lunedì 17 marzo 2008

VARESE NELL'AZIENDA CHE ASSUME SOLO DOWN


Varese - In questi stanzoni spartani, fra facce asimmetriche e dentature ubriache, il chirurgo plastico non saprebbe da che parte cominciare. I ragazzi, quelli disabili e quelli cosiddetti normali, non ci fanno caso. Seguono altre linee, altri pensieri, un’altra concentrazione: le mani maneggiano cavi e connettori, li inguainano, li passano sotto una macchina che congiunge i pezzi. I down, una decina, controllano un po’ tutte le fasi della produzione.

La squadra più consistente, e pure rumorosa, sta seduta a un lungo tavolaccio: Sabrina, la capofila, prende un cavo arancione, studia per una frazione di secondo un grande disegno colorato, poi esegue. Dev’essere come avere fra le mani ago e filo, ma qua si realizzano i cablaggi, come li chiamano, «nervature» che poi andranno a dare vita alle frecce o ai freni delle moto, alle caldaie, a giochi elettrici o a mille altri strumenti. Sabrina svolge il suo compito in una manciata di secondi, poi cede il groviglio a Fiorenza, che è molto più anziana e ha occhi azzurri e impenetrabili e Fiorenza, dopo aver completato la propria parte, consegna il fardello a Giada e così di mano in mano e di sguardo in sguardo fino all’altro capo del tavolone. Centinaia di volte ogni giorno, dalle 8.30 del mattino alle 5 del pomeriggio.

«Lavoro qui da tanti anni - spiega con la sua voce impastata Sabrina -. Mi piace tantissimo questa occupazione e mi piace farla bene». Giada, che ha 26 anni anagrafici, un volto senza età come tanti down e un bellissimo caschetto nero, la squadra. E sorride. Di un sorriso che non è prestampato. Vanno d’accordo, le due, e si spalleggiano l’un l’altra in quell’Arca di Noè che vuol essere un’impresa.
«L’equilibrio qui dentro è precario - spiega il presidente di Solidarietà nuova Enrico Novara - ma cerchiamo di stare in piedi secondo le leggi del mercato». Sfida acrobatica per questa cooperativa sociale che dà occupazione a duecento persone, quasi per la metà disabili.

Sabrina, Giada, Ivan, il cappellino calcato in testa a rovescio come un ciclista, e gli altri operai la loro scommessa però l’hanno già vinta. Senza retorica: timbrano il cartellino, fanno la loro giornata, incassano a fine mese uno stipendio che a volte supera i mille euro. Non è poco, anzi è moltissimo, per uomini e donne marchiati dai loro lineamenti, impacciati nei movimenti, espulsi già sui banchi delle elementari dal circuito scolastico, costretti dal destino avaro ad elemosinare gli affetti.Qua dentro entrano le logiche spietate del mondo di fuori, ma i down e tutti gli altri - a formare un catalogo scoraggiante di avversità e sindromi - trovano il loro spazio, mettono a frutto le proprie abilità, ricevono quella scintilla di amore e stima che moltiplica le energie. E, insospettabili, mostrano la dignità, anzi l’orgoglio di chi non vuole ammainare la bandiera. Come Marco che rivendica quasi il suo essere down: «Io ho un cromosoma in più». In più, non in meno, a tentare un bilancio non negativo di un’esistenza tutta in salita.

Francone, qualche metro più in là, infila i cavi dentro la guaina. Impegno assai più facile rispetto a quello dei colleghi che se la vedono con i connettori. Le mani di Francone però combattono con quei fili che sgusciano come saponette: «Sono come le trecce delle donne - se ne esce lui divertito, mentre gli occhi cercano di mettere a fuoco l’interlocutore -: scappano via. Ma io sono abituato, lo faccio da tanto tempo».

Si passa sotto un arco e si entra in un altro ambiente. Una ragazza saluta con un cenno, poi sprofonda di nuovo nella propria occupazione: unisce due o tre cavi, li posiziona sotto il meccanismo di una macchina che scende rapida e li unisce. «È sordomuta - spiega Marta Simonetto che coordina il reparto - e va avanti così per ore e ore senza perdere un colpo. In generale - aggiunge Simonetto - le persone qua si impegnano allo spasimo e si intristiscono quando vanno a casa». E come studenti salgono, docili, sul pulmino che le riporta alle loro famiglie o agli istituti in cui vivono.
«Facciamo dieci milioni di fatturato - riassume Novara - e non è facile competere con chi delocalizza, magari in Romania. Qua un disabile ci costa 3 euro l’ora, col contributo della Regione, all’Est siamo sulle stesse cifre e non c’è bisogno di contributi».

Alle cinque i down e tutti gli altri raccolgono i loro fagotti, i loro zaini colorati, le loro speranze e se ne vanno fra saluti e abbracci. Agnese, impiegata, affronta senza preamboli il giornalista: «Sono down e stamattina ho letto sul giornale la proposta del chirurgo che vorrebbe ritoccare i lineamenti della figlia». Agnese, come Ophelia, ha occhi orientaleggianti, mascella forte, dite corte. Ma ha anche le idee chiare: «Io mi sono accettata come sono. E credo che il professore inglese dovrebbe aiutare la figlia Ophelia a crescere nello stesso modo. Cambiare fuori non serve». Poi Agnese s’avvia verso la stazione di Venegono. Come una pendolare qualsiasi.


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