, pronunciò la nota frase: "Non abbiamo paura della pubblicità dei documenti" e rese accessibile alla ricerca l'archivio della Santa Sede. Al contempo, creò quella commissione di Cardinali per la promozione degli studi storici, che voi, professoresse e professori, potete considerare come antenata del Pontifico Comitato di Scienze Storiche, di cui siete membri. Leone XIII era convinto del fatto che lo studio e la descrizione della storia autentica della Chiesa non potessero che rivelarsi favorevoli ad essa.

Da allora il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia ostile al cristianesimo e alla Chiesa. Oggi è la storiografia stessa ad attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambe queste ideologie hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, animato da spettacolari scoperte e successi tecnici, malgrado le disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. A ciò è legata ancora l'utopia di un paradiso sulla terra, a dispetto del fatto che tale utopia si sia dimostrata fallace.

Tipico di questa mentalità è il disinteresse per la storia, che si traduce nell’emarginazione delle scienze storiche. Dove sono attive queste forze ideologiche, la ricerca storica e l’insegnamento della storia all'università e nelle scuole di ogni livello e grado vengono trascurati. Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica.

Il pericolo cresce in misura sempre maggiore a causa dell’eccessiva enfasi data alla storia contemporanea, soprattutto quando le ricerche in questo settore sono condizionate da una metodologia ispirata al positivismo e alla sociologia. Vengono ignorati, altresì, importanti ambiti della realtà storica, perfino intere epoche. Ad esempio, in molti piani di studio l’insegnamento della storia inizia solamente a partire dagli eventi della Rivoluzione Francese. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. Non è chi non veda la gravità di una simile conseguenza: come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la società nel suo complesso.

E’ evidente come tale oblío storico comporti un pericolo per l’integrità della natura umana in tutte le sue dimensioni. La Chiesa, chiamata da Dio Creatore ad adempiere al dovere di difendere l’uomo e la sua umanità, ha a cuore una cultura storica autentica, un effettivo progresso delle scienze storiche. La ricerca storica ad alto livello rientra infatti anche in senso più stretto nello specifico interesse della Chiesa. Pur quando non riguarda la storia propriamente ecclesiastica, l’analisi storica concorre comunque alla descrizione di quello spazio vitale in cui la Chiesa ha svolto e svolge la sua missione attraverso i secoli. Indubbiamente la vita e l’azione ecclesiali sono sempre state determinate, facilitate o rese più difficili dai diversi contesti storici. La Chiesa non è di questo mondo ma vive in esso e per esso.

Se ora prendiamo in considerazione la storia ecclesiastica dal punto di vista teologico, rileviamo un altro aspetto importante. Suo compito essenziale si rivela infatti la complessa missione di indagare e chiarire quel processo di ricezione e di trasmissione, di paralépsis e di paràdosis, attraverso il quale si è sostanziata, nel corso dei secoli, la ragione d’essere della Chiesa. E’ indubbio infatti che la Chiesa possa trarre ispirazione nelle sue scelte attingendo al suo plurisecolare tesoro di esperienze e di memorie.

Desidero dunque, illustri Membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, incoraggiarVi di tutto cuore a impegnarVi come avete finora fatto al servizio della Santa Sede per il raggiungimento di questi obiettivi, mantenendo il Vostro diuturno e meritorio impegno nella ricerca e nell’insegnamento. Mi auguro che, in sinergia con l’attività di altri, seri e autorevoli colleghi, possiate riuscire a perseguire con efficacia i pur ardui obiettivi che Vi siete proposti e a operare per una sempre più autentica scienza storica.

Con questi sentimenti ed assicurando un ricordo per Voi e per il Vostro delicato impegno nella mia preghiera, a tutti imparto una speciale Benedizione Apostolica.

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Benedetto XVI, Gesù che dice: il nostro amico dorme, ma io vado a svegliarlo

A lato, Giotto, la resurrezione di Lazzaro nella Cappella degli Scrovegni. By courtesy of christusrex.org

Angelus, Piazza San Pietro, V domenica di Quaresima, 9 marzo 2008

Cari fratelli e sorelle,

nel nostro itinerario quaresimale siamo giunti alla Quinta Domenica, caratterizzata dal Vangelo della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-45). Si tratta dell’ultimo grande "segno" compiuto da Gesù, dopo il quale i sommi sacerdoti riunirono il Sinedrio e deliberarono di ucciderlo; e decisero di uccidere anche lo stesso Lazzaro, che era la prova vivente della divinità di Cristo, Signore della vita e della morte. In realtà, questa pagina evangelica mostra Gesù quale vero Uomo e vero Dio. Anzitutto l’evangelista insiste sulla sua amicizia con Lazzaro e le sorelle Marta e Maria. Egli sottolinea che a loro "Gesù voleva molto bene" (Gv 11,5), e per questo volle compiere il grande prodigio. "Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo" (Gv 11,11) – così parlò ai discepoli, esprimendo con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede appunto come un sonno, da cui ci può risvegliare. Gesù ha dimostrato un potere assoluto nei confronti di questa morte: lo si vede quando ridona la vita al giovane figlio della vedova di Nain (cfr Lc 7,11-17) e alla fanciulla di dodici anni (cfr Mc 5,35-43). Proprio di lei disse: "Non è morta, ma dorme" (Mc 5,39), attirandosi la derisione dei presenti. Ma in verità è proprio così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento.

Questa signoria sulla morte non impedì a Gesù di provare sincera compassione per il dolore del distacco. Vedendo piangere Marta e Maria e quanti erano venuti a consolarle, anche Gesù "si commosse profondamente, si turbò" e infine "scoppiò in pianto" (Gv 11,33.35). Il cuore di Cristo è divino-umano: in Lui Dio e Uomo si sono perfettamente incontrati, senza separazione e senza confusione. Egli è l’immagine, anzi, l’incarnazione del Dio che è amore, misericordia, tenerezza paterna e materna, del Dio che è Vita. Perciò dichiarò solennemente a Marta: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno". E aggiunse: "Credi tu questo?" (Gv 11,25-26). Una domanda che Gesù rivolge ad ognuno di noi; una domanda che certamente ci supera, supera la nostra capacità di comprendere, e ci chiede di affidarci a Lui, come Lui si è affidato al Padre. Esemplare è la risposta di Marta: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo" (Gv 11,27). Sì, o Signore! Anche noi crediamo, malgrado i nostri dubbi e le nostre oscurità; crediamo in Te, perché Tu hai parole di vita eterna; vogliamo credere in Te, che ci doni una speranza affidabile di vita oltre la vita, di vita autentica e piena nel tuo Regno di luce e di pace.

Affidiamo questa preghiera a Maria Santissima. Possa la sua intercessione rafforzare la nostra fede e la nostra speranza in Gesù, specialmente nei momenti di maggiore prova e difficoltà.


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Dopo L'Angelus:

Nei giorni scorsi, la violenza e l’orrore hanno nuovamente insanguinato la Terra Santa, alimentando una spirale di distruzione e di morte che sembra non avere fine. Mentre vi invito a domandare con insistenza al Signore Onnipotente il dono della pace per quella regione, desidero affidare alla Sua misericordia le tante vittime innocenti ed esprimere solidarietà alle famiglie e ai feriti.
Incoraggio, inoltre, le Autorità israeliane e palestinesi nel loro proposito di continuare a costruire, attraverso il negoziato, un futuro pacifico e giusto per i loro popoli e a tutti chiedo, in nome di Dio, di lasciare le vie tortuose dell’odio e della vendetta e di percorrere responsabilmente cammini di dialogo e di fiducia.

È questo il mio auspicio anche per l’Iraq, mentre trepidiamo ancora per la sorte di Sua Eccellenza Mons. Rahho e di tanti iracheni che continuano a subire una violenza cieca ed assurda, certamente contraria ai voleri di Dio.

Giovedì prossimo, 13 marzo, alle ore 17,30, presiederò nella Basilica di San Pietro una Liturgia Penitenziale per i giovani della Diocesi di Roma. Sarà un momento forte di preparazione alla XXIII Giornata Mondiale della Gioventù, che celebreremo la Domenica delle Palme e che culminerà nel luglio prossimo con il grande incontro di Sydney. Cari giovani di Roma, vi invito tutti a questo appuntamento con la Misericordia di Dio! Ai sacerdoti e ai responsabili raccomando di favorire la partecipazione dei giovani facendo proprie le parole dell’apostolo Paolo: "Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo: … lasciatevi riconciliare con Dio" (2 Cor 5,20).


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mercoledì 5 marzo 2008
Benedetto XVI: don Bosco e il suo "Da mihi animas, cetera tolle"

Messaggio del Papa per il 26° Capitolo Generale dei Salesiani

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 3 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il messaggio che Benedetto XVI ha inviato al Rettore Maggiore dei Salesiani di Don Bosco, don Pascual Chavez Villanueva, in occasione del 26° Capitolo Generale della Congregazione, che inizia questo lunedì.



* * *


Al Reverendissimo Signore

Don Pascual Chávez Villanueva, S.D.B.

Rettore Maggiore dei Salesiani di Don Bosco

1. Mi è particolarmente gradito far giungere il mio cordiale saluto a Lei e ai partecipanti al XXVI Capitolo Generale, che costituisce un momento di grazia nella vita di codesta Congregazione presente ormai in tutti i continenti. In esso sono chiamate a confrontarsi la ricchezza e la diversità delle esperienze, delle culture, delle attese dei Salesiani, impegnati in molteplici attività apostoliche e desiderosi di rendere sempre più efficace il loro servizio nella Chiesa. Il carisma di Don Bosco è un dono dello Spirito per l’intero Popolo di Dio, ma solo nell’ascolto docile e nella disponibilità all’azione divina è possibile interpretarlo e renderlo, anche in questo nostro tempo, attuale e fecondo. Lo Spirito Santo, che a Pentecoste scese con abbondanza sulla Chiesa nascente, continua come vento a soffiare dove vuole, come fuoco a sciogliere il ghiaccio dell’egoismo, come acqua a irrigare ciò che è arido. Riversando sui Capitolari l’abbondanza dei suoi doni, Egli raggiungerà il cuore dei Confratelli, li farà ardere del suo amore, li infiammerà del desiderio di santità, li spingerà ad aprirsi alla conversione e li rafforzerà nella loro audacia apostolica.

2. I figli di don Bosco appartengono alla folta schiera di quei discepoli che Cristo ha consacrato a sé per mezzo del suo Spirito con uno speciale atto di amore. Egli li ha riservati per sé; per questo il primato di Dio e della sua iniziativa deve risplendere nella loro testimonianza. Quando si rinuncia a tutto per seguire il Signore, quando Gli si dà ciò che si ha di più caro affrontando ogni sacrificio, allora non deve sorprendere se, come è avvenuto per il divin Maestro, si diventa "segno di contraddizione", perché il modo di pensare e di vivere della persona consacrata finisce per trovarsi spesso in contrasto con la logica del mondo. In realtà, ciò è motivo di conforto perché testimonia che il suo stile di vita è alternativo rispetto alla cultura del tempo e può svolgere in essa una funzione in qualche modo profetica. E’ necessario però, a questo fine, vigilare sui possibili influssi del secolarismo per difendersi e potere così proseguire sulla strada intrapresa con determinazione, superando un "modello liberale" di Vita consacrata e conducendo un’esistenza tutta centrata sul primato dell’amore di Dio e del prossimo.

3. Il tema scelto per questo Capitolo Generale è lo stesso programma di vita spirituale e apostolica fatto proprio da Don Bosco: "Da mihi animas, cetera tolle". In esso è racchiusa tutta la personalità del grande Santo: una profonda spiritualità, l’intraprendenza creativa, il dinamismo apostolico, la laboriosità instancabile, l’audacia pastorale e soprattutto il suo consacrarsi senza riserve a Dio e ai giovani. Egli fu un santo di una sola passione: "la gloria di Dio e la salvezza delle anime".
E’ di vitale importanza che ogni salesiano tragga continuamente ispirazione da Don Bosco: lo conosca, lo studi, lo ami, lo imiti, lo invochi, faccia propria la sua stessa passione apostolica, che sgorga dal cuore di Cristo. Tale passione è capacità di donarsi, di appassionarsi per le anime, di patire per amore, di accettare con serenità e gioia le esigenze quotidiane e le rinunce della vita apostolica.
Il motto "Da mihi animas, cetera tolle" esprime in sintesi la mistica e l’ascetica del salesiano. Non vi può essere un’ardente mistica senza una robusta ascesi che la sostenga; e viceversa nessuno è disponibile a pagare un prezzo alto ed esigente, se non ha scoperto un tesoro affascinante e inestimabile. In un tempo di frammentazione e di fragilità qual è il nostro, è necessario superare la dispersione dell’attivismo e coltivare l’unità della vita spirituale attraverso l’acquisizione di una profonda mistica e di una solida ascetica. Ciò alimenta l’impegno apostolico ed è garanzia di efficacia pastorale. In questo deve consistere il cammino di santità di ogni Salesiano, su questo deve concentrarsi la formazione delle nuove vocazioni alla vita consacrata salesiana. La lectio divina e l’Eucaristia, vissute quotidianamente, sono luce e forza della vita spirituale del salesiano consacrato. Egli deve nutrire la sua giornata di ascolto e di meditazione della Parola di Dio, aiutando anche i giovani e i fedeli laici a valorizzarla nella loro vita quotidiana e sforzandosi poi di tradurre in testimonianza quanto la Parola indica. "L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione" (Enc. Deus caritas est, 13). Condurre una vita semplice, povera, sobria, essenziale e austera: questo aiuterà i Salesiani ad irrobustire la loro risposta vocazionale, di fronte ai rischi e alle minacce della mediocrità e dell’imborghesimento, questo li porterà ad essere più vicini ai bisognosi e agli emarginati.

4. Sull’esempio del loro amato Fondatore, i Salesiani devono essere bruciati dalla passione apostolica. La Chiesa universale e le Chiese particolari in cui sono inseriti attendono da loro una presenza caratterizzata da slancio pastorale e da un audace zelo evangelizzatore. Le Esortazioni apostoliche post-sinodali riguardanti l’evangelizzazione nei vari continenti, potranno essere loro di stimolo e di orientamento per realizzare nei diversi contesti una evangelizzazione inculturata. La recente Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione può aiutarli ad approfondire come comunicare a tutti, specialmente ai giovani più poveri, la ricchezza dei doni del Vangelo. L’evangelizzazione sia la principale e prioritaria frontiera della loro missione oggi. Essa presenta impegni molteplici, sfide urgenti, campi di azione vasti, ma suo compito fondamentale risulta quello di proporre a tutti di vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù. Nelle situazioni plurireligiose ed in quelle secolarizzate occorre trovare vie inedite per far conoscere, specialmente ai giovani, la figura di Gesù, affinché ne percepiscano il perenne fascino. Centrale pertanto deve essere nella loro azione apostolica l’annuncio di Gesù Cristo e del suo Vangelo, insieme con l’appello alla conversione, all’accoglienza della fede e all’inserimento nella Chiesa; da qui poi nascono i cammini di fede e di catechesi, la vita liturgica, la testimonianza della carità operosa. Il loro carisma li pone nella situazione privilegiata di poter valorizzare l’apporto dell’educazione nel campo dell’evangelizzazione dei giovani. Senza educazione, in effetti, non c’è evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura. I giovani nutrono desideri profondi di vita piena, di amore autentico, di libertà costruttiva; ma spesso purtroppo le loro attese sono tradite e non giungono a realizzazione. E’ indispensabile aiutare i giovani a valorizzare le risorse che portano dentro come dinamismo e desiderio positivo; metterli a contatto con proposte ricche di umanità e di valori evangelici; spingerli ad inserirsi nella società come parte attiva attraverso il lavoro, la partecipazione e l’impegno per il bene comune. Ciò richiede a chi li guida di allargare gli ambiti dell’impegno educativo con attenzione alle nuove povertà giovanili, all’educazione superiore, all’immigrazione; richiede inoltre di avere attenzione alla famiglia e al suo coinvolgimento. Su questo aspetto così importante mi sono soffermato nella Lettera sull’urgenza educativa, che ho recentemente indirizzato ai fedeli di Roma, e che ora idealmente consegno a tutti i Salesiani.

5. Fin dall’origine la Congregazione salesiana si è impegnata nell’evangelizzazione in diverse parti del mondo: dalla Patagonia e dall’America Latina, all’Asia e all’Oceania, all’Africa e al Madagascar. In un momento in cui in Europa le vocazioni diminuiscono e le sfide dell’evangelizzazione crescono, la Congregazione salesiana deve essere attenta a rafforzare la proposta cristiana, la presenza della Chiesa e il carisma di Don Bosco in questo continente. Come l’Europa è stata generosa con l’invio di numerosi missionari in tutto il mondo, così ora tutta la Congregazione, facendo appello specialmente alle Regioni ricche di vocazioni, sia disponibile nei suoi confronti. Per prolungare nel tempo la missione tra i giovani, lo Spirito Santo ha guidato Don Bosco a dar vita a varie forze apostoliche animate dal medesimo spirito e accomunate dallo stesso impegno. I compiti dell’evangelizzazione e dell’educazione richiedono infatti numerosi apporti, che sappiano operare in sinergia; per questo i Salesiani hanno coinvolto in tale opera numerosi laici, le famiglie e i giovani stessi, suscitando tra loro vocazioni apostoliche che mantengano vivo e fecondo il carisma di Don Bosco. Occorre proporre a questi giovani il fascino della vita consacrata, la radicalità della sequela di Cristo obbediente, povero e casto, il primato di Dio e dello Spirito, la vita fraterna in comunità, lo spendersi totalmente per la missione. I giovani sono sensibili a proposte di impegno esigente, ma hanno bisogno di testimoni e guide che sappiano accompagnarli nella scoperta e nell’accoglienza di tale dono. In questo contesto so che la Congregazione sta dedicando speciale attenzione alla vocazione del salesiano coadiutore, senza la quale essa perderebbe la fisionomia che Don Bosco volle darle. Certo, è una vocazione non facile da discernere e da accogliere; essa sboccia più facilmente laddove sono promosse tra i giovani le vocazioni laicali apostoliche e viene loro offerta una gioiosa ed entusiastica testimonianza della consacrazione religiosa. L’esempio e l’intercessione del Beato Artemide Zatti e di altri venerati fratelli coadiutori, che hanno speso la loro esistenza per il Regno di Dio, ottengano anche oggi alla Famiglia salesiana il dono di tali vocazioni.

6. Colgo volentieri quest’occasione per rivolgere un ringraziamento particolare alla Congregazione salesiana per il lavoro di ricerca e di formazione che svolge nell’Università Pontificia Salesiana, dove si sono formati e sono stati docenti anche alcuni tra i miei attuali più stretti e stimati collaboratori. Essa ha un’identità che le viene dal carisma di Don Bosco ed offre a tutta la Chiesa un contributo originale e specifico. Unica tra le Università Pontificie, ha una Facoltà di Scienze dell’Educazione ed un Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica, sostenuti dagli apporti di altre Facoltà. In vista di uno studio che si avvalga della diversità delle culture e sia attento alla molteplicità dei contesti, è auspicabile che si incrementi in essa la presenza di docenti provenienti da tutta la Congregazione. Nell’emergenza educativa che esiste in numerose parti del mondo, la Chiesa ha bisogno del contributo di studiosi che approfondiscano la metodologia dei processi pedagogici e formativi, l’evangelizzazione dei giovani, la loro educazione morale, elaborando insieme risposte alle sfide della postmodernità, dell’interculturalità e della comunicazione sociale e cercando nel contempo di venire in aiuto alle famiglie. Il sistema preventivo di Don Bosco e la tradizione educativa salesiana spingeranno sicuramente la Congregazione a proporre una pedagogia cristiana attuale, ispirata allo specifico carisma che le è proprio. L’educazione costituisce uno dei punti nodali della questione antropologica odierna, alla cui soluzione l’Università Pontificia Salesiana non mancherà, ne sono sicuro, di offrire un prezioso contributo.

8. Signor Rettore Maggiore, il compito che sta davanti alla Congregazione Salesiana è arduo, ma anche esaltante: ogni membro della vostra grande Famiglia religiosa è infatti chiamato a rendere presente don Bosco tra i giovani del nostro tempo. Nel 2015 celebrerete il bicentenario della sua nascita e con le scelte che opererete in questo Capitolo Generale, voi iniziate già la preparazione delle celebrazioni di tale importante evento giubilare. Ciò vi sia di sprone ad essere sempre più "segni credibili dell’amore di Dio ai giovani" e a far sì che i giovani siano davvero speranza della Chiesa e della società. La Vergine Maria, che Don Bosco vi ha insegnato ad invocare come Madre della Chiesa ed Ausiliatrice dei cristiani, vi sostenga nei vostri propositi. "E’ Lei che ha fatto tutto", ripeteva Don Bosco al termine della sua vita, riferendosi a Maria. Sarà dunque ancora Lei ad essere la vostra guida e maestra. Vi aiuterà a comunicare "il carisma di Don Bosco". Sarà per la vostra Congregazione e per l’intera Famiglia salesiana, per gli educatori e soprattutto per i giovani, Madre e Stella della speranza. Nel porgere alla vostra attenzione queste mie riflessioni, vi rinnovo l’espressione della mia gratitudine per il servizio che rendete alla Chiesa, e, mentre vi assicuro la mia costante preghiera, imparto di cuore a Lei, Rettore Maggiore, ai partecipanti all’Assemblea capitolare e all’intera Famiglia salesiana una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 1 Marzo 2008

BENEDICTUS PP. XVI

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Il Concilio di Calcedonia: “Pietro ha parlato per bocca di Leone”

A lato, cartina di Costantinopoli. In basso a destra, una piccola penisola sul mar di Marmara, di fronte al Corno d'Oro, è Calcedonia.
By courtesy of wikipedia.

Udienza generale, Aula Paolo VI, mercoledì, 5 marzo 2008





San Leone Magno
Cari fratelli e sorelle,

proseguendo il nostro cammino tra i Padri della Chiesa, veri astri che brillano da lontano, nel nostro incontro di oggi ci accostiamo alla figura di un Papa, che nel 1754 fu proclamato da Benedetto XIV Dottore della Chiesa: si tratta di san Leone Magno. Come indica l’appellativo presto attribuitogli dalla tradizione, egli fu davvero uno dei più grandi Pontefici che abbiano onorato la Sede romana, contribuendo moltissimo a rafforzarne l’autorità e il prestigio. Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo.

Leone era originario della Tuscia. Divenne diacono della Chiesa di Roma intorno all’anno 430, e col tempo acquistò in essa una posizione di grande rilievo. Questo ruolo di spicco indusse nel 440 Galla Placidia, che in quel momento reggeva l’Impero d’Occidente, a inviarlo in Gallia per sanare una difficile situazione. Ma nell’estate di quell’anno il Papa Sisto III – il cui nome è legato ai magnifici mosaici di Santa Maria Maggiore – morì, e a succedergli fu eletto proprio Leone, che ne ricevette la notizia mentre stava appunto svolgendo la sua missione di pace in Gallia. Rientrato a Roma, il nuovo Papa fu consacrato il 29 settembre del 440. Iniziava così il suo pontificato, che durò oltre ventun anni, e che è stato senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa. Alla sua morte, il 10 novembre del 461, il Papa fu sepolto presso la tomba di san Pietro. Le sue reliquie sono custodite anche oggi in uno degli altari della Basilica vaticana.

Quelli in cui visse Papa Leone erano tempi molto difficili: il ripetersi delle invasioni barbariche, il progressivo indebolirsi in Occidente dell’autorità imperiale e una lunga crisi sociale avevano imposto al Vescovo di Roma – come sarebbe accaduto con evidenza ancora maggiore un secolo e mezzo più tardi, durante il pontificato di Gregorio Magno – di assumere un ruolo rilevante anche nelle vicende civili e politiche. Ciò non mancò, ovviamente, di accrescere l’importanza e il prestigio della Sede romana. Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di Leone. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice. Non altrettanto positivo fu purtroppo, tre anni dopo, l’esito di un’altra iniziativa papale, segno comunque di un coraggio che ancora ci stupisce: nella primavera del 455 Leone non riuscì infatti a impedire che i Vandali di Genserico, giunti alle porte di Roma, invadessero la città indifesa, che fu saccheggiata per due settimane. Tuttavia il gesto del Papa – che, inerme e circondato dal suo clero, andò incontro all’invasore per scongiurarlo di fermarsi – impedì almeno che Roma fosse incendiata e ottenne che dal terribile sacco fossero risparmiate le Basiliche di San Pietro, di San Paolo e di San Giovanni, nelle quali si rifugiò parte della popolazione terrorizzata.

Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni – ne sono conservati quasi cento in uno splendido e chiaro latino – e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia.

Tenutosi nell’anno 451, con i trecentocinquanta Vescovi che vi parteciparono, questo Concilio fu la più importante assemblea fino ad allora celebrata nella storia della Chiesa. Calcedonia rappresenta il traguardo sicuro della cristologia dei tre Concili ecumenici precedenti: quello di Nicea del 325, quello di Costantinopoli del 381 e quello di Efeso del 431. Già nel VI secolo questi quattro Concili, che riassumono la fede della Chiesa antica, vennero infatti paragonati ai quattro Vangeli: è quanto afferma Gregorio Magno in una famosa lettera (I,24), in cui dichiara “di accogliere e venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, i quattro Concili”, perché su di essi - spiega ancora Gregorio - “come su una pietra quadrata si leva la struttura della santa fede”. Il Concilio di Calcedonia – nel respingere l’eresia di Eutiche, che negava la vera natura umana del Figlio di Dio – affermò l’unione nella sua unica Persona, senza confusione e senza separazione, delle due nature umana e divina.

Questa fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo veniva affermata dal Papa in un importante testo dottrinale indirizzato al Vescovo di Costantinopoli, il cosiddetto Tomo a Flaviano, che, letto a Calcedonia, fu accolto dai Vescovi presenti con un’eloquente acclamazione, della quale è conservata notizia negli atti del Concilio: “Pietro ha parlato per bocca di Leone”, proruppero a una voce sola i Padri conciliari. Soprattutto da questo intervento, e da altri compiuti durante la controversia cristologica di quegli anni, risulta con evidenza come il Papa avvertisse con particolare urgenza le responsabilità del Successore di Pietro, il cui ruolo è unico nella Chiesa, perché “a un solo apostolo è affidato ciò che a tutti gli apostoli è comunicato”, come afferma Leone in uno dei suoi sermoni per la festa dei santi Pietro e Paolo (83,2). E queste responsabilità il Pontefice seppe esercitare, in Occidente come in Oriente, intervenendo in diverse circostanze con prudenza, fermezza e lucidità attraverso i suoi scritti e mediante i suoi legati. Mostrava in questo modo come l’esercizio del primato romano fosse necessario allora, come lo è oggi, per servire efficacemente la comunione, caratteristica dell’unica Chiesa di Cristo.

Consapevole del momento storico in cui viveva e del passaggio che stava avvenendo – in un periodo di profonda crisi – dalla Roma pagana a quella cristiana, Leone Magno seppe essere vicino al popolo e ai fedeli con l’azione pastorale e la predicazione. Animò la carità in una Roma provata dalle carestie, dall’afflusso dei profughi, dalle ingiustizie e dalla povertà. Contrastò le superstizioni pagane e l’azione dei gruppi manichei. Legò la liturgia alla vita quotidiana dei cristiani: per esempio, unendo la pratica del digiuno alla carità e all’elemosina soprattutto in occasione delle Quattro tempora, che segnano nel corso dell’anno il cambiamento delle stagioni. In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno “non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente”. Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.

È questo il mistero cristologico al quale san Leone Magno, con la sua lettera al Concilio di Efeso, ha dato un contributo efficace ed essenziale, confermando per tutti i tempi — tramite tale Concilio — quanto disse san Pietro a Cesarea di Filippo. Con Pietro e come Pietro confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E perciò Dio e Uomo inisieme, “non estraneo al genere umano, ma alieno dal peccato” (cfr Serm. 64). Nella forza di questa fede cristologica egli fu un grande portatore di pace e di amore. Ci mostra così la via: nella fede impariamo la carità. Impariamo quindi con san Leone Magno a credere in Cristo, vero Dio e vero Uomo, e a realizzare questa fede ogni giorno nell'azione per la pace e nell'amore per il prossimo.


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martedì 4 marzo 2008
Mons Crepaldi afferma che bisogna dialogare al rialzo.

Dall'Osservatorio internazionale Van Thuan riceviamo e volentieri pubblichiamo la presa di posizione del suo presidente, Mons. Giampaolo Crepaldi, che è anche segretario del Consiglio pontificio Iustitia et Pax.

Sostiene che principi "non negoziabili" significa che non bisogna negoziarli affatto e lo scrive sul Foglio.
A noi pare però che la non negoziabilità riguardi la decisione con cui, in particolare i cristiani. dovrebber sostenerli e non invece la logica a muso duro con cui vanno proposti a una società come quella con cui ci troviamo confrontati...

La intendiamo come una sollecitazione a prendere sul serio la tematica che la lista pazza di Giuliano Ferrara incarna anche nei partitoni di Veltroni e di Berlusconi, i quali adottano invece come posizione fissa l'equidistanza.

Su vita e morte il compromesso non c´è. Il discorso pubblico deve alzarsi di livello. Laici e cattolici definiscano forme nuove di iniziativa pubblica.
Questo il messaggio centrale di una Dichiarazione di Mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente del nostro Osservatorio pubblicata il 5 marzo dal quotidiano italiano Il Foglio a pag. I. Ecco il testo della Dichiarazione.

Nella campagna elettorale in corso in Italia è puntualmente riemersa la questione dei cattolici e dei laici. E purtroppo sembrano ancora prevalere visioni superate, che interpretano questo incontro politico tra laici e cattolici come un compromesso al ribasso, nel quale gli uni e gli altri debbano rinunciare a qualcosa. Davanti ai problemi cosiddetti etici, si dice, si dovrà discutere e trovare un punto di equilibrio.

Solo che non si capisce in cosa possa consistere il compromesso davanti a problemi che riguardano la vita e la morte. Ci si metterà d’accordo sul numero di embrioni da sacrificare? Si troverà un compromesso sul numero di settimane entro cui si potrà abortire? O si eliminano i 10 comandamenti in politica e allora laici e cattolici non dialogano più, ma non per motivi di fede, bensì perché sono venute meno le basi razionali del confronto, oppure si prende atto che esiste una legge morale naturale (i 10 comandamenti appunto) che ci dà anche dei precetti assolutamente negativi, ossia da non fare mai e in nessuna situazione, come per esempio: non uccidere.

Ora, su questi in cosa consisterebbe il confronto e il compromesso? Neanche l’argomento della distinzione tra etica e politica ha in questo caso un significato, perché esso non può valere per gli atti intrinsecamente negativi. Bisognerebbe porre maggiore attenzione ad un fatto nuovo di ampia portata politica: la nascita di nuovi laici e nuovi cattolici che vogliono dialogare e intendersi non al ribasso ma al rialzo, non per mediare ma per fare proposte culturali positive alla società, non per trovare il compromesso e adattarsi a quanto avviene ma con il coraggio della ragione e della fede che si sanno incontrare per proporre cosa dovrebbe avvenire.

Questi nuovi laici chiedono ai cattolici di essere pienamente se stessi, questi nuovi cattolici chiedono ai laici di “aprire la ragione”e nessuno chiede all’altro di scendere a compromessi. Ha detto Benedetto XVI che democrazia non è sinonimo di compromesso e il bene comune non è il minor male possibile. E’ confronto di idee, è lotta culturale. Il suo sale è la capacità di proporre coraggiosi scenari non solo sulla riduzione dell’Ici, ma anche sulla difesa della vita, sui limiti della tecnica e su cosa proponiamo alle giovani generazioni: proponiamo loro di fare quello che già fanno o qualcosa di diverso e di più? “I temi etici non dovrebbero entrare in campagna elettorale?” – si dice. E perché mai? “Perché dividono laici e cattolici”. Ma laici e cattolici sono divisi dall’indifferenza reciproca che nasce dall’idea di essere disposti già fin da subito al compromesso al ribasso come destino. I problemi politici di oggi sono inediti.

Il papa ci ha ricordato che con l’inseminazione artificiale abbiamo superato la soglia della legge morale naturale. Vogliamo vivere senza questo orizzonte di valori e indicazioni? Vogliamo vivere anche senza i 10 comandamenti perché sarebbe integralismo proporli culturalmente e politicamente? Come ostacoleremo lo “spirito di tecnicità” che mira a fare dell’uomo (e della società) un prodotto?

Alleando ragione e fede in una grande battaglia per l’uomo, oppure tenendo la fede nella propria coscienza perché con i “valori degli altri” si deve giungere a compromesso? Ma i valori degli altri li rispetto veramente quando coraggiosamente mi confronto con essi nel dialogo razionale, non quando metto da parte i miei per incontrare i loro ad un livello più basso. Con la prospettiva di un compromesso al ribasso, il significato politico dei “valori non negoziabili” di cui ci ha parlato Benedetto XVI viene perduto. Con la prospettiva di un dialogo al rialzo esso appare in tutta la sua freschezza e novità.

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lunedì 3 marzo 2008
Benedetto: la nuova creazione, il vescovo caldeo di Mossul, Gaza e i bambini

A lato, Andrea Pisano, la creazione

Angelus, Piazza San Pietro, IV Domenica di Quaresima, 2 marzo 2008

Cari fratelli e sorelle,

in queste domeniche di Quaresima, attraverso i testi del Vangelo di Giovanni, la liturgia ci fa percorrere un vero e proprio itinerario battesimale: domenica scorsa, Gesù ha promesso alla Samaritana il dono dell’"acqua viva"; oggi, guarendo il cieco nato si rivela come "la luce del mondo"; domenica prossima, risuscitando l’amico Lazzaro, si presenterà come "la risurrezione e la vita". Acqua, luce, vita: sono simboli del Battesimo, sacramento che "immerge" i credenti nel mistero della morte e resurrezione di Cristo, liberandoli dalla schiavitù del peccato e donando loro la vita eterna.

Soffermiamoci brevemente sul racconto del cieco nato (Gv 9,1-41). I discepoli, secondo la mentalità comune del tempo, danno per scontato che la sua cecità sia conseguenza di un peccato suo o dei suoi genitori. Gesù invece respinge questo pregiudizio e afferma: "Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio" (Gv 9,3). Quale conforto ci offrono queste parole! Esse ci fanno sentire la viva voce di Dio, che è Amore provvido e sapiente! Di fronte all’uomo segnato dal limite e dalla sofferenza, Gesù non pensa ad eventuali colpe, ma alla volontà di Dio che ha creato l’uomo per la vita. E perciò dichiara solennemente: "Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato… Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo" (Gv 9,5). E subito passa all’azione: con un po’ di terra e di saliva fa del fango e lo spalma sugli occhi del cieco. Questo gesto allude alla creazione dell’uomo, che la Bibbia racconta con il simbolo della terra plasmata e animata dal soffio di Dio (cfr Gn 2,7). "Adamo" infatti significa "suolo", e il corpo umano in effetti è composto di elementi della terra. Guarendo l’uomo, Gesù opera una nuova creazione. Ma quella guarigione suscita un’accesa discussione, perché Gesù la compie di sabato, trasgredendo, secondo i farisei, il precetto festivo. Così, alla fine del racconto, Gesù e il cieco si ritrovano entrambi "cacciati fuori" dai farisei: uno perché ha violato la legge e l’altro perché, malgrado la guarigione, rimane marchiato come peccatore dalla nascita.

Al cieco guarito Gesù rivela che è venuto nel mondo per operare un giudizio, per separare i ciechi guaribili da quelli che non si lasciano guarire, perché presumono di essere sani. E’ forte infatti nell’uomo la tentazione di costruirsi un sistema di sicurezza ideologico: anche la stessa religione può diventare elemento di questo sistema, come pure l’ateismo, o il laicismo, ma così facendo si resta accecati dal proprio egoismo. Cari fratelli, lasciamoci guarire da Gesù, che può e vuole donarci la luce di Dio! Confessiamo le nostre cecità, le nostre miopie, e soprattutto quello che la Bibbia chiama il "grande peccato" (cfr Sal 18,14): l’orgoglio. Ci aiuti in questo Maria Santissima, che generando Cristo nella carne ha dato al mondo la vera luce.


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Dopo L'Angelus:

Con profonda tristezza seguo la drammatica vicenda del rapimento di Mons. Paulos Faraj Rahho, arcivescovo di Mossul dei Caldei, in Iraq (a lato nella foto che dobbiamo a Asianews). Mi unisco all’appello del Patriarca, il Cardinale Emmanuel III Delly, e dei suoi collaboratori, affinché il caro Presule, oltretutto in precarie condizioni di salute, sia prontamente liberato. Elevo, in pari tempo, la mia preghiera di suffragio per le anime dei tre giovani uccisi, che erano con lui al momento del rapimento. Esprimo, inoltre, la mia vicinanza a tutta la Chiesa in Iraq ed in particolare alla Chiesa caldea, ancora una volta duramente colpite, mentre incoraggio i Pastori e i fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza. Si moltiplichino gli sforzi di quanti reggono le sorti del caro popolo iracheno, affinché grazie all’impegno e alla saggezza di tutti ritrovi pace e sicurezza, e non venga ad esso negato il futuro a cui ha diritto.
Purtroppo in questi ultimi giorni la tensione tra Israele e la Striscia di Gaza ha raggiunto livelli assai gravi. Rinnovo il mio pressante invito alle Autorità, sia israeliane che palestinesi, perché si fermi questa spirale di violenza, unilateralmente, senza condizioni: solo mostrando un rispetto assoluto per la vita umana, fosse anche quella del nemico, si potrà sperare di dare un futuro di pace e di convivenza alle giovani generazioni di quei popoli che, entrambi, hanno le loro radici nella Terra Santa. Invito tutta la Chiesa a elevare suppliche all’Onnipotente per la pace nella terra di Gesù e a mostrare solidarietà attenta e fattiva ad entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese.

Nel corso della settimana la cronaca italiana ha appuntato la sua attenzione sulla triste fine di due bambini, noti come Ciccio e Tore. Una fine che ha profondamente colpito me come tante famiglie e persone. Vorrei cogliere l'occasione per lanciare un grido a favore dell'infanzia: prendiamoci cura dei piccoli! Bisogna amarli e aiutarli a crescere. Lo dico ai genitori, ma anche alle istituzioni. Nel lanciare questo appello, il mio pensiero va all’infanzia di ogni parte del mondo, particolarmente a quella più indifesa, sfruttata e abusata. Affido ogni bambino al cuore di Cristo, che ha detto: "Lasciate che i bambini vengano a me!" (Lc 18,16)


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venerdì 29 febbraio 2008
Benedetto XVI: America, a vibrant and ethically sound democratic order

Address of his Holiness Benedict XVI to H.E. Mrs Mary Ann Glendon, new ambassafdor of the United States of America to the Holy See

Friday, 29 February 2008


Your Excellency,

It is a pleasure for me to accept the Letters by which you are accredited Ambassador Extraordinary and Plenipotentiary of the United States of America and to offer my cordial good wishes as you take up your new responsibilities in the service of your country. I am confident that the knowledge and experience born of your distinguished association with the work of the Holy See will prove beneficial in the fulfillment of your duties and enrich the activity of the diplomatic community to which you now belong. I also thank you for the cordial greetings which you have conveyed to me from President George W. Bush on behalf of the American people, as I look forward to my Pastoral Visit to the United States in April.

From the dawn of the Republic, America has been, as you noted, a nation which values the role of religious belief in ensuring a vibrant and ethically sound democratic order. Your nation's example of uniting people of good will, regardless of race, nationality or creed, in a shared vision and a disciplined pursuit of the common good has encouraged many younger nations in their efforts to create a harmonious, free and just social order. Today this task of reconciling unity and diversity, of forging a common vision and summoning the moral energy to accomplish it, has become an urgent priority for the whole human family, which is increasingly aware of its interdependence and the need for effective solidarity in meeting global challenges and building a future of peace for coming generations.

The experience of the past century, with its heavy toll of war and violence, culminating in the planned extermination of whole peoples, has made it clear that the future of humanity cannot depend on mere political compromise. Rather, it must be the fruit of a deeper consensus based on the acknowledgment of universal truths grounded in reasoned reflection on the postulates of our common humanity (cf. Message for the 2008 World Day of Peace, 13). The Universal Declaration of Human Rights, whose sixtieth anniversary we celebrate this year, was the product of a world-wide recognition that a just global order can only be based on the acknowledgment and defense of the inviolable dignity and rights of every man and woman. This recognition, in turn, must motivate every decision affecting the future of the human family and all its members. I am confident that your country, established on the self-evident truth that the Creator has endowed each human being with certain inalienable rights, will continue to find in the principles of the common moral law, enshrined in its founding documents, a sure guide for exercising its leadership within the international community.

The building of a global juridic culture inspired by the highest ideals of justice, solidarity and peace calls for firm commitment, hope and generosity on the part of each new generation (cf. Spe Salvi, 25). I appreciate your reference to America's significant efforts to discover creative means of alleviating the grave problems facing so many nations and peoples in our world. The building of a more secure future for the human family means first and foremost working for the integral development of peoples, especially through the provision of adequate health care, the elimination of pandemics like AIDS, broader educational opportunities to young people, the promotion of women and the curbing of the corruption and militarization which divert precious resources from many of our brothers and sisters in the poorer countries. The progress of the human family is threatened not only by the plague of international terrorism, but also by such threats to peace as the quickening pace of the arms race and the continuance of tensions in the Middle East. I take this occasion to express my hope that patient and transparent negotiations will lead to the reduction and elimination of nuclear weapons and that the recent Annapolis Conference will be the first of a series of steps towards lasting peace in the region. The resolution of these and similar problems calls for trust in, and commitment to, the work of international bodies such as the United Nations Organization, which by their nature are capable of fostering genuine dialogue and understanding, reconciling divergent views, and developing multilateral policies and strategies capable of meeting the manifold challenges of our complex and rapidly changing world.

I cannot fail to note with gratitude the importance which the United States has attributed to interreligious and intercultural dialogue as a positive force for peacemaking. The Holy See is convinced of the great spiritual potential represented by such dialogue, particularly with regard to the promotion of nonviolence and the rejection of ideologies which manipulate and disfigure religion for political purposes, and justify violence in the name of God. The American people's historic appreciation of the role of religion in shaping public discourse and in shedding light on the inherent moral dimension of social issues - a role at times contested in the name of a straitened understanding of political life and public discourse - is reflected in the efforts of so many of your fellow-citizens and government leaders to ensure legal protection for God's gift of life from conception to natural death, and the safeguarding of the institution of marriage, acknowledged as a stable union between a man and a woman, and that of the family.


Madam Ambassador, as you now undertake your high responsibilities in the service of your country, I renew my good wishes for the success of your work. Be assured that you may always count on the offices of the Holy See to assist and support you in the fulfillment of your duties. Upon you and your family, and upon all the beloved American people, I cordially invoke God’s blessings of wisdom, strength and peace.

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana


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mercoledì 27 febbraio 2008
Benedetto XVI: carità e umiltà intellettuali di Agostino

Le precedenti udienze su Sant'Agostino


Agostino che per amore introdusse errori grammaticali nelle sue opere giovedì 21 febbraio 2008
Agostino, la fede, la ragione e la speranza di trovare la verità giovedì 31 gennaio 2008
Agostino, il grande vecchio, l'amico - 16 gennaio 2008
Agostino e la bellezza così antica, così nuova - 9 gennaio 2008
Sotto: i vespri a San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, domenica 22 aprile 2007

Udienza generale, Aula Paolo VI, mercoledì 27 febbraio 2008

Cari fratelli e sorelle,

con l’incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant’Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l’anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.

Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant’Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all’origine di una delle forme letterarie più specifiche dell’Occidente, l’autobiografia, cioè l’espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell’anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe – se ne possono distinguere facilmente tre – siano un’unica grande conversione.

Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l’esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, “prendi, leggi, prendi, leggi” (VIII, 12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell’epistola ai Romani dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: “Avevi convertito a te il mio essere”, egli commenta (Confessiones, VIII, 12,30). Fu questa la prima e decisiva conversione.

A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi “toccabile”, uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. E’ questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: “Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica” (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.

Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta del Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna — cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente — era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.

Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes (“revisioni”), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. “Ho compreso – scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) – che uno solo è veramente perfetto e che le parole del discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est. Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant’Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che “nella speranza siamo stati salvati” (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch’essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.

In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l’esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l’unico che ci salva, ci purifica e ci da la vera gioia, la vera vita.

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Lo straordinario incontro di Benedetto XVI e un suo parrocchiano

L’incontro fra il Papa e l’Elefantino devoto, a lato la foto Ansa



di Maurizio Crippa

Tratto da del 25 febbraio 2008 e segnalatoci dal Mascellaro

E finalmente in una tiepida domenica mattina di febbraio si sono incontrati. Un semplice parrocchiano un po' speciale del Testaccio, il quartiere un tempo popolare e poi simbolo della Swinging Rome rutelliana, e il vescovo della città venuto in visita alla parrocchia di Santa Maria Liberatrice.

La foto presa al volo dall'Ansa è bella e reticente, come tutte le foto rubate alla cronaca. Il corpaccione esuberante nel cappotto cammello del giornalista laico - anzi ex comunista - e oggi combattente contro l'aborto; e il corpo esile e diafano, bianco come la papalina e la zazzera del gran professore tedesco, il Papa teologo. Alla fine del lungo percorso attraverso il mondo della politica e quello delle idee, dalla noia per l'ideologia alla scoperta della teologia, Giuliano Ferrara è arrivato sotto casa, nella «sua» parrocchia, dove ieri ha incontrato Benedetto XVI, gli ha baciato con rispetto la mano, è brillato un sorriso, si sono scambiati qualche rapida parola. La foto è reticente. Non per le parole che resteranno private, ma perché non dice nulla del lampo degli occhi, che senza dubbio ci dev'essere stato. E chi come me ha consuetudine con il mio direttore, sa che sono lampi eloquenti, spesso felicemente bambini.

Un lungo rapporto a distanza, quello tra il direttore del Foglio che da tempo ha preso il vezzo di definirsi «ateo devoto», mandando fuori di testa tutti quelli che non sanno se prenderlo sul serio, e in brodo di giuggiole gli amici che sanno che è divinamente serio, assolutamente ironico. E il «professor Ratzinger», come Ferrara lo chiama spesso. Anche se la dietrologia italiana immagina sempre rapporti sotterranei e chissà quali segreti d'Oltretevere, ieri era la prima volta che i due si trovavano vis à vis. Un lungo avvicinamento, e credo non spiacerebbe ai due se si rubassero a Goethe le sue «affinità elettive».

Quando Joseph Ratzinger si presentò sulla Gran Loggia di San Pietro, il pomeriggio del 19 aprile 2005, i testimoni oculari - io non c'ero, sto a Milano - raccontano di un gran balzo di Giuliano sulla poltrona, e del suo urlo liberatorio «Josephum», con cui faceva eco in tutta la redazione al nome latino appena pronunciato dal cardinale camerlengo. Il trionfo di una scommessa vinta, di un'anticipazione azzeccata. Quella mattina, il Foglio era uscito a tutta prima pagina con il titolo «La formidabile lezione del professor Ratzinger» e aveva sbattuto in faccia ai dubbiosi il testo integrale dell'omelia che Ratzinger aveva tenuto prima dell'inizio del Conclave. E che era già un programma di pontificato. Ma un orecchio più fine avrebbe forse avvertito che i gemiti della poltrona del direttore avevano un tono diverso da quelli provocati da Ferrara per un'altra notizia, anche quella pubblicata a tutta prima pagina con un giorno d'anticipo, la rielezione di Bush alla Casa Bianca. Quello era il legittimo orgoglio di una scommessa giornalistica stravinta. Invece il tripudio di quel pomeriggio d'aprile, quello che fece decidere in un istante, come capita sempre al Foglio, di uscire il giorno dopo con la testata modificata in «Il Soglio», con una squillante «S» rossa, era la gioia di un nuovo inizio: quasi l'intuizione di un «adesso cominciamo a divertirci», adesso avremo qualcosa di cui scrivere ogni giorno.

Ferrara ripete sempre che ad appassionarlo alle vicende della Chiesa fu la potenza meravigliosamente spavalda davanti alla modernità di Giovanni Paolo II. Ma già allora, in tempi non sospetti, fu il Prefetto della Fede ad attirare la sua attenzione. Nel 2000 il Foglio aveva già pubblicato con risalto la Dominus Jesus, la «dichiarazione circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», contestata dai progressisti, con cui Joseph Ratzinger faceva punto e a capo di tutte le possibili confusioni sulle diverse religioni. Analoga attenzione aveva attirato nel 2004 la Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella chiesa e nel mondo, scritta sempre dal Custode della Fede. Altra clamorosa bomba messa sotto la mentalità corrente, che non a caso interessò maggiormente le femministe inquiete che tante anime belle della Chiesa chiacchierante, quella istituzione trasversale che tanto Papa Ratzinger quanto Ferrara detestano apertamente. Erano i primi segnali, che lasciavano a bocca aperta molti in redazione, di un interesse crescente. Ma segnali che venivano da lontano. Ferrara semplicemente si è accorto che la sapienza della Chiesa, Agostino e Tommaso, Wojtyla e Ratzinger, ha spesso molte più cose interessanti da comunicare all'uomo (post)moderno - sull'amore umano, sulla nascita e la morte, fino al «supremo scandalo del nostro tempo», l'aborto - di quanto non l'abbiano tonnellate di filosofia corrente e di scadente pensiero unico laico. E da allora il Foglio è stato un tripudio di iniziative che Ferrara ama definire «ratzingeriane», come anche gli Appunti per il dopo pubblicati la scorsa estate.

Vista da (abbastanza) vicino la fascinazione di Ferrara per Ratzinger («siamo il giornale del Papa», è battuta su cui in redazione si può scherzare, ma fino a un certo punto) è fatta sostanzialmente di due cose. L'interesse per un uso della ragione «illuminista», che si interroga su tutto e non rinuncia alla ricerca della Verità. L'altra è il sacrosanto amore per il linguaggio, la parola cristallina che chiama le cose con il loro nome, che scandaglia il vero e lo rende comprensibile anche ai laici. Di contro c'è l'odio per il fumo dell'ecclesialese, il linguaggio indigeribile che invece sembra essere il codice segreto del cattolicesimo contemporaneo. Quello «aperto al mondo», ma che al mondo non riesce a dire niente di interessante. E figurarsi a un uomo di mondo come Giuliano Ferrara.

Da qui il grande rilancio del discorso «illuminista» di Ratisbona, e la passione con cui il Foglio ha discusso le encicliche di Benedetto XVI: passione intellettuale per un uomo che ha qualcosa da dire, e sa splendidamente dirlo, sottolinea sempre Ferrara. Fino alla pubblicazione a tutta prima pagina del grande discorso negato alla Sapienza, sbattuto in faccia all'ignoranza di professori piccini e censori.

Da anni in tanti si interrogano sui rapporti tra Giuliano Ferrara e la Fede, tra il direttore del Foglio e il Papa. Su quel suo stare «sulla soglia» di Santa Romana Chiesa. Chi ha la possibilità di frequentare la faccenda un po' più da vicino, potrebbe testimoniare davanti al Sant'Uffizio soltanto di quel che vede: una stupenda, inconsueta, avventura intellettuale e umana. Vissuta con amore e buonumore dal suo protagonista. Fino all'ultima partita, quella che Giuliano Ferrara ha intrapreso della lista per la moratoria contro l'aborto. Su questo, il Papa ha già detto quel che doveva dire: riprendendo, nel discorso al corpo diplomatico di inizio anno, il filo del parallelo ferrariano tra la moratoria della pena di morte e il necessario impegno a favore della vita.

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Medjugorjie: per chi non ha conosciuto l'amore di Dio


Messaggio del 25 febbraio 2008
Cari figli, in questo tempo di grazia vi invito di nuovo alla preghiera e alla rinuncia. Che la vostra giornata sia intessuta di piccole ardenti preghiere per tutti coloro che non hanno conosciuto l’amore di Dio. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.

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Benedetto XVI: la morte non è solo un fatto biologico, è l'inizio della vita definitiva

A lato: Crispi, La morte di san Giuseppe

Discorso ai partecipanti al congresso indetto dalla Pontificia accademia per la vita sul tema"Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi", Sala Clementina


Lunedì, 25 febbraio 2008

Cari fratelli e sorelle,

con viva gioia porgo il mio saluto a voi tutti che partecipate al Congresso indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi”. Il Congresso si svolge in connessione con la XIV Assemblea Generale dell’Accademia, i cui membri sono pure presenti a questa Udienza. Ringrazio anzitutto il Presidente Mons. Sgreccia per le sue cortesi parole di saluto; con lui ringrazio la Presidenza tutta, il Consiglio Direttivo della Pontificia Accademia, tutti i collaboratori e i membri ordinari, onorari e corrispondenti. Un saluto cordiale e riconoscente voglio poi rivolgere ai relatori di questo importante Congresso, così come a tutti i partecipanti provenienti da diversi Paesi del mondo. Carissimi, il vostro generoso impegno e la vostra testimonianza sono veramente meritevoli di encomio.

Già semplicemente considerando i titoli delle relazioni congressuali, si può percepire il vasto panorama delle vostre riflessioni e l’interesse che esse rivestono per il tempo presente, in special modo nel mondo secolarizzato di oggi. Voi cercate di dare risposte ai tanti problemi posti ogni giorno dall'incessante progresso delle scienze mediche, le cui attività risultano sempre più sostenute da strumenti tecnologici di elevato livello. Di fronte a tutto questo, emerge l’urgente sfida per tutti, e in special modo per la Chiesa, vivificata dal Signore risorto, di portare nel vasto orizzonte della vita umana lo splendore della verità rivelata e il sostegno della speranza.

Quando si spegne una vita in età avanzata, o invece all’alba dell’esistenza terrena, o nel pieno fiorire dell’età per cause impreviste, non si deve vedere in ciò soltanto un fatto biologico che si esaurisce, o una biografia che si chiude, bensì una nuova nascita e un’esistenza rinnovata, offerta dal Risorto a chi non si è volutamente opposto al suo Amore. Con la morte si conclude l’esperienza terrena, ma attraverso la morte si apre anche, per ciascuno di noi, al di là del tempo, la vita piena e definitiva. Il Signore della vita è presente accanto al malato come Colui che vive e dona la vita, Colui che ha detto: “Sono venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza” (Gv 10,10), “Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se muore vivrà, (Gv 10,25) e "Io lo resusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). In quel momento solenne e sacro, tutti gli sforzi compiuti nella speranza cristiana per migliorare noi stessi e il mondo che ci è affidato, purificati dalla Grazia, trovano il loro senso e si impreziosiscono grazie all’amore di Dio Creatore e Padre. Quando, al momento della morte, la relazione con Dio si realizza pienamente nell’incontro con “Colui che non muore, che è la vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita; allora viviamo” (Benedetto XVI, Spe salvi, 27). Per la comunità dei credenti, questo incontro del morente con la Sorgente della Vita e dell’Amore rappresenta un dono che ha valore per tutti, che arricchisce la comunione di tutti i fedeli. Come tale, esso deve raccogliere l’attenzione e la partecipazione della comunità, non soltanto della famiglia dei parenti stretti, ma, nei limiti e nelle forme possibili, di tutta la comunità che è stata legata alla persona che muore. Nessun credente dovrebbe morire nella solitudine e nell’abbandono. Madre Teresa di Calcutta aveva una particolare premura di raccogliere i poveri e i derelitti, perché almeno nel momento della morte potessero sperimentare, nell’abbraccio delle sorelle e dei fratelli, il calore del Padre.

Ma non è soltanto la comunità cristiana che, per i suoi particolari vincoli di comunione soprannaturale, è impegnata ad accompagnare e celebrare nei suoi membri il mistero del dolore e della morte e l’alba della nuova vita. In realtà, tutta la società mediante le sue istituzioni sanitarie e civili è chiamata a rispettare la vita e la dignità del malato grave e del morente. Pur nella consapevolezza del fatto che “non è la scienza che redime gli uomini” (Benedetto XVI, Spe salvi, 26), la società intera e in particolare i settori legati alla scienza medica sono tenuti ad esprimere la solidarietà dell’amore, la salvaguardia e il rispetto della vita umana in ogni momento del suo sviluppo terreno, soprattutto quando essa patisce una condizione di malattia o è nella sua fase terminale. Più in concreto, si tratta di assicurare ad ogni persona che ne avesse bisogno il sostegno necessario attraverso terapie e interventi medici adeguati, individuati e gestiti secondo i criteri della proporzionalità medica, sempre tenendo conto del dovere morale di somministrare (da parte del medico) e di accogliere (da parte del paziente) quei mezzi di preservazione della vita che, nella situazione concreta, risultino “ordinari”. Per quanto riguarda, invece, le terapie significativamente rischiose o che fossero prudentemente da giudicare “straordinarie”, il ricorso ad esse sarà da considerare moralmente lecito ma facoltativo. Inoltre, occorrerà sempre assicurare ad ogni persona le cure necessarie e dovute, nonché il sostegno alle famiglie più provate dalla malattia di uno dei loro componenti, soprattutto se grave e prolungata. Anche sul versante della regolamentazione del lavoro, solitamente si riconoscono dei diritti specifici ai familiari al momento di una nascita; in maniera analoga, e specialmente in certe circostanze, diritti simili dovrebbero essere riconosciuti ai parenti stretti al momento della malattia terminale di un loro congiunto. Una società solidale ed umanitaria non può non tener conto delle difficili condizioni delle famiglie che, talora per lunghi periodi, devono portare il peso della gestione domiciliare di malati gravi non autosufficienti. Un più grande rispetto della vita umana individuale passa inevitabilmente attraverso la solidarietà concreta di tutti e di ciascuno, costituendo una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

Come ho ricordato nell’Enciclica Spe salvi, “la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana” (n. 38). In una società complessa, fortemente influenzata dalle dinamiche della produttività e dalle esigenze dell’economia, le persone fragili e le famiglie più povere rischiano, nei momenti di difficoltà economica e/o di malattia, di essere travolte. Sempre più si trovano nelle grandi città persone anziane e sole, anche nei momenti di malattia grave e in prossimità della morte. In tali situazioni, le spinte eutanasiche diventano pressanti, soprattutto quando si insinui una visione utilitaristica nei confronti della persona. A questo proposito, colgo l'occasione per ribadire, ancora una volta, la ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta, secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa.

Lo sforzo sinergico della società civile e della comunità dei credenti deve mirare a far sì che tutti possano non solo vivere dignitosamente e responsabilmente, ma anche attraversare il momento della prova e della morte nella migliore condizione di fraternità e di solidarietà, anche là dove la morte avviene in una famiglia povera o nel letto di un ospedale. La Chiesa, con le sue istituzioni già operanti e con nuove iniziative, è chiamata ad offrire la testimonianza della carità operosa, specialmente verso le situazioni critiche di persone non autosufficienti e prive di sostegni familiari, e verso i malati gravi bisognosi di terapie palliative, oltre che di appropriata assistenza religiosa. Da una parte, la mobilitazione spirituale delle comunità parrocchiali e diocesane e, dall’altra, la creazione o qualificazione delle strutture dipendenti dalla Chiesa, potranno animare e sensibilizzare tutto l’ambiente sociale, perché ad ogni uomo che soffre e in particolare a chi si avvicina al momento della morte, siano offerte e testimoniate la solidarietà e la carità. La società, per parte sua, non può mancare di assicurare il debito sostegno alle famiglie che intendono impegnarsi ad accudire in casa, per periodi talora lunghi, malati afflitti da patologie degenerative (tumorali, neurodegenerative, ecc.) o bisognosi di un’assistenza particolarmente impegnativa. In modo speciale, si richiede il concorso di tutte le forze vive e responsabili della società per quelle istituzioni di assistenza specifica che assorbono personale numeroso e specializzato e attrezzature di particolare costo. E’ soprattutto in questi campi che la sinergia tra la Chiesa e le Istituzioni può rivelarsi singolarmente preziosa per assicurare l’aiuto necessario alla vita umana nel momento della fragilità.

Mentre auspico che in questo Congresso Internazionale, celebrato in connessione con il Giubileo delle apparizioni di Lourdes, si possano individuare nuove proposte per alleviare la situazione di quanti sono alle prese con le forme terminali della malattia, vi esorto a proseguire nel vostro benemerito impegno di servizio alla vita in ogni sua fase. Con questi sentimenti, vi assicuro la mia preghiera a sostegno del vostro lavoro e vi accompagno con una speciale Benedizione Apostolica.

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana


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lunedì 25 febbraio 2008
Benedetto XVI: affrontare la grande emergenza educativa

June 1942. "Brooklyn, New York. Red Hook housing development. Nursery children at the Community Center. Some come from the surrounding neighborhood. About 100 children attend." Photo by courtesy of shorpy.com

Udienza per la consegna alla diocesi di Roma della lettera sul compito urgente dell'educazione, Piazza San Pietro, sabato 23.2.2008

Alle ore 12 di oggi, in Piazza San Pietro, il Santo Padre Benedetto XVI presenta e consegna alla Diocesi di Roma la "Lettera sul compito urgente dell’educazione", firmata il 21 gennaio scorso e da noi pubblicata qui: Lettera del papa alla città di Roma: l'urgenza di una quasi impossibile educazione

Grazie a Rachele per averci segnalato questa comunicazione


Cari fratelli e sorelle,

vi ringrazio di aver accolto, tanto numerosi, l’invito a questa speciale Udienza, nella quale riceverete dalle mie mani la Lettera che ho indirizzato alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. Saluto con affetto ciascuno di voi: sacerdoti, religiosi e religiose, genitori, insegnanti, catechisti ed altri educatori, fanciulli, adolescenti e giovani, compresi coloro che seguono l’Udienza attraverso la televisione. Saluto e ringrazio, in particolare, il Cardinale Vicario e tutti coloro che hanno preso la parola in rappresentanza delle varie categorie di persone partecipi della grande sfida educativa.

Siamo qui riuniti, infatti, perché ci muove una comune sollecitudine per il bene delle nuove generazioni, per la crescita e per il futuro dei figli che il Signore ha donato a questa città. Ci muove anche una preoccupazione, la percezione cioè di quella che abbiamo chiamato "una grande emergenza educativa". Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare sempre più difficile: perciò non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinunciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a comprendere quale sia, veramente, la missione loro affidata. Troppe incertezze e troppi dubbi, infatti, circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita. Siamo qui oggi, però, anche e soprattutto perché ci sentiamo sostenuti da una grande speranza e da una forte fiducia: dalla certezza, cioè, che quel "sì", chiaro e definitivo, che Dio in Gesù Cristo ha detto alla famiglia umana (cfr 2 Cor 1,19-20), vale anche per i nostri ragazzi e giovani, vale per i bambini che oggi si affacciano alla vita. Perciò anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un’impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo.

Siamo qui, in concreto, perché intendiamo rispondere a quella domanda educativa che oggi avvertono dentro di sé i genitori, preoccupati per il futuro dei propri figli, gli insegnanti, che vivono dal di dentro la crisi della scuola, i sacerdoti e i catechisti che sanno per esperienza quanto sia difficile educare alla fede, gli stessi ragazzi, adolescenti e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita. E’ questa la ragione per la quale vi ho scritto, cari fratelli e sorelle, la lettera che sto per consegnarvi. In essa potete trovare alcune indicazioni, semplici e concrete, sugli aspetti fondamentali e comuni dell’opera educativa. Oggi mi rivolgo a ciascuno di voi per offrirvi il mio affettuoso incoraggiamento ad assumere con gioia le responsabilità che il Signore vi affida, affinché la grande eredità di fede e di cultura, che è la ricchezza più vera di questa nostra amata città, non vada smarrita nel passaggio dall’una all’altra generazione, ma al contrario si rinnovi, si irrobustisca, sia di guida e di stimolo nel nostro cammino verso il futuro.

In questo spirito mi rivolgo a voi, cari genitori, per chiedervi anzitutto di rimanere saldi, per sempre, nel vostro reciproco amore: è questo il primo e grande dono di cui hanno bisogno i vostri figli, per crescere sereni, acquisire fiducia in se stessi e fiducia nella vita e imparare così ad essere a loro volta capaci di amore autentico e generoso. Il bene che volete ai figli deve poi darvi lo stile e il coraggio del vero educatore, con una coerente testimonianza di vita ed anche con la fermezza necessaria per temprare il carattere delle nuove generazioni, aiutandole a distinguere con chiarezza il bene dal male ed a costruirsi a loro volta delle solide regole di vita, che le sostengano nelle prove future. Così farete ricchi i vostri figli dell’eredità più preziosa e duratura, che consiste nell’esempio di una fede quotidianamente vissuta.

Con il medesimo animo domando a voi, docenti dei diversi ordini di scuole, di avere un concetto alto e grande del vostro impegnativo lavoro, nonostante le difficoltà, le incomprensioni, le delusioni che troppo spesso sperimentate. Insegnare, infatti, significa andare incontro a quel desiderio di conoscere e di capire che è insito nell’uomo e che nel bambino, nell’adolescente, nel giovane si manifesta in tutta la sua forza e spontaneità. Il vostro compito, perciò, non può limitarsi a fornire delle nozioni e delle informazioni, lasciando da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Siete infatti, a pieno titolo, degli educatori: a voi, in stretta sintonia con i genitori, è affidata la nobile arte della formazione della persona. In particolare, quanti insegnano nelle scuole cattoliche portino dentro di sé e traducano in azione quotidiana quel progetto educativo che ha al proprio centro il Signore Gesù e il suo Vangelo.

E voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, catechisti, animatori e formatori delle parrocchie, dei gruppi giovanili, delle associazioni e movimenti ecclesiali, degli oratori, delle attività sportive e ricreative, cercate di avere sempre, verso i ragazzi e i giovani che accostate, gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo (cfr Fil 2,5). Siate dunque quegli amici affidabili nei quali essi possano toccare con mano l’amicizia di Gesù per loro, e al tempo stesso siate i testimoni sinceri e coraggiosi di quella verità che rende liberi (cfr Gv 8,32) e che indica alle nuove generazioni la via che conduce alla vita.

L’educazione però non è soltanto opera degli educatori: è un rapporto tra persone nel quale, con il crescere degli anni, entrano sempre più in gioco la libertà e la responsabilità di coloro che vengono educati. Perciò, con grande affetto, mi rivolgo a voi, fanciulli, adolescenti e giovani, per ricordarvi che voi stessi siete chiamati ad essere gli artefici della vostra crescita morale, culturale e spirituale. Sta a voi, dunque, accogliere liberamente nel cuore, nell’intelligenza e nella vita il patrimonio di verità, di bontà e di bellezza che si è formato attraverso i secoli e che ha in Gesù Cristo la sua pietra angolare. Sta a voi rinnovare e sviluppare ulteriormente questo patrimonio, liberandolo dalle tante menzogne e brutture che spesso lo rendono irriconoscibile e provocano in voi diffidenza e delusione. Sappiate comunque che in questo non facile cammino non siete mai soli: vi sono vicini non soltanto i vostri genitori, insegnanti, sacerdoti, amici e formatori, ma soprattutto quel Dio che ci ha creato e che è l’ospite segreto dei nostri cuori. Egli illumina dal di dentro la nostra intelligenza, Egli orienta al bene la nostra libertà, che spesso avvertiamo fragile e incostante, Egli è la vera speranza e il fondamento solido della nostra vita. Di Lui, anzitutto, ci possiamo fidare.

Cari fratelli e sorelle, nel momento in cui vi consegno simbolicamente la Lettera sul compito urgente dell’educazione, ci affidiamo dunque, tutti insieme, a Colui che è il nostro vero e unico Maestro (cfr Mt 23,8), per impegnarci insieme a Lui, con fiducia e con gioia, in quella meravigliosa impresa che è la formazione e la crescita autentica delle persone. Con questi sentimenti ed auspici a tutti imparto la mia Benedizione.


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Benedetto XVI: immedesimarci in quella donna, a cui Gesù disse "Dammi da bere"

A lato, Giovvanni di Fiandra, 1503.


Angelus di domanica 24 febbraio 2008


Cari fratelli e sorelle,


in questa terza Domenica di Quaresima la liturgia ripropone quest’anno uno dei testi più belli e profondi della Bibbia: il dialogo tra Gesù e la Samaritana (cfr Gv 4,5-42). Sant’Agostino, del quale sto ampiamente parlando nelle catechesi del mercoledì, era giustamente affascinato da questo racconto, e ne fece un commento memorabile. È impossibile rendere in una breve spiegazione la ricchezza di questa pagina evangelica: occorre leggerla e meditarla personalmente, immedesimandosi in quella donna che, un giorno come tanti altri, andò ad attingere acqua dal pozzo e vi trovò Gesù, seduto accanto, "stanco del viaggio", nella calura del mezzogiorno. "Dammi da bere", le disse, lasciandola molto stupita: era infatti del tutto inconsueto che un giudeo rivolgesse la parola a una donna samaritana, per di più sconosciuta. Ma la meraviglia della donna era destinata ad aumentare: Gesù parlò di un’"acqua viva" capace di estinguere la sete e diventare in lei "sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna"; dimostrò inoltre di conoscere la sua vita personale; rivelò che era giunta l’ora di adorare l’unico vero Dio in spirito e verità; e infine le confidò – cosa rarissima – di essere il Messia.

Tutto questo a partire dall’esperienza reale e sensibile della sete. Il tema della sete attraversa tutto il Vangelo di Giovanni: dall’incontro con la Samaritana, alla grande profezia durante la festa delle Capanne (Gv 7,37-38), fino alla Croce, quando Gesù, prima di morire, disse per adempiere la Scrittura: "Ho sete" (Gv 19,28). La sete di Cristo è una porta di accesso al mistero di Dio, che si è fatto assetato per dissetarci, così come si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9). Sì, Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore. Come un padre buono e misericordioso desidera per noi tutto il bene possibile e questo bene è Lui stesso. La donna di Samaria invece rappresenta l’insoddisfazione esistenziale di chi non ha trovato ciò che cerca: ha avuto "cinque mariti" ed ora convive con un altro uomo; il suo andare e venire dal pozzo per prendere acqua esprime un vivere ripetitivo e rassegnato. Tutto però cambiò per lei quel giorno, grazie al colloquio con il Signore Gesù, che la sconvolse a tal punto da indurla a lasciare la brocca dell’acqua e a correre per dire alla gente del villaggio: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?" (Gv 4,28-29).

Cari fratelli e sorelle, anche noi apriamo il cuore all’ascolto fiducioso della parola di Dio per incontrare, come la Samaritana, Gesù che ci rivela il suo amore e ci dice: il Messia, il tuo salvatore "sono io, che ti parlo" (Gv 4,26). Ci ottenga questo dono Maria, prima e perfetta discepola del Verbo fatto carne.


DOPO L’ANGELUS


Recenti inondazioni hanno devastato ampie zone costiere dell'Ecuador, provocando gravissimi danni, che si aggiungono a quelli già causati dall'eruzione del vulcano Tungurahua. Mentre affido al Signore le vittime di tale calamità, esprimo la mia personale vicinanza a quanti stanno vivendo ore di angoscia e di tribolazione e invito tutti ad una fraterna solidarietà, affinché le popolazioni di quelle zone possano ritornare, quanto prima, alla normalità della vita quotidiana.


Sabato prossimo, 1° marzo, alle ore 17, nell’Aula Paolo VI presiederò la veglia mariana dei giovani universitari di Roma. Ad essa parteciperanno, in collegamento radio-televisivo, anche studenti di altri Paesi dell’Europa e delle Americhe. Invocheremo l’intercessione di Maria Sedes Sapientiae, affinché la speranza cristiana sostenga la costruzione della civiltà dell’amore in questi due Continenti e nel mondo intero. Cari amici universitari, vi attendo numerosi!


Gepostet von redazione

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venerdì 22 febbraio 2008
L'arcivescovo di Westminster chiede ai fedeli di fare pressione sui membri del parlamento

Il cardinale sollecita ad opporsi alla legge che permette di creare ibridi umano-bovini. Déjà vu a Creata, 1500 anni prima della nascita di Cristo. A lato testa bovina, Cnosso, XVI sec. a.C.


Full text of the Pastoral message from Cardinal Cormac Murphy-O’Connor President of the Bishops’ Conference of England and Wales

Dear brothers and sisters in Jesus Christ,

As you will know, there is a Bill currently in Parliament which touches on profound questions of human life and dignity. The Human Fertilisation and Embryology Bill has just completed its passage through the House of Lords and will be debated in the House of Commons in the next few weeks.

The Bill extends the scope of scientific research on human embryos and even allows the creation of animal and human hybrid embryos for research. It removes a provision to have regard for the child’s need for a father when IVF methods are used. And there is every chance that there will be attempts in the House of Commons to use this Bill as a vehicle to liberalise the abortion law still further.

Many people of all faiths and none are deeply concerned by the moral questions raised by this Bill. These concerns were set out in Parish briefings sent to every parish from the Bishops’ Conference to all our parishes over the last few weeks. Now is the time for our voices to be heard. This needs as many people as possible to write to - and better still – to go and see their MP and to register their deep concern about this Bill. Please urge your MP [Member of the Parliament ndr] to support amendments to the Bill which would limit embryo research, recognize the need for children to have knowledge of their biological father, and which would reduce rather than increase the numbers of abortions. MPs should also request and be granted a free vote on those parts of this Bill which deals with fundamental issues of personal conscience.

During this time of Lent we are encouraged to reflect on our own lives and to rededicate ourselves as Christians to serving the Gospel in our world. Taking action on this pressing issue now helps to remind us that our Christian witness can never just be personal but involves us too as citizens committed to serving the common good of society and to upholding the human dignity of all.

With my prayers,

+Cormac Card. Murphy-O'Connor

Archbishop of Westminster on behalf of the Bishops of England and Wales

19 February 2008


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Benedetto XVI: il compito storico della Serbia

Discorso del Papa al nuovo ambasciatore di SerbiaLa crisi nel Kosovo richiede prudenza e moderazione



CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 21 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere giovedì mattina in udienza il signor Vladeta Jankovic, nuovo ambasciatore di Serbia presso la Santa Sede, per la presentazione delle lettere credenziali.

* * *

Eccellenza,

sono lieto di porgerle il benvenuto all'inizio della sua missione e di accettare le lettere che la accreditano come ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica di Serbia presso la Santa Sede. La ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto e per i saluti che mi ha trasmesso da parte del presidente Boris Tadic. La prego di trasmettergli i miei rispettosi buoni auspici in occasione della sua recente rielezione e l'assicurazione delle mie preghiere per tutto il popolo della sua nazione.

La Santa Sede apprezza molto i suoi legami diplomatici con la Serbia e spera, quindi, di offrire incoraggiamento agli sforzi costanti di edificare un futuro di pace, prosperità, riconciliazione e coesistenza pacifica in tutta la regione, mentre la Serbia e i suoi vicini cercano di occupare il loro giusto posto in Europa. Pochi paesi nel continente europeo sono sfuggiti alle devastazioni della guerra nel secolo scorso e tutti possono imparare dalle lezioni del recente passato. Mentre ci si adopera per un futuro sicuro, è importante ricordare che l'identità e la ricca tradizione culturale della sua nazione, come di tutte le nazioni europee, sono profondamente radicate nell'eredità della fede cristiana e del Vangelo di amore. "Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore" (Deus caritas est, n. 28). I seguaci di Cristo sono chiamati a offrire quel servizio di amore a tutti i loro fratelli e sorelle senza distinzione: solo così le annose tensioni potranno finalmente essere sepolte.

Se scegliamo di vivere in base ai valori che derivano dalle nostre radici cristiane, scopriamo il coraggio di perdonare e di accogliere il perdono altrui, di essere riconciliati con i nostri vicini e di edificare insieme una civiltà dell'amore in cui tutti siano accettati e rispettati. So quanto profondamente la popolazione serba ha sofferto nel corso dei recenti conflitti e desidero esprimere sincera sollecitudine per essa e per le altre nazioni dei Balcani colpite dai tristi eventi dell'ultimo decennio. La Santa Sede condivide il vostro più autentico desiderio che la pace raggiunta porti stabilità duratura alla regione. In particolare, in riferimento all'attuale crisi in Kosovo, esorto tutte le parti interessate ad agire con prudenza e moderazione e a ricercare soluzioni che favoriscano il rispetto reciproco e la riconciliazione.

Non meno importanti tra le varie divisioni tra i popoli d'Europa sono quelle derivanti dalla tragica perdita dell'unità dei cristiani negli ultimi mille anni. Mi rallegro per i progressi compiuti nelle relazioni fra i cristiani ortodossi e i cristiani cattolici e sono particolarmente grato alla Chiesa ortodossa serba per aver cortesemente ospitato l'incontro del 2006 della commissione mista per il dialogo teologico fra cattolici e ortodossi, con il supporto attivo dei membri più autorevoli del suo governo. Infatti, incoraggiati dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, si sono verificati numerosi sviluppi lusinghieri in quest'area, incluse le recenti iniziative congiunte fra la Pontificia Università Lateranense e la Facoltà ortodossa di Teologia del Patriarcato di Serbia a Belgrado, alle quali lei, Eccellenza, ha fatto riferimento. Spero sinceramente che questi sviluppi positivi continueranno a recare frutto, in particolare mediante lo studio congiunto della dottrina sociale cristiana, e, a questo proposito, ricordo con gratitudine la favorevole accoglienza riservata al cardinale Renato Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in occasione della sua recente visita alla Facoltà ortodossa di Teologia.

La posizione geografica della Serbia, al confine fra cristianesimo orientale e cristianesimo occidentale, le offre l'opportunità unica di promuovere il dialogo ecumenico, mentre la sua familiarità con l'Islam, sia per il suo incontro con l'Impero Ottomano sia per l'odierna presenza di numerosi musulmani nella regione, offre ricche possibilità di progresso nel dialogo interreligioso. Entrambi questi processi sono della massima importanza per stabilire comprensione e rispetto reciproci più ampi fra i popoli e le nazioni nel mondo contemporaneo. Sia certo del fatto che la Chiesa cattolica in Serbia desidera continuare ad agire sulla base dei suoi buoni rapporti con il Santo Sinodo e a fare la sua parte nelle iniziative congiunte volte a promuovere l'unità cristiana e un autentico riavvicinamento fra i credenti di diverse religioni, contribuendo in tal modo all'instaurazione della pace e dell'armonia nelle nazioni e fra di esse.

La libertà di religione è un elemento indispensabile nell'edificazione del tipo di società in cui questa armonia si può sviluppare e i passi mossi dalla Serbia negli ultimi anni per garantire questo diritto fondamentale sono molto apprezzati. Il progetto di restituire alle Chiese e alle comunità religiose le proprietà che erano state nazionalizzate dalla Federazione Jugoslava e l'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole hanno contribuito al rinnovamento spirituale del suo paese, e, a questo proposito, hanno offerto un importante esempio dal quale altri governi possono imparare. Prego affinché questa apertura ai valori religiosi nella società continui ad aumentare, cosicché il dibattito pubblico possa nutrirsi veramente dei principi derivati dalla fede. Come ho indicato nella lezione che ho preparato di recente per l'Università di Roma "La Sapienza" (17 gennaio 2008), se però la ragione "diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita". Senza il nutrimento che deriva dalla fede viva, la cultura risulta profondamente impoverita e le prospettive di una civiltà autenticamente umana svaniscono rapidamente.

Eccellenza, prego affinché la missione diplomatica che comincia oggi consolidi ulteriormente i buoni rapporti già esistenti fra la Santa Sede e il suo paese. La assicuro del fatto che i vari dicasteri della Curia Romana saranno sempre pronti a offrirle aiuto e sostegno nell'adempimento dei suoi doveri. Con i miei sinceri buoni auspici, invoco su di lei, sulla sua famiglia e su tutto il popolo della Serbia le abbondanti benedizioni di Dio.

(Traduzione de L'Osservatore Romano)


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John Henry Newman: la speranza cristiana è tutt'altro che un'utopia.


Molte grazie a Rachele per la segnalazione di questo testo tratto dall'Osservatore Romano del 21 febbraio 2008. A lato, il giovane Newman.


La speranza cristiana secondo John Henry Newman



In attesa di una luce più chiara
Di Hermann Geissler,
Direttore del Centro Internazionale degli Amici di Newman

Nell'enciclica Spe salvi Benedetto XVI scrive: "La vita umana è un cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine - di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata" (n. 49).

Una tale luce vicina è il cardinale John Henry Newman. In occasione dell'anniversario della sua nascita (21 febbraio 1801) può essere opportuno richiamare alcuni pensieri del suo messaggio sulla speranza, un messaggio che non ha perso niente della sua freschezza e attualità. È un tema che brilla in tante sue opere e soprattutto nei suoi sermoni. Proviamo a ripercorrerlo tenendo presente quattro aspetti: l'attesa, la tensione alla beatitudine, la fiducia in Cristo, la vigilanza.


L'attesa

"È la condizione di ogni spirito religioso che non abbia la conoscenza di Cristo: è in attesa". La voce interiore della coscienza parla ad ogni persona umana, ingiungendole, al momento opportuno, di compiere il bene e di evitare il male. Secondo Newman essa è "la messaggera di Colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida (...) È il primo di tutti i vicari di Cristo". Ma questa voce interiore è spesso debole e oscura, inoltre rivela il peccato ma non può liberare dal peccato. In questo modo conduce la persona a essere in attesa di una luce più chiara. Risveglia un desiderio nel più intimo della persona, che, secondo Newman, verrà soddisfatto solo con la venuta di Colui che è la Verità e la Pace. Chi ha accolto il Salvatore nel suo cuore e nella sua vita ha certamente, in qualche modo, già colmato questo profondo desiderio, ma non è ancora giunto alla perfezione. Anche il cristiano è in attesa di qualcosa o - meglio - di qualcuno che nella fede può conoscere già in umbris et imaginibus. Verso la beatitudine:"La nostra reale e vera beatitudine - diceva Newman - consiste nel possesso di quegli oggetti nei quali i nostri cuori possano riposare ed essere soddisfatti". Molti cercano solo in questo mondo l'adempimento delle loro speranze. Saltano da un bene all'altro, senza trovare felicità duratura e pace vera. Tutte le speranze mondane passano come il mondo stesso passa. Con visione profetica, Newman già vide la secolarizzazione della speranza cristiana che avrebbe segnato il nostro tempo. Senza stancarsi esortò a preporre il mondo invisibile a quello visibile e a non attaccare il proprio cuore alle cose passeggere. "Dopo la febbre della vita, dopo le stanchezze e le malattie, le battaglie e gli scoraggiamenti, la fiacchezza e l'irritabilità, dopo esserci sforzati e aver fallito, dopo esserci sforzati ed essere riusciti, dopo tutti i cambiamenti e le opportunità di questa tormentata condizione, finalmente giunge la morte, finalmente giunge il trono di Dio, finalmente la visione beatifica. Dopo l'agitazione viene il riposo, la pace, la gioia - la nostra porzione eterna, se ne saremo degni - la visione della beata Trinità". L'ultimo scopo della speranza cristiana è il Dio dell'amore, la Santa Trinità. Verso di Lui si protende la speranza, perché solo Lui può dare vera pace a quei cuori che la bramano interiormente - non solo nel mondo futuro, ma anche in quello presente.


Fiducia in Cristo

È un'utopia la speranza cristiana? Lo spirito umano, nella sua piccolezza e manchevolezza, è capace di mirare a un bene talmente alto e grande?

Nel suo sermone "Dio onnipotente. Il motivo per la fede e la speranza", Newman risponde a questa domanda con l'osservazione che Dio "non è solo onnipotente ma anche pieno di misericordia (...) La presenza di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo ci spinge alla speranza tanto quanto alla fede, perché il suo stesso nome significa Salvatore, e perché era tanto amabile, mite e amorevole quando era sulla terra". La speranza è basata sulla fede nell'amore e nella misericordia di Dio. Non è una nostra conquista, ma una grazia - un dono da abbracciare con fervore, da custodire con cura e da vivere con fiducia. Accade che spesso i cristiani oggi, come gli apostoli nella barca, siano sballottati qua e là dalla furia della tempesta. Hanno paura che Cristo "dorma" e diventano timorosi, perdono coraggio e non vedono alcuna via d'uscita. "Perché temete?", disse Gesù ai suoi discepoli. Newman sviluppa e rende più attuale questa domanda: "Dovreste sperare, dovreste essere fiduciosi, dovreste porre i vostri cuori in me. La tempesta non può farvi del male se io sono con voi. Potreste stare meglio altrove che sotto la mia protezione?". La speranza cristiana trascende tutti gli ideali del mondo, tutti i desideri umani. È una virtù divina. La fiducia in Cristo è la sua sicura áncora e il suo solido fondamento. "Guardate in alto, e vedete, come è naturale, una grande montagna da scalare; dite: è mai possibile che noi possiamo trovare un sentiero in mezzo a questi enormi ostacoli? Non dite così, miei cari fratelli, guardate in alto con speranza, fidatevi di Lui che vi chiama a proseguire".


Vigilate e pregate

La speranza non impedisce al fedele di compiere i suoi doveri terreni, ma, al contrario, lo sollecita ad assumersi le sue responsabilità qui e ora. Il fedele cerca in ogni tempo e in ogni cosa la volontà di Dio e il bene degli uomini nei quali riconosce il volto del Signore. Egli vive in una grande vigilanza. "Non dobbiamo semplicemente credere, ma vigilare; non semplicemente amare, ma vigilare; non semplicemente obbedire, ma vigilare. Vigilare per cosa? Per quel grande evento che è la venuta di Cristo". Per venuta di Cristo Newman intende non tanto il ritorno del Signore nell'ultimo giorno, quanto anche la sua venuta negli eventi della vita quotidiana. "Veglia per Cristo chi ha una mente sensibile, premurosa, sollecita, ricettiva; chi è desto, consapevole, con un pronto discernimento, zelante nel cercare e onorare il Signore; attento a vederlo in tutto quanto avviene, e che non sarebbe sorpreso, non oltremodo turbato o sopraffatto, se si rendesse conto che sta venendo immediatamente". Oltre alla vigilanza Newman vede la preghiera come la realizzazione concreta della speranza cristiana. La preghiera esprime e fortifica la speranza in mezzo alle fatiche della vita. "Così il vero cristiano passa attraverso il velo di questo mondo e vede il mondo futuro. Si intrattiene con esso; si rivolge a Dio come un bambino si rivolgerebbe ai genitori, con la stessa chiara percezione e incondizionata fiducia in Lui; con profonda devozione, certamente, e sacro e riverenziale timore di Dio, ma anche con sicurezza e lucidità, come esprime bene san Paolo: "So in chi ho creduto"".



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