giovedì 20 marzo 2008

MASSACRO IN CINA

SUA SANTATITA' HA CHIESTO A NOI DI UNIRCI ALLE SUE PREGHIERE

Ormai sembra chiaro a tutti che l’Onu ha sostanzialmente deciso di voltare la testa dall’altra parte, in nome di una realpolitik che sfiora la complicità nei confronti del regime comunista cinese.

Le prove del massacro in Tibet: ma il mondo ancora non si muove Cina - mer 19 mar
di Andrea Mancia
Tratto da cronache di Liberal del 19 marzo 2008

Arrivano in Italia, grazie ad AsiaNews, le prime agghiaccianti fotografie del massacro cinese in Tibet.


Sono immagini crude ed inequivocabili, quelle inviate dal monastero di Kirti all’organizzazione Free Tibet Campaign e pubblicate nel nostro Paese dal sito di Padre Bernardo Cervellera. Mentre Pechino si affanna a negare qualsiasi forma di repressione, le foto scattate lo scorso 16 marzo nella provincia settentrionale del Sichuan testimoniano la morte violenta di almeno venti persone, tra monaci e studenti della scuola tibetana locale. Questo è già il passato, però.

Perché il presente si annuncia ancora più terribile. Ieri, dopo la scadenza dell’ultimatum imposto dalle autorità cinesi per la resa dei manifestanti, decine di prigionieri tibetani, ammanettati e con la testa fasciata, sono stati fatti sfilare su autocarri militari per le strade di Lhasa, la capitale del Tibet. Secondo i testimoni ascoltati dal quotidiano britannico The Times, si trattava di quattro camion con a bordo almeno una cinquantina di persone, soprattutto giovani e donne, che hanno percorso le principali strade della città accompagnati dal frastuono degli altoparlanti che ripetevano l’appello cinese alla resa. E mentre i prigionieri venivano sventolati dal regime per terrorizzare i tibetani, cifre discordanti si inseguivano in un macabro balletto che cercava di tenere il conto delle vittime: “soltanto” sedici, secondo Pechino; almeno un centinaio, secondo il governo tibetano in esilio, secondo il quale ieri sono stati diciannove i manifestanti uccisi da colpi d’arma da fuoco nelle provincia di Gansu.
Intanto continuano le perquisizioni a tappeto, casa per casa, per snidare i «criminali che stanno cercando di sfuggire alla giustizia», come ha dichiarato il governatore-fantoccio del Tibet, Champa Phuntsok. Se si trattasse davvero di «criminali», però, non si capirebbe il motivo per impedire ai gionalisti stranieri di raggiungere i luoghi dove si svolgono le manifestazioni. Il premier Wen Jiabao promette l’accesso al Tibet per la stampa internazionale, ma sono quando tutto sarà finito. E i giornalisti cinesi sono obbligati ad attenersi alla “versione ufficiale” del regime comunista. Gli unici brandelli di verità filtrano via Internet, ma anche sulla rete Pechino cerca in ogni modo di esercitare tutta la sua feroce censura. Un gran numero di siti è totalmente inaccessibile, tra cui (per i cinesi) quello del quotidiano inglese The Guardian che ieri ha pubblicato immagini di scontri fra monaci e polizia in un monastero del Gansu, nei pressi di Xining.

Il corrispondente Jonathan Watts è stato allontanato dalla zona e ora si trova confinato nella città di Lanzhou. Come lui, altri giornalisti stranieri si sono visti chiudere le strade di accesso ai monasteri delle aree tibetane dell’ovest cinese, con la scusa delle preservazione della «incolumità» degli stranieri. Secondo il Foreign Correspondents Club of China 25 giornalisti stranieri, fra cui 15 di Hong Kong, sono stati espulsi dal Tibet nell’ultima settimana. Dal 12 marzo, poi, il regime nega qualsiasi permesso ai giornalisti per recarsi nella regione e - da giorni ormai - l’ufficio competente non risponde neppure più al telefono. In queste condizioni è praticamente impossibile accedere a informazioni dirette su quanto sta avvenendo a Lhasa e dintorni, soprattutto dopo lo scadere dell’ultimatum. Le linee telefoniche disturbate (o del tutto inaccessibili) fanno il resto.

Su Internet i siti legati alla dissidenza tibetana sono chiusi. E quelli della stampa straniera si aprono ad intermittenza: oltre al Guardian, da ieri sono oscurati anche Bbc, Cnn e Times. Gli unici forum ancora visibili sono quelli, in lingua cinese, dove gli utenti chiedono la repressione, ancora più dura, dei manifestanti. Soltanto qualche blog isolato riesce a sfuggire alla muraglia digitale eretta da Pechino (e il sito Southasiaanalysis. org riporta qualche frammento di chat scampato alla censura). Mentre il Tibet brucia, la comunità internazionale assiste al massacro con un misto di impotenza e imbarazzo. L’appoggio incondizionato della Russia a Pechino si poteva, in qualche modo, mettere in preventivo. Quello che più preoccupa, piuttosto, è la timidezza di Europa, Stati Uniti e, soprattutto, delle sempre più inutili Nazioni Unite. È quello che l’ex sottosegretario agli Esteri, Margherita Boniver, chiama «il blando balbettio della diplomazia internazionale».

Ormai sembra chiaro a tutti che l’Onu ha sostanzialmente deciso di voltare la testa dall’altra parte, in nome di una realpolitik che sfiora la complicità nei confronti del regime comunista cinese.

L’Unione europea non va oltre una generica e «preoccupata» richiesta di «moderazione», definisce «inadeguata» la minaccia di boicottaggio delle Olimpiadi e si limita a diffondere comunicati all’acqua di rose. Gli Stati Uniti, almeno, chiedono alla Cina di «rispettare la cultura tibetana, il carattere multi-etnico della sua società» e Condoleezza Rice rinnova a Pechino la richiesta di coinvolgere l’autorità spirituale tibetana, annunciando una richiesta diretta in tal senso al ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi. Ma anche il Dipartimento di Stato ha la sue colpe. Era proprio necessario, per esempio, togliere la Cina dalla “top ten” delle violazioni dei diritti umani, proprio alla vigilia del massacro in Tibet?

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