Osservatore Romano, 11 marzo, 2009
di Carlo Bellieni
Il dibattito sul diritto alla salute e in particolare sulla salute riproduttiva viene spesso ricondotto a un problema di scelte personali, supponendo che queste siano costantemente consapevoli e dunque libere. In realtà le cose appaiono diverse, secondo recenti ricerche sulla diagnosi prenatale delle malattie genetiche, diversa dalla diagnosi prenatale fatta a scopi immediatamente curativi per il bambino.
La diagnosi prenatale infatti può servire a curare gravi patologie della madre e del bambino e in questo è un grande successo; ma oggi al suo interno si fa largo la tendenza a uno screening di massa con ecografie mirate e analisi del sangue per le malattie genetiche fetali, verso le quali al momento non esiste terapia. Questo desta molte perplessità, sia per le conseguenze eugenetiche che se ne possono trarre, sia perché vari studiosi si domandano se l’accesso a questo esame genetico a tappeto sia realmente libero o frutto di un certo clima culturale. A lanciare l’allarme sono stati nel 2008 alcuni studiosi francesi sulla rivista “Fetal Diagnosis and Therapy”, giungendo a risultati sconfortanti: “È difficile per le pazienti esercitare la loro scelta autonoma” riguardo i test suddetti, e “troppe di loro (82 per cento) considerano questi test un obbligo”. Fa eco a questo un altro studio, questa volta greco (di Kleanthi Gourounti nel 2008) in cui si conclude che “molte donne mancano di informazione, soprattutto sugli scopi e i limiti diagnostici dello screening ecografico di translucenza nucale”, esame fatto per individuare la sindrome Down. L’informazione sullo screening è carente anche per una rassegna della letteratura scientifica fatta da Katja Dahl nel 2006: “Il 29-65 per cento delle donne non conosce l’esistenza di falsi negativi e il 30-43 per cento dei falsi positivi. L’11-53 per cento ignora il rischio d’aborto in seguito all’amniocentesi”.
A riprova che l’approccio di massa in certi Paesi possa essere discutibile, uno studio olandese pubblicato su “Prenatal Diagnosis” del 2005, invece mostra che, dopo una accurata informazione, solo il 46 per cento delle donne accetta uno screening prenatale per la sindrome Down. Gli autori spiegano che “accettare lo screening non è routine per le donne olandesi”, ma solo in parte per motivi di rifiuto di un eventuale ricorso all’aborto. “Nel nostro studio le donne hanno ricevuto un’informazione equilibrata sui pro e i contro del test, mentre questo potrebbe non essere così in Paesi dove lo screening prenatale è routine. Dunque, le donne del nostro studio potrebbero essere più consapevoli che il test in sé non dà rassicurazione, ma solo la stima di un livello di rischio”.
Bisogna allora domandarsi nella coscienza che non si tratta di un banale esame, ma di un delicato test genetico con implicazioni psicologiche e affettive profonde: l’esame a tappeto delle caratteristiche genetiche del figlio è davvero una consapevole richiesta delle donne? Oppure, come riporta lo studio della Dahl, “per evitare alle donne di partecipare passivamente agli esami prenatali, un dibattito pubblico deve assicurare le condizioni per accettare o rifiutare i test offerti”? Anche perché, aggiunge lo studio, “il basso livello di conoscenza che abbiamo trovato in questa ricerca può essere spiegato da un’informazione che non aiuta un consenso informato nella diagnostica prenatale”.
Quelle ora proposte non sono domande cui si può oggi rispondere semplicisticamente dicendo: “La scienza ci dà gli strumenti, perché non usarli?”, dal momento che entrare nella privacy genetica di un individuo non è cosa da poco, considerando anche che non è detto che per tutti sia automatico voler accertare la “normalità” come primo passo per accettare il figlio.
Infatti non tutti sono d’accordo sull’eticità di uno screening di massa: un recente studio fatto su quaranta centri laici di bioetica in Inghilterra ha mostrato che solo il 44 per cento dei bioeticisti intervistati reputa etico lo screening (”Journal of Clinical Pathology”, 2003), e su “Human Reproduction” del 2003 Julian Savulescu spiegava che non si devono dare informazioni prenatali se queste non sono esplicitamente richieste.
C’è chi solleva dubbi sul fatto che la richiesta dello screening della popolazione venga direttamente dalle donne. Carine Vassy su “Social Science e Medicine” del 2006 analizzò come sia avvenuta la diffusione dello screening prenatale per la sindrome Down in Francia e le conclusioni del suo studio sono allarmanti: “Le donne incinte e la popolazione non sono stati consultati sull’introduzione di queste innovazioni nel sistema sanitario. Solo alcune associazioni di genitori di disabili lo sono state di recente. Le donne incinte hanno fatto quello che i promotori si aspettavano: test e poi screening in numero crescente. Parte della clientela era interessata dalla possibilità di evitare di avere un bimbo Down. Altri possono aver usato i test con indifferenza o ignoranza, o per assecondare il parere dei dottori. L’aumento di numero dei test fatti ha permesso ai loro promotori di dire che ce n’era richiesta da parte della società”.
Certo che molte donne hanno accolto favorevolmente lo screening prenatale, che in casi selezionati può far superare stati d’ansia. Ma ci inquieta pensare che altre donne siano prese loro malgrado in un meccanismo culturale che quasi obbliga a mettere al mondo un figlio “conforme”: “La medicina riproduttiva (…) è sia una scelta del consumatore che una forma di controllo sociale, forgia la cultura ed è un prodotto della cultura” (Casper, 1998, citato in Clare Williams, “Social Science and Medicine”, 2005). D’altronde, riporta Diane Beenson su “Medical Ethics” del 2000, “le donne trovano difficile rifiutare i test genetici perché accettarli sembra l’unica opzione scientifica. Secondo certe ricerche, le donne che rifiutano il test sono a rischio di essere biasimate se poi hanno fatto nascere un figlio malato. Le donne che scelgono la diagnosi genetica e l’aborto selettivo rispondono a un contesto sociale in cui i disabili non sono valutati al massimo” e “con il 97,5 per cento di donne che accettano l’offerta di screening, il contesto è diventato quello di uno screening di routine” (Clare Williams, citato).
Recentemente, il presidente del Comitato di Bioetica francese, Didier Sicard, così si esprimeva: “In Francia la generalizzazione dello screening è certamente basata sull’essere solo una proposta, ma in pratica esso è diventato quasi obbligatorio” (”Le Monde”, 3 febbraio 2007). Certo, nessuno pensa minimamente di negare il diritto a conoscere; semplicemente si vorrebbe che non diventasse automatico “accertare” la normalità come preambolo all’”accettare” il figlio, mentre è proprio questo il rischio che si corre. Soppiantare quest’automatismo renderebbe anche la cura della gravidanza meno “direttiva” e “paternalista”: le donne chiedono più “supporto sociale” che “controllo sociale” verso la loro maternità, e la pressione sociale per un “figlio perfetto” rischia di offuscare questo loro diritto.
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