domenica 15 marzo 2009

IL BENE DEI SUOI MALATI ANCHE DI CHI NON SI VUOL BENE

Eutanasia - sab 14 mar
L'unico vincolo per il medico che voglia essere taledi Francesco D’Agostino
Tratto da Avvenire del 13 marzo 2009

Sostenere che la vita umana sia indisponibile sarebbe un «obbrobrio»: così, col solito lessico esasperato dei radicali, si è espressa una senatrice della Repubblica.

Naturalmente la questione non è di lessico, ma di sostanza e la sostanza della questione è chiarissima: nessuno può legittimarsi o può essere legittimato da chicchessia a disporre della vita, della vita altrui così come della propria. Se esiste infatti un principio «non negoziabile» è proprio questo; e non per ragioni «confessionali» (come i laicisti si affannano inutilmente a sostenere), ma per laicissime ragioni giuridiche e antropologiche.


Per ragioni giuridiche innanzi tutto, perché se si ritiene disponibile la vita, cioè il massimo «bene» a nostra disposizione, si devono poi per coerenza ritenere disponibili il corpo, i suoi organi, la libertà personale e tutti quei diritti che non a caso siamo abituati a qualificare come «inalienabili». Alle ragioni giuridiche si uniscono poi essenziali ragioni antropologiche: chi ritiene di avere il diritto di poter disporre della propria vita, arriva di fatto a disporre (magari senza rendersene conto) di tutta la rete di relazioni interpersonali (familiari, amicali, lavorative, politiche, sociali) al cui interno egli si è formato come persona e che hanno contribuito a costruire la sua identità.

Uscendo da questo mondo, e ritenendo di averne il diritto, egli si comporta ingiustamente con tutti coloro che hanno interagito nel passato e che potrebbero nel futuro interagire con lui, che cioè hanno o comunque potrebbero aver bisogno di lui.

Con buona pace dei laicisti, questo argomento, l’argomento più antico e più convincente contro un preteso diritto al suicidio, non è cristiano, ma aristotelico.

Ecco perché menti più sottili di quella della senatrice citata all’inizio stanno bene attente a parlare di un diritto alla «disponibilità della vita» e si limitano a rivendicare il diritto che avrebbe ogni persona di rifiutare le cure, anche salvavita. Diritto indiscutibile, soprattutto se presentato nella sua versione corretta, quella della nostra Costituzione, che si limita a proibire ogni trattamento sanitario coercitivo, se non imposto dalla legge. Una volta però che si riconosce l’esistenza di un diritto, bisogna poi individuare le condizioni concrete del suo possibile esercizio. Nel caso del rifiuto delle cure, queste condizioni sono ardue. Infatti, il soggetto che esercita il diritto al rifiuto delle cure non può che essere o sano o malato. Nel primo caso il suo rifiuto (formulato attraverso dichiarazioni anticipate di trattamento) sarà inevitabilmente ipotetico e generico: nel momento concreto in cui ad esso si dovesse dare seguito bisognerà esercitare la massima prudenza e non dare per scontato né che la volontà pregressa equivalga ad una volontà attuale né che un’indicazione anticipata e generica valga quanto una richiesta attuale e precisa.

Se invece il rifiuto delle cure fosse attuale e provenisse da un malato cosciente e competente, bisognerà tener conto che tale rifiuto proviene da una persona che, colpita da malattia grave, spesso terminale, è ineluttabilmente (o comunque con molta probabilità) una persona fragile, debole, depressa, impaurita, suggestionabile, spesso incapace di valutare oggettivamente la sua situazione clinica, bisognosa di intensa assistenza e dalla volontà facilmente manipolabile.

In un caso come nell’altro il rifiuto delle cure non potrà mai essere inteso come perentoriamente vincolante: esso dovrà sempre essere attentamente e in piena autonomia vagliato dal medico. Questo è il cuore bioetico di qualsiasi possibile legge sulla fine della vita: il più grave degli errori che un legislatore possa commettere è quello di porre al suo centro l’ astratto diritto all’autodeterminazione del paziente piuttosto che il concreto dovere del medico di rispettare il suo giuramento ippocratico, che lo vincola a lottare sempre e comunque per il bene dei suoi malati. Una lotta limpida, che dovrà essere doverosamente attenta alle richieste del paziente e pronta a rinunciare a qualsiasi forma di indebito accanimento terapeutico, ma pur sempre una lotta senza ambiguità per la difesa di quel bene indisponibile che è il bene della vita.

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