venerdì 21 marzo 2008

IL BERGAM PRO LIFE CHE NON AVETE VISTO

IL FOGLIO

Cinquant’anni fa, a Cannes, vinceva “Alle soglie della vita”, sponsorizzato dal governo svedese per contrastare gli aborti e mai distribuito in Italia
Cinquant’anni fa, Ingmar Bergman (1918-2007) ottenne la Palma d’oro per la miglior regia al Festival di Cannes del 1958. Più volte premiato nella sua lunga carriera e autore di pellicole che hanno fatto la storia del cinema, la notizia di quel premio è, però, legata al film che lo ricevette: praticamente sconosciuto (sebbene prodotto, tanto per intenderci, dopo “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole”). Un’opera quasi inedita, dunque, “Nära livet” (Alle soglie della vita), pellicola in bianco e nero mai distribuita e tradotta in italiano, disponibile nella prima visione, in svedese con sottotitoli in inglese (a tre quarti, il film si interrompe per qualche istante, e un cartello avverte: “Un attimo che giriamo la bobina”).






Oltre a Bergman e al suo film semisconosciuto, cinquant’anni fa Cannes premiò anche le protagoniste di quella pellicola: Eva Dahlbeck (da poco scomparsa), Ingrid Thulin, Bibi Anderrson e Barbro Hiort af Ornäs ottennero, infatti, il premio collettivo come migliori attrici. Con il regista, alla sceneggiatura collaborò la scrittrice Ulla Isaksson (1916-2000), autrice del volume omonimo pubblicato in Svezia proprio nel 1958 (nel 1995 la Isaksson ha ricevuto il prestigioso premio svedese Selma Lagerlöf “perché con la sua scrittura ha mostrato come l’amore vince sulla disperazione”).
La vicenda si svolge nella stanza E del reparto maternità dell’ospedale XX, che ospita tre donne molto diverse per carattere, età e situazione. Tutte, compresa l’infermiera Brita – che, a suo modo, completa il quartetto – si trovano dinnanzi alla comune esperienza della gravidanza, al mistero della vita. Nel bianco-grigio-nero di quella camera, con eloquenti movimenti e poche ma essenziali battute, si coglie il loro vissuto, ciò che le ha condotte lì. Sono, come spesso accade con Bergman, soprattutto gli sguardi a raccontarne le vicende. Da un lato della stanza c’è il letto di Cecilia Ellius, giunta nottetempo al pronto soccorso con una forte emorragia, a causa della quale perde il bambino al terzo mese di gravidanza. Dall’altro lato, appaiati, vediamo altri due letti. Uno è di Hjördis Pettersson, un’operaia diciannovenne che non vuole assolutamente il figlio che aspetta (la ragazza-madre incinta e abbandonata dall’uomo è figura ricorrente in Bergman, con un chiaro tratto autobiografico: tale era la sua tata di bambino, May, che per questo si annegherà nel fiume). Il terzo letto è quello di Stina Andersson, una venticinquenne sposata, robusta, rubiconda e sprizzante gioia da ogni poro del suo ultimo mese di una gravidanza che ancora non accenna a finire.
Non appena le vicende si mettono a fuoco, colpisce come un pugno nello stomaco la vicinanza fisica tra le tre protagoniste: quale regia crudele può imporre a una donna psicologicamente distrutta, che si risveglia dall’anestesia del raschiamento, di trovarsi dinnanzi una florida e incintissima ragazzona che addenta una mela, impaziente di partorire? (“Mi manca così tanto il bambino che tra poco impazzirò, se non arriva”). La prima reazione è un conato. Il pianto dei neonati sullo sfondo completa il quadro, acuendo il dolore di Hjördis e il nostro disagio. Ma proprio quella vicinanza fisica che pare a noi così politicamente (e psicologicamente) scorretta, sarà la forza interiore di queste tre donne, tutte variamente colpite. Sarà quella comunione che permetterà loro di superare le difficoltà che hanno incontrato, e di affrontare i terribili macigni che presto incomberanno su di loro. Cecilia, che si presenta come la più sconfitta dalla vita, è convinta di aver perso suo figlio perché, in realtà, non era abbastanza desiderato: il padre non lo voleva, mentre lei non era sufficientemente forte da amarlo da sola. “Per questo non ha potuto nascere, ma è stato gettato in un lavandino, oppure è stato messo in una provetta per qualche esperimento. (…) Avete buttato via quello che sarebbe dovuto diventare mio figlio, e me lo sono meritata”.

Stina, invece, autentica incarnazione della primitiva gioia di vivere, trabocca di amore per il bambino in arrivo. “E’ la cosa più bella che mi sia capitata. E la più incredibile. Tutto il resto avrei potuto più o meno immaginare in anticipo come sarebbe stato. Ma questo! Come se qualcosa scendesse su di noi e ci colmasse, qualcosa di superiore, e che però è dentro di noi, qualcosa su cui non si aveva potere, ma che comunque ci raggiungeva”.

A completare il quadro, Hjördis, arrivata in ospedale dopo un tentativo di aborto non riuscito: è arrabbiata con il mondo e con la vita. Allo stesso tempo, è autenticamente terrorizzata da ciò che le sta accadendo, vorrebbe odiare quel bambino che cresce in lei (“questo maledetto bambino”, anche se “lui, poverino, non ha fatto niente di male”). Vorrebbe perderlo, ma rifiuta decisamente di sottoporsi nuovamente allo shock e allo schifo dell’aborto – meglio annegarsi entrambi. Sarà, ovviamente, proprio lei la sola a salvare la vita che porta.

Pur così diverse, queste tre donne rideranno e piangeranno, soffrendo e sperando, disperandosi e facendosi coraggio: la vita in quella stanza d’ospedale contrasta nettamente con l’asetticità della realtà che le circonda.

La società sembra aver pensato per loro ad ogni genere di possibile efficiente assistenza, ma qualcosa manca. Vi sono medici preparati (con i loro vuoti formulari) e incoraggianti assistenti sociali, ma è un sapere che alle donne non serve – o non basta: le grandi domande che aleggiano in quella camera, ricevono solo una vuota eco dalle comparse esterne. E’ vero che, come ricorda la bionda e solerte assistente sociale, l’efficienza statale copre tutto (“Adesso la società è preparata ad aiutare e sostenere la ragazza madre nella sua battaglia per il suo bambino. Abbiamo il sussidio di maternità e gli assegni familiari, il parto è gratuito e c’è l’assistenza sociale. La legge adesso protegge i diritti dei figli illegittimi e lei avrà un tutore che l’aiuterà, che verificherà se il padre passa gli alimenti e così via. Inoltre avrà una casa dove stare, prima e dopo il parto […] Potrà chiamarsi signora e avere un piccolo appartamento. […] Può usufruire di un mutuo statale, e come ragazza madre ha la priorità sull’assegnazione della casa. […] Ci sono ottimi nidi con rette contenute per chi ha un reddito modesto”). Ma è vero anche che c’è dell’altro. Hjördis lo sa, e qui si gioca una parte importante della sua terrorizzata ribellione. “Volete costringermi a partorire, è questo che volete! Coi vostri soldi di qui e soldi di là, casa di qui e casa di là. E il vostro: Guarda come sono meravigliosi! Ma io penso che siano orribili, io! Orribili e ripugnanti, come sanguisughe che ti si attaccano e ti succhiano tutto il sangue che hai. Cosa ne sa una come te di queste cose? Tu che hai letto solo una montagna di libri seduta a una bella scrivania. Tu, tu non hai mai dimenticato il diaframma, eh? Tu non ti sei mai sentita palpare da due fottute braccia tatuate…”.
Sarà solo la comunione tra queste tre donne, al contempo Grazie e Parche, ad aiutarle. Sarà solo il coraggio reciproco a sostenerle: Cecilia, Stina e Hjördis sono contemporaneamente vittime e protagoniste di un destino che, senza apparenti e razionali spiegazioni, alterna vita e morte. E così, è la coppia Stina e Hjördis che accoglie Cecilia al suo risveglio; è il confronto e lo scambio notturno tra Hjördis e Cecilia che accompagna e veglia Stina nel parto (la donna viene addormentata mentre, inutilmente, rifiuta il minaccioso forcipe); infine Hjördis, uscendo dall’ospedale, lascia dietro di sé Stina e Cecilia, più vicine e più forti. Tutt’intorno, il mondo esterno. Gli uomini, innanzitutto, i mariti, i fidanzati, i medici – presenze varie e composite, comunque incapaci di partecipare davvero a quanto succede. Lo stesso vale, però, per le altre figure femminili, amiche, parenti o personale ospedaliero che siano. Il messaggio della cupa incomunicabilità sembra cogliere tutti e tutte coloro che non vivono nel corpo il mistero della gravidanza. Questa separazione tra l’interno della stanza e il mondo circostante è enfatizzata dal tratto tipico dei film di Bergman: anche questo è fortemente teatrale per l’unità di luogo e per la ritualità scandita da ogni immagine.
L’unico trait d’union tra le tre pazienti e il mondo esterno è dato dall’infermiera Brita, essenziale e affettuosa, angelo custode nella freddezza asettica dell’ospedale e dell’esistenza. Testimone di quella vita umana che scorre da e nei corpi delle donne, la sua è la saggezza coraggiosa che sa bene come nascita e morte siano le due facce dello stesso mistero. Un mistero tanto più fitto quanto più, specie ai suoi albori, le fa procedere intimamente appaiate. Il film ebbe uno sponsor d’eccezione: venne realizzato, infatti, con l’appoggio del governo svedese che aveva in corso una campagna per il contenimento delle pratiche abortive, all’epoca clandestine (l’interruzione di gravidanza diverrà legale nel paese solo nel 1974). Se è prevedibile il finale – proprio colei che non voleva la gravidanza sarà la sola continuatrice della vita – quello che invece sorprende ha una portata ben più generale. E’ il modo in cui la pellicola, nel suo messaggio profondamente pro life, viene costruita. Il messaggio diventa così importante proprio perché è complesso, ambivalente e – per le donne in primis – faticoso. E’ un inno alla vita, ma a quella vera, fatta anche di sconfitte e dolori. Perché quando Hjördis fugge tra le braccia dell’infermiera, non vuole tornare nella “stanza E”, in cui sembra regnare solo la morte. Perché ogni volta che la porta si apre – e a un certo punto si dovrà, necessariamente, aprire per sempre – ogni volta sembra di veder entrare Bengt Ekerot – l’attore che interpreta la Morte nel “Settimo sigillo” – per una sfida a scacchi.Del resto, come ci avverte la Isaksson nel proemio, “è misteriosa la vita, come la nascita e la morte; è misterioso che alcuni siano destinati a vivere, altri a morire. Possiamo tempestare di domande il cielo, o la scienza – nessuna risposta sarà comunque definitiva. Intanto la vita prosegue, coronando i viventi di felicità e dolore. Una cerca affetto e deve scordare il proprio desiderio, accettando la sua impossibilità a dare la vita. Una è piena di vita e non può tenere il bambino desiderato. Una, ingenua e troppo giovane, viene improvvisamente colta di sorpresa dalla vita e va a incrementare la schiera dei nascituri. La vita le corona tutte, ma non pone domande, non dà risposte, è sempre in marcia verso nuove nascite, nuove vite. Sono solo gli esseri umani che s’interrogano”. La risposta sarà dura. Solo una madre e un figlio si salvano, riuscendo a oltrepassare le soglie della vita – “coi tacchi alti e picchiettanti, inizia il suo cammino verso il mondo fuori”. Solo una. Anche questo è un onesto messaggio a favore della vita.
di Giulia Galeotti

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