martedì 18 settembre 2007

DR. HAUSE NON E' UNO STINCO DI SANTO MA PIACE AI CATTOLICI

La trasgressione di dr House, medico che in tv non dice cose da tv
IL FOGLIO 18 settembre 2007

Di Carlo Bellieni


House non è un medico da imitare, ma è un pugno al conformismo: guardarlo è imparare che oggi la parola trasgredire non ha cambiato forza, ma ha cambiato bersaglio, dirigendosi contro il nuovo potere: il relativismo etico.





“Essere diversi abitua all’idiozia della gente… ma è comunque meglio che essere idioti!” Così si esprime nell’ultima puntata di “House M.D.” trasmessa in Italia una signora affetta da nanismo che il dr House sta provocando in malo modo. E’ una risposta apparentemente innocua, ma invece è un fulmine nel nostro pensiero borghese: un disabile che rivendica l’orgoglio della propria vita “diversa”… in un’epoca in cui sembra che i “diversi” –scampati alla selezione prenatale- debbano scusarsi di essere al mondo: forse non lo capiamo subito, ma al fondo sentirlo ci colpisce e fa pensare.

Non capita mai, ammettiamolo, di sentire giudizi del genere e tantomeno in TV, ma la serie “dr House” ci riesce. Come, quando, in una puntata di fronte alla possibilità di amputare un arto ad una bambina, si sente la solita domanda: “Ma che qualità di vita avrà?”, domanda cruciale, dato che oggi si decide la qualità della vita dalle cose che si possono fare, e su questa base si spinge a decidere di interrompere le cure “per non accanirsi”.

Fin qui nulla di strano se, alla domanda, una collaboratrice di House non rispondesse: “La vita ha sempre delle qualità” (che non è sentimentalismo come ci vorrebbero far credere certi benpensanti, ma è quello che ci testimoniano gli atleti delle paralimpiadi o tanti disabili).

Ecco: quello che colpisce milioni di persone incollandole alla TV a guardare la storia di un medico zoppo, acido, scostante è questa inusitata trasgressione delle regole del relativismo etico. Un tempo per essere trasgressivi si doveva parlare contro la disciplina, contro la patria… oggi si deve parlare contro il sesso incestuoso, contro la droga, contro l’eugenismo che sono ormai pane quotidiano: e House lo fa. House rianima il jazzista paralizzato, nonostante ci sia un “testamento biologico” che impone di “lasciarlo morire”; sta a fianco di una mamma che sceglie di morire pur di non abortire.

House salva un bambino autistico da un’infezione: è un altro “diverso”, la cui vita è una sfida alla morale corrente, e infatti dice all’amico Wilson: “di solito a questo punto la gioia è 10, mentre qui è solo 6”… e di norma finirebbe qui. Ma la sceneggiatura ha un guizzo e di colpo il bambino si stacca dai genitori, si avvicina ad House e lo fissa negli occhi (i bambini autistici raramente fissano lo sguardo altrui e lui non l’aveva mai fatto) e regala a House la sua Play Station… i genitori corrono da lui e in lacrime l’abbracciano piangendo dalla commozione; House conclude “Ecco, questo è un 10 pieno!”.

Certo, non vogliamo santificare House: a tratti flirta con l’eutanasia o con l’aborto, e in questo non lo seguiamo di certo. Ma sarebbe così stupefacente sentirlo rivolgersi contro la fecondazione eterologa (svelerà l’identità del donatore di sperma per dissuadere la collega dal farla) o contro il sesso violento, se fosse già un sant’uomo? Se fosse un santo non colpirebbe lo spettatore quando si fa interrogare dalla manina del feto che sbuca dall’utero aperto, e gli abbraccia il dito della mano… e lo lascerà incantato ore e ore a riguardare quel dito e domandarsi il mistero di una vita nascosta ma presente.

Non tutto è bene in House: sbaglia, si droga, ma ci colpisce la sua capacità d’immedesimarsi nel paziente, attraverso il proprio dolore fisico e psichico. In un mondo medico in cui sembrano vincere i dettami del relativismo etico, che si riducono ad uno, cioè “lasciare il paziente nella solitudine a decidere”, House va dolorosamente controcorrente. Va dalla manager depressa dicendole disperato che avrebbe mentito per farle avere un trapianto di cuore, ma prima vuole ridestare in lei l’attaccamento alla vita (“Ma tu vuoi vivere? Devi dirmelo! Perché io… non lo so!”) per sentirlo ridestare in sé. Non è il medico-fornitore-di-un-servizio, che lascia solo il paziente di fronte ad una diagnosi, “libero” se scegliere nella solitudine se vivere o morire (ma chi è libero quando è solo?). “Non esiste una morte dignitosa –grida al paziente che vorrebbe smettere le cure e lasciarsi andare- la morte è sempre orrenda”. E’ paternalismo? Forse, ma sinceramente nell’epoca degli ospedali-aziende non fa male.

E mentre suda con lo sguardo perso dopo aver assunto il Vicodin, risuonano in sottofondo le parole della canzone “Desire” di Ryan Adams: “Vago senza direzione e motivo./ Cos’è questo fuoco che mi brucia lento?/ Oh desiderio!/ Non me lo mostri, ma è Dio che prego/ affinché tu mi trovi, mi veda, tu corra/ e non ti stanchi mai. /Oh desiderio!”. Ecco perché può scherzare sopra le righe con la signora alta 120 cm: perché dal fondo del suo dolore sa che questa paziente è proprio come gli altri… mentre noi distinguiamo, “tolleriamo il diverso”, e isoliamo più con le nostre parole che House con la sua finta assenza.

House non è un medico da imitare, ma è un pugno al conformismo: guardarlo è imparare che oggi la parola trasgredire non ha cambiato forza, ma ha cambiato bersaglio, dirigendosi contro il nuovo potere: il relativismo etico.




Carlo Bellieni, MD
Neonatal Intensive Care Unit
Policlinico Universitario "Le Scotte"
Viale M. Bracci,
53100, Siena

Membro Corrisp. Pontificia Academia Pro Vita
http://carlobellieni.splinder.com
Tel +39 0577 586550
Fax +39 0577 586182
domenica, 16 settembre 2007
Dr. House. Esiste un rapporto tra televisione e bioetica?
ROMA, 9 settembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento, in risposta alla domanda di un lettore, di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
Leggo sempre con attenzione la rubrica di Bioetica di ZENIT. Vorrei porvi alcune domande in merito al rapporto tra la bioetica e i mezzi di comunicazione di massa. Può esserci un rapporto tra TV e bioetica? Si può discutere criticamente dei santuari dell’etica alla moda (eutanasia, droga…) in uno spettacolo televisivo? Cosa pensate della serie “House, Medical Division”, trasmessa da tre anni dalla Fox?


Sì, può esserci un rapporto tra Tv e Bioetica, ed è il caso della serie “House, Medical Division”. E’ una serie che mostra qualcosa interessante: uscendo fuori dal coro, non si lascia prendere dall’osanna verso le tre ben note cuspidi del relativismo etico in medicina: l’autonomia del paziente come ultimo tribunale, il medico come “fornitore di un servizio” e la perdita di capacità di dare giudizi morali sui comportamenti in medicina. Strano, sicuramente, ma è ancora più strano (e coinvolgente) che le azioni e i giudizi non “politically correct” (pur con qualche eccezione) vengano da un personaggio in costante lotta col mondo. Ma proprio qui, nel disegnare la trasformazione del protagonista, i suoi dubbi e i suoi limiti sta la forza della serie.

Il telefilm in apparenza è un’apologia del distacco e dell’assenza: narra di un medico (Gregory House) misantropo e scontroso che non vuol avere contatti coi pazienti. Questo distacco (dovuto alla sofferenza esistenziale e fisica) però è solo apparente: pur rimanendo burbero e asociale, ogni volta insistentemente cerca di fare i conti con il fondo della persona che si trova a curare. Parte dalla propria sofferenza per riconoscere quella degli altri e talvolta è proprio questa immedesimazione che gli fa vedere cose che agli altri sfuggono. Parla in modo brusco con i pazienti per convincerli ad accettare una cura, non per assecondarli: sa infatti che esiste un buon comportamento medico ed uno sbagliato e vuole che i suoi pazienti scelgano il comportamento buono. Ma anche perché nella risposta del paziente cerca con la massima evidenza di trovare una risposta per sé. E’ paternalismo? Forse, ma è di gran lunga migliore di chi lascia il paziente di fronte ad una diagnosi fatta di parole e cifre, solo, “libero” di scegliere se morire o vivere. Insomma: spesso le parole, e certe parole dolci e pietose molto di moda, sembra dirci con un paradosso l’autore del telefilm, servono (quelle sì!) a mascherare la distanza tra le persone.

Tutto questo viene ottimamente sottolineato dalla colonna sonora, ricca di musiche a tema religioso o che mostrano l’insoddisfazione di una vita senza senso (per esempio la bellissima “Desire” di Ryan Adams o “Hallelujah” di Jeff Buckley).

Notiamo due punti chiari in chi ha creato il telefilm: primo, che il medico non è il “fornitore di un servizio” cui ogni richiesta è equivalente, ma sa riconoscere una buona risposta da una cattiva risposta e sa trovare la forza di non fornire la seconda: House intuba il jazzista nonostante tutti abbiano paura di trasgredire il suo “testamento biologico”; e anche la sua collega “Cuddy” non è da meno: alla richiesta di un’iniezione di morfina, in realtà gli inietta un placebo. Secondo, che il rapporto tra medico e paziente non è mai a senso unico: non c’è solo chi dà (il medico) e chi riceve (il malato), ma il medico o si trova nella posizione di imparare dal malato la sua forza e il suo impegno, il suo modo di comunicare e i suoi segnali nascosti… o dà un trattamento mozzo, al limite dell’inefficace. House cura il bambino autistico riuscendo (lui solo) ad entrare in contatto con lui; non solo ma alla fine, quando sembra accodarsi al pensiero che forse curare un bambino dalla difficilissima gestione è una specie di accanimento terapeutico, il bambino lo avvicina, lo fissa negli occhi e gli regala il suo giocattolo... stupendo tutti (un bambino autistico raramente fissa lo sguardo altrui e intrattiene rapporti) e riempiendo di gioia, pur nella certezza della difficoltà estrema, i suoi genitori; ma anche fornendo a House spunto per una riflessione su di sé. Ma House va anche dalla manager depressa che aspetta di esser messa in lista per il trapianto di cuore e le domanda urlando “Ma vuoi vivere? Dimmelo, perché anch’io non lo so!” e non lo fa perché questa stenda un “testamento biologico”, ma per risvegliare in lei (e in sé!) l’amore alla vita.

Certo, House non è un santo e talvolta sbaglia le scelte morali. Ma se si trattasse di un santo, sarebbe così stupefacente sentirlo scagliarsi, come di fatto accade, contro la droga o il sesso incestuoso o la fecondazione eterologa? Sarebbe così “forte” sentirlo porsi delle domande sull’umanità di un feto? E qui bisogna distinguere il personaggio dal creatore che usa il primo con i suoi limiti e sbagli. In alcuni momenti poi, gli spunti positivi vengono da altri personaggi della serie, come quando di fronte al cinismo di House, l’assistente domanda “ma bisogna essere religiosi per capire che un feto è vita?”, o la collega, cui domandano a proposito di una bambina che perderà un braccio “che qualità di vita avrà”, risponde “la vita ha sempre delle qualità”.

House sa stupirsi: sbaglia, digrigna i denti, ma sa riconoscere l’umano quando lo incontra. Questo è un punto importante, spesso dimenticato nell’attività medica: lo stupore verso l’umanità misteriosa del paziente. House si lascia abbracciare dalla bambina con tumore cui ha prolungato la vita di un anno, e colpito dalla forza morale della piccola arriva a cambiare il suo stile di vita; così come si stupisce della manina del feto che esce dall’utero materno durante un’operazione chirurgica e sfiora la sua, lasciandolo tutta la giornata a riguardare il proprio dito e domandarsi chi è quella vita che nessuno considera come umana (forse neanche lui), ma che lo ha accarezzato. Il suo stupore è alla base della sua abilità curativa.

House sembra non esserci mai per i pazienti … non è un medico buono, è colmo di dolore; ma è ricco di una domanda di significato, che non lo lascia disperare. Per questo colpisce, in un’era in cui sembra che nulla se non il proprio capriccio abbia valore, in particolare in medicina.
postato da: carlobellieni alle ore 17:01 | Permalink | commenti
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domenica, 16 settembre 2007

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