Il mondo abbandona i tibetani alla repressione della CinaCina - mer 19 mar
di Fernando Mezzetti
Tratto da L'Occidentale il 18 marzo 2008
Il Tibet è solo nella ribellione contro Pechino. In Cina, per il senso di identità imperiale Han, i cinesi propriamente detti, nessuno si scalda per il Tibet mentre è in corso la repressione; all’estero, la Realpolitik limita le reazioni dei governi a contenute espressioni verbali, mentre il Vaticano, impegnato in delicati contatti, osserva il silenzio. E nessuno boicotterà le Olimpiadi.
Quel che è straordinario è che la rivolta ci sia stata. Ogni anno a marzo si hanno a Lhasa piccole manifestazioni in ricordo della fallita sollevazione del 1959, in genere agevolmente contenute e disperse dalla polizia. Questa volta, forse per iniziale esitazione nell’uso della forza, nella doppia immagine che in vista delle Olimpiadi la Cina vuol dare di sé - società armoniosa ma vigilante sulla sicurezza - la protesta si è allargata e aggravata: grazie alle immagini trapelate, è divenuta uno spettacolo internazionale della repressione che ne è seguita, mostrando una Cina repressiva e al tempo stesso impotente. Il peggio verso l’esterno e verso l’interno. Per questo, avendo addosso gli occhi del paese e del mondo, Pechino, isolata la regione, riafferma il pugno duro e non esita nel completare la repressione non soltanto a Lhasa, ma anche nelle altre province dove monaci e comunità tibetane hanno provato a sollevarsi. Non intende dare alle proteste il minimo spazio, nel timore che una certa flessibilità possa essere interpretata come debolezza.
No, non ci sarà per il Tibet una intifada o una rivoluzione arancione come in Ucraina. Qualsiasi protesta sarà implacabilmente stroncata, cercando di bloccare al massimo il flusso di notizie e immagini all’esterno, mentre è già stato sospeso il turismo verso la regione, che ha avuto l’anno scorso un milione e mezzo di visitatori.
Lo stesso capo del partito e dello stato, Hu Jintao ha costruito la sua carriera con dure repressioni in Tibet: era capo del partito a Lhasa quando nel marzo 1989 vi scoppiarono rivolte che non esitò a stroncare con lo stato d’assedio. E ciò avvenne solo poco prima delle grandi manifestazioni a Pechino sfociate poi nella strage della Tiananmen. Non c’era relazione tra i due moti: ma agli occhi dell’alta dirigenza la sua fermezza fu modello esemplare.
Sul piano interno, il potere non ha preoccupazioni. La causa del Tibet non scalda il cuore di alcun cinese, benché vi siano circa 150 milioni di buddisti, i quali, come altri credenti, possono praticare la loro religione solo se sottomessa al partito comunista. L’indifferenza, se non astio, per il Tibet, non è solo perché la propaganda parla soltanto di innocenti civili uccisi dai rivoltosi, e la Tv mostra assalti alla Banca di Cina e a negozi di cinesi. L’elemento di fondo è lo storico senso imperiale e il crescente nazionalismo Han, i cinesi propriamente detti, cresciuti nel convincimento che il Tibet è storicamente parte della Cina, benché abitato da una minoranza diversa. Ed esso è importante quale “zona cuscinetto” verso l’India, storica rivale, o altre potenze presenti in Asia centrale. Nel miglioramento generale del tenore di vita nonostante le disuguaglianze, si teme che l’instabilità possa mettere a repentaglio lo spettacolare sviluppo che già di per sé sollecita tutta la fierezza nazionale. Il partito, avendo rinunciato all’ideologia conservando l’autoritarismo, agita da tempo motivi nazionalistici, per i quali il successo delle Olimpiadi costituisce non solo legittimazione internazionale del regime, ma riconoscimento da parte del mondo dell’importanza della Cina quale nazione, e delle sue capacità organizzative per il maggior evento sportivo del pianeta. Tutto ciò è ora messo a rischio, nella comune mentalità cinese, da una piccola minoranza che addirittura protesta contro la modernizzazione portata in Tibet, e contro la libertà di movimento grazie alla quale tanti Han vi si sono trasferiti, contribuendo al suo sviluppo.
Dopo le devastazioni dell’età maoista, Pechino ha in effetti trasformato il Tibet con una modernizzazione accelerata, se non brutale. A lungo gli Han erano solo una minoranza di funzionari di partito, burocrati, militari, poliziotti. Con le riforme, la gente comune ha cominciato a spostarsi, e Pechino ha incoraggiato gli insediamenti di Han con vari incentivi, da facilitazioni fiscali e creditizie a esenzioni dalla regola del figlio unico. Ha sottratto la regione all’isolamento con una ferrovia, inaugurata nel 2005, che collega Lhasa a Pechino: un’opera di alta ingegneria, oltre mille chilometri di binari impiantati sul permafrost a oltre 4. 000 metri di altitudine. Il risultato è che i tibetani sono diventati minoranza, mentre gli Han sono dominanti come numero e come corpo sociale etnico in campo economico e politico. Scopo ultimo è l’assimilazione e la sinizzazione del Tibet, in gran parte già avvenuta.
Nella visione della Città Proibita pesano il timore di interferenze straniere come per la rivoluzione arancione in Ucraina, e l’esempio del Kosovo, da provincia serba divenuta adesso indipendente. Anche se lo stesso Dalai Lama non ha questo obiettivo, reclamando solo autonomia reale lasciando a Pechino gli affari esteri e la difesa, la Cina nutre questi sospetti, e considera interferenze straniere nell’ambito del “genocidio culturale” da lui denunciato, anche secolari pratiche religiose facenti capo a lui stesso. Seguendo i principi della reincarnazione, il Dalai Lama scelse infatti nel 1995 un ragazzo di 6 anni che viveva a Lhasa, quale Panchen Lama, il secondo monaco subito dopo di lui nella complessa gerarchia religiosa. Ma quasi subito il bambino scomparve con la sua famiglia, e di loro non si è più saputo nulla. Poco dopo Pechino nominò per quel posto un altro ragazzo, ora di 17 ani, esibito nell’ottobre scorso quale ospite d’onore al congresso del partito comunista. L’agenzia Nuova Cina ha diffuso in questi giorni la sua condanna delle proteste dei tibetani, e il suo “deciso sostegno al partito e al governo nell’assicurare sicurezza e stabilità a Lhasa”.
Senza preoccupazioni interne nella repressione, Pechino non ne ha neanche di carattere internazionale. La Cina non è la Serbia. Con riserve per oltre 1. 500 miliardi di dollari, è il maggior creditore del mondo, specie gli Stati Uniti, avendoli investiti in gran parte in bond Usa. Ha ricevuto investimenti stranieri per oltre 800 miliardi di dollari, ed è altamente integrata nell’economia mondiale: i suoi prodotti a basso costo hanno contribuito a limitare l’inflazione negli Usa e in Europa, e per alcuni settori high-tech, come telefonini e computer, è tra i maggiori produttori; ed è essa stessa sbocco di molte esportazioni occidentali.
Politicamente, ha il veto all’Onu, si è mostrata in qualche modo collaborativa sull’Iran, e tiene a bada la Corea del Nord, che anche grazie alle sue pressioni ha rinunciato, almeno dice, al nucleare, favorendo Bush nel toglierla dall’asse del male. Senza farsi condizionare da Pechino, la Merkel e Bush hanno ricevuto nei mesi scorsi il Dalai Lama, ma ora, come tutti gli altri, non possono fare di più. In Cina, per il senso imperiale Han, il Tibet è solo. Fuori, condannato dalla Realpolitik, gode soltanto di simpatia di amici impotenti
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