lunedì 17 settembre 2007

LA SPERANZA CHE CI FA ALZARE OGNI MATTINA







di Michele Brambilla
Tratto da IL GIORNALE del 16 settembre 2007



L’uomo di tutte le culture e di tutte le religioni ha sempre intravisto un orizzonte «oltre» la vita terrena, o quanto meno in quell’orizzonte ha sperato. È proprio con la modernità che questo orizzonte viene cancellato e che alle domande inestirpabili di ogni essere umano («Chi sono? Da dove vengo? Dove andrò?») si è pensato di rispondere non pensandoci affatto. In barba alla fede nell’umana ragione, il Candide di Voltaire si chiude proprio con l’esortazione a non ragionare: «Lavoriamo senza riflettere, è l’unico modo per rendere la vita sopportabile».


È un segno dei tempi la disperazione che marca il dibattito provocato dal nuovo libro di Massimo Fini sulla vecchiaia e sulla morte: nessuno spende un rigo non dico di fede, ma neppure di speranza e neanche di dubbio, si dà per scontato che l’uomo sia solo materia destinata a dissolversi, poco più di una bistecca insomma. D’altra parte perfino il clero ha smesso di parlare di vita eterna, alle messe domenicali abbondano i sermoni sulla solidarietà, ma zero sul senso ultimo della vita.

Riassumo brevemente a beneficio di chi non ha seguìto: Massimo Fini, che è uno dei più geniali giornalisti e scrittori italiani, sta per pubblicare un libro che s’intitola Ragazzo ma che, come spiega bene il sottotitolo, non ha per oggetto la giovinezza bensì quella che di solito definiamo «terza età» e che invece dovremmo chiamare con il vocabolo utilizzato senza pelosi pudori per migliaia di anni: vecchiaia.

Fini scrive che quel che attanaglia chi invecchia non è il decadimento fisico ma la percezione del tempo che si fa breve, dell’assenza di un futuro, dell’ineluttabilità della fine. La disperazione di cui dicevo è palpabile in ogni pagina.

Gli hanno risposto in due: Giordano Bruno Guerri sul Giornale di ieri e Giampiero Mughini su Libero dell’altro ieri. Entrambi hanno scritto che Fini sbaglia, che la vita è bella nonostante. Guerri ha parlato della gioia della sua recente paternità, di quanto è saggio gustarsi l’attimo fuggente e di quanto non è saggio rovinarsi l’esistenza con il pensiero della morte. Mughini ha parlato, non senza ragioni, di quanto l’esperienza degli anni passati permetta di vivere con maggiore intensità: ho letto molti più libri di quanti ne avessi letti a trent’anni - ha scritto Mughini -, so gustare il vino e le donne meglio di allora, e perfino la mia scrittura è migliorata.

Ho grande stima sia di Guerri sia di Mughini, ma mi permetto di dire che le loro sono ben magre consolazioni: prendere atto che si vive meglio di quando si avevano venti o trent’anni non rende affatto più lieve l’imminenza del congedo, anzi. Mi pare più ragionevole Fini quando sostiene che non v’è fama o gloria o successo o affetti che possano consolare. Come diceva Blaise Pascal, aver vissuto una vita formidabile non ci basta affatto: «Per quanto bella sia stata la commedia, alla fine qualche palata di terra sulla testa ed è finita». Né ci sollevano le promesse alla Veronesi di campare centotré o centoventi anni: le conquiste della scienza, al massimo, rimandano il problema.

Massimo Fini nella sua disperazione è dunque più lucido. Però sbaglia su una cosa, ed è quella decisiva. Sbaglia quando non si accorge di pensarla esattamente come quel mondo moderno, figlio della Ragione illuminista, ch’egli ha sempre contestato contrapponendogli un ancien régime in cui l’uomo non era solo materia. Un libro come il suo Ragazzo sarebbe stato impensabile nei millenni che hanno preceduto quell’era moderna che lo stesso Fini dichiara folle. Prima di quella svolta che ha portato alla modernità, l’uomo non s’è mai percepito come un campione senza valore che l’ostetrica spedisce al becchino. E non parlo solo del cristianesimo. Perfino Baruch Spinoza, che fu scomunicato, diceva: «Noi sentiamo e sappiamo di essere eterni».

L’uomo di tutte le culture e di tutte le religioni ha sempre intravisto un orizzonte «oltre» la vita terrena, o quanto meno in quell’orizzonte ha sperato. È proprio con la modernità che questo orizzonte viene cancellato e che alle domande inestirpabili di ogni essere umano («Chi sono? Da dove vengo? Dove andrò?») si è pensato di rispondere non pensandoci affatto. In barba alla fede nell’umana ragione, il Candide di Voltaire si chiude proprio con l’esortazione a non ragionare: «Lavoriamo senza riflettere, è l’unico modo per rendere la vita sopportabile».

La differenza fondamentale tra il prima e il dopo quella svolta della modernità sta proprio in una diversa concezione dell’uomo: figlio di un Progetto per il mondo di ieri, prodotto del Caso per quello di oggi. È singolare che Fini detesti la modernità ma finisca poi con il concordare con essa proprio su questo aspetto centrale, da cui tutto il resto deriva.

Esiste un Dio? Esiste un aldilà? Sono domande cui noi, poveri nani nell’universo, non sappiamo rispondere. Ma la nostra ragione è sufficiente per capire che se l’uomo fosse solo materia, di materia si potrebbe saziare. E invece no: l’angoscia di Fini - che poi è l’angoscia di tutti noi - testimonia che nessun bene materiale ci può bastare, perché dentro di noi c’è qualcosa che grida più forte di tutto, ed è il desiderio di infinito.

A me hanno insegnato che è impossibile desiderare qualcosa che non c’è. Non so se questo basti per essere convincenti. Ma sono sicuro che ogni uomo - anche chi si professa ateo - si alza la mattina, lavora, si sposa e fa figli, insomma vive e opera e non si spara un colpo proprio perché nel profondo è mosso da questa speranza, la speranza che c’è qualcosa che ci trascende e che non ci abbandonerà al nulla.

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