di Ferdinando Adornato
LIBERAL del 14 marzo 2008
Aldo Moro non troverebbe posto nel Parlamento di oggi. Certamente non nel Pdl né nel Pd. Al massimo potrebbe essergli offerto un posto da “professore indipendente”, una sorta di fiore all’occhiello utile a compensare la ben più significativa quantità di candidature assai poco eccellenti.
Quel che è certo è che egli non potrebbe in nessun modo aspirare ad alcuna leadership nelle due liste più grandi. Moro è strategia, Moro è valori, Moro è cultura, Moro è senso della storia. Tutte caratteristiche che non appartengono più all’attuale configurazione delle leadership politiche.
Oggi, come si sa, la scena è dominata da spot, illusionismi, effetti speciali. Il corpo di Aldo Moro si è spento in un tempo nel quale la politica sapeva, purtroppo, diventare anche tragedia. Ma la sua anima non sopravviverebbe neanche oggi, quando la politica scivola sempre più spesso nella farsa. La nostra è senz’altro una paradossale provocazione. Eppure fotografa in modo incontestabile la realtà di un Paese che, nei trent’anni che ci separano dalla strage di via Fani, ha maturato una sorta di “rottura antropologica” della sua rappresentanza. Un Paese nel quale la qualità della politica è ormai roba d’archivio.
Conforta apprendere dai sondaggi che i diciotto-ventenni, quelli che il 13 aprile voteranno per la prima volta, scelgono i partiti che esibiscono un più marcato orientamento etico. Ma non basta a modificare un quadro dominato da una circostanza assai singolare, per non dire inquietante: i due partiti più grandi, il Pdl e il Pd, sono letteralmente “senz’anima”. In altri termini la loro identità politico-culturale è sfuggente, indecifrabile; nella migliore delle ipotesi, è ambigua. Cercheremo di dimostrarlo. Ma anticipiamo subito la tesi finale: possono promuovere una nuova qualità della politica (chiesta a gran voce da tutti gli italiani) partiti che non hanno neanche chiara la loro identità e i loro valori?
Cominciamo dal Pd di Veltroni. E’ certamente meritorio che il suo nuovo cammino sia iniziato rompendo con la sinistra radicale. E non sbaglia il suo leader ad esaltare questo “tratto particolare” della sua carta d’identità. Ma non basta, perché a questo modo si esibisce soltanto un’identità “negativa”: non siamo radicali, non siamo antagonisti, non siamo veterocomunisti. Un passo avanti, certo: ma l’identità positiva qual è? Non è per niente chiaro. Il Pd, infatti, non è un partito liberale.
Forse si può dire che sia un po’più liberale del cocktail di prima tra Ds e Margherita, ma sarebbe impossibile identificarlo come un partito che affondi le sue radici nei valori del liberalismo. Nessuno dei suoi dirigenti, del resto, accetterebbe tale definizione. Ma il Pd non è neanche un partito di ispirazione cristiana. Forse si può dire che è anche “un po’cristiano”, che evita cioè di apparire un partito anticlericale, ma non si può certo comporne un identikit cristiano o popolare nel senso europeo del termine. Infine: il Pd non è neanche un partito socialista.
Anche qui si può forse dire che è “un po’ socialista” e “un po’laicista” (magari un po’ di più di quanto sia liberale e cristiano) ma è nota la fiera resistenza, prima di Prodi e oggi di Veltroni, a certificare l’appartenenza del Pd alla famiglia socialista europea. Sia l’uno che l’altro, coadiuvati da Rutelli, hanno anzi sognato, sarebbe meglio dire vagheggiato, l’improbabile nascita di una nuova “Internazionale democratica”.
Ecco allora il cuore del problema: l’aggettivo scelto per definire il partito, il mitico “Democratico”, è abbastanza generico per poter pascolare la propria identità nelle sempre fertili terre dell’ambiguità.
Esso acquista senso, e diventa persino suggestivo, solo se consente un forte richiamo all’esperienza politica americana. Ma tralasciando pure di evidenziare le fortissime differenze esistenti tra qualsiasi partito americano e qualsiasi partito europeo, va detto che, oggi, neanche l’evocazione del Partito democratico americano è tale da risolvere con chiarezza il rebus dell’identità. Forse Veltroni pensa all’epoca della sua adolescenza, all’America di John Kennedy (anche se da ultimo si è accontentato di Lyndon Johnson), e di Luther King, all’America della nuova frontiera. Ma gli Stati Uniti dei Democrats non sono più gli stessi di allora.
Negli anni Ottanta è arrivato Reagan: e ha mutato tutti i paradigmi delle culture politiche mondiali, ivi comprese quelle dei suoi rivali interni. In economia è morto Keynes ed è resuscitato Hayek. Nel rapporto tra morale e politica, l’America dei diritti ha ceduto il passo a quella dei doveri. In politica estera i repubblicani hanno sottratto ai democratici il primato wilsoniano dell’interventismo liberale. Alla fine di questo ciclone ideologico non si sa più bene cosa voglia dire “Democratico” neanche in America, tanto che oggi, in quel partito, la sfida per la Casa Bianca si gioca tra una pragmatica e cinica signora amante del potere, una donna, appunto, senza identità, e un giovane uomo di colore che ha il suo maggiore appeal proprio nell’evocazione kennedyana.
Esibendola, Obama può forse convincere un Paese stanco di essere governato da due sole famiglie, i Bush e i Clinton: ma non riuscirà a risolvere la crisi d’identità dei Democrats. Il fatto è che, dopo Reagan, l’America non si governa senza Reagan. (Una riflessione tra parentesi sulle elezioni americane. La kennedyana Camelot dell’integrazione ha fatto figli: e un nero oggi può diventare presidente. Probabilmente se la vedrà con un reduce del Vietnam. Paradossi della storia. Gli Stati Uniti sono sempre capaci di produrre simboli carichi “di valore” e di qualità politica. Noi qui, ai confini dell’Impero, non riusciamo neanche lontanamente a stargli dietro. E’ dunque inutile che cerchiamo di imitarli).
Ma veniamo al Pdl. Se Sparta piange Atene non ride. Forza Italia era chiarissimamente un partito liberale. Ma oggi, dopo la precipitosa fusione con An nel Popolo della Libertà, si può dire la stessa cosa? Come è stato già scritto sulle colonne di liberal, ci sono numerosi segni che dicono il contrario. La svolta protezionista e antiglobal del principale esponente liberale di Fi, Giulio Tremonti. La posizione “nazionalista” a difesa dell’italianità di Alitalia presa da Silvio Berlusconi. La candidatura di Loreno Bittarelli, leader della rivolta antiliberale dei tassisti. Infine, la nefasta candidatura di Ciarrapico. Non sono segni da poco soprattutto se si tiene conto del fatto che Berlusconi ha cessato da tempo di evocare la famosa “forza del sogno” della rivoluzione liberale.
Si può anche sospendere per ora il giudizio finale, ma l’impressione è che, dopo la nascita del listone con An, il progetto di un partito liberale di massa abbia fatto giganteschi passi indietro. Ma se non è più così chiaramente liberale, può il Pdl definirsi allora un partito d’ispirazione cristiana? Certamente può farlo meglio del Pd e non c’è dubbio che sono tantissimi, al suo interno, i dirigenti e i militanti cattolici o che si ispirano al cristianesimo. Ma la rottura con l’Udc (incomprensibilmente voluta da Berlusconi e Fini) e la definizione scelta dal Cavaliere per il suo partito come “monarchico” nella gestione e “anarchico” nei valori, hanno tolto ai settori cattolico-liberali di Forza Italia la primogenitura e, con essa, qualsiasi forza alla loro bandiera valoriale.
Ma c’è di più: può bastare oggi a definire un partito come cristiano il pilatismo di proporre ai propri deputati la cosiddetta “libertà di coscienza” su tutti i temi eticamente sensibili? Finchè sono in discussione divorzi brevi o lunghi, tutto può filare liscio. Ma quando, come oggi capita sempre più spesso, arrivano in Parlamento leggi che riguardano la vita e la morte, l’invadenza della tecnologia sui corpi umani, lo statuto dell’embrione, la possibile alterazione del ciclo naturale dell’esistenza e finanche la clonazione come può un partito cristiano lavarsi le mani con la libertà di coscienza?
Si può immaginare una teoria politica che dicesse: «se tu non vuoi uccidere fai pure, ma non togliere a me il diritto di farlo»? Non è un paradosso: è esattamente l’implicita assurda tesi di tante perorazioni laiciste. Sulla vita e sulla morte non c’è libertà di coscienza. Non c’è né per i cristiani né per i liberali. E non ci dovrebbe essere per nessuna persona di buon senso. Eppure è proprio questa la linea scelta prima da Forza Italia (e già contestata tra gli altri da Marcello Pera) e adesso dal Pdl.
La ragione di questa grave ambiguità è chiara. Non è etica, è puramente politica. Il fatto è che tra la corrente cattolica di Forza Italia e quella socialista non si è mai riusciti a trovare una sintesi politico-culturale. Così per non entrare in urto con nessuno si è scelta questa strada di mediazione. Mai sui valori di fondo della vita si può mediare? Lungo questa via anche il Pdl, al pari del Pd, si può definire un partito “un po’ cristiano” e “un po’ socialista”.
Se si aggiunge che dei suoi due principali leader, il primo, Berlusconi, non ha mai voluto spendere parole chiare sui temi etici e il secondo, Fini, si è schierato nel referendum del 2006 a favore della fecondazione assistita, si ha il quadro di un partito nel quale l’identità cristiana fa capolino solo a corrente alternata a seconda delle circostanze e che appare costretto, anch’esso, a praticare una sorta di “lottizzazione dei valori” tra cattolici e laicisti, nascondendo la propria anima dietro lo scudo della realpolitik.
Grandi senz’anima: così appaiono i due colossi elettorali del 13 aprile. Contenitori senza chiari contenuti. Simboli (anzi, marchi come direbbe il Cavaliere) senza identità. Ma come possono definirsi, due macchine politiche la cui fisionomia culturale è così ardua da decifrare e che pure sembrano attirare l’attenzione di milioni di italiani? La politologia non viene in soccorso se non attraverso un’unica possibilità: si tratta di due “partiti-potere” per i quali i valori, la cultura, l’identità, il senso della storia (che Aldo Moro riposi in pace) sono soltanto “funzioni” secondarie dell’obiettivo primario: la conquista delle leve del comando.
Due oligarchie rivali (senza più neanche l’appesantimento degli “apparati”) che pretendono dagli elettori carta bianca senza più neanche fare la fatica di presentare loro un chiaro progetto di governo. C’è da dire che, nel 2001 e nel 2006, Berlusconi non era incorso in tale paradosso; ma oggi la fisionomia della sua leadership è cambiata. L’”utilità del voto” (per chi lo riceve, naturalmente) non la sua “bontà” è la colonna sonora dei partiti-potere. La forza dei numeri (sondaggi e voti) non la qualità della politica è il loro passe-partout (soprattutto in tv). Le primarie (finte) e i gazebo (manipolabili) non le istituzioni sono il loro habitat.
Immaginiamoci allora cosa potrebbe succedere se questi due partiti-potere senza identità decidessero di stringere tra loro un accordo di potere. Una grande coalizione, che è sempre un ripiego, per non diventare un male ha bisogno di più democrazia, più trasparenza, più qualità della politica, più valori. Cose che oggi, come detto, non circolano. La decadenza della politica, l’opacità e l’ambiguità delle sue identità rischiano, dunque, di aprire un fase ancora più difficile della democrazia italiana. Leggere con intelligenza gli avvenimenti. Questa è diventata, in questi trent’anni, la frase-simbolo del grande statista democristiano. Chi ha a cuore la politica deve seguire, nonostante tutto, il suo consiglio.
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