giovedì 27 settembre 2007

GRANDI INTERVISTE CLAUDIO RISE':IO E L'ALTRO


intervista di Davide Perillo
Psicanalista e scrittore, Claudio Risé studia la psiche dell’uomo nella concretezza dei suoi atteggiamenti e dei comportamenti. Per Tracce ha accettato di lasciarsi provocare da alcuni spunti offerti da don Carrón agli ultimi Esercizi della Fraternità di Cl, cui ha partecipato, mettendo in gioco gli strumenti della sua professione
...Ri-generare, in fondo, vuol dire «generare di nuovo», «ricreare». Riaccendere l’umano, insomma. «Ero stato molto colpito l’anno scorso da quella virata improvvisa di don Carrón sul cuore», spiega Risé: «Importantissima e molto chiara. Quest’anno è andato avanti. A cominciare da quei cenni insistiti sul desiderio»....



«Rigeneranti». È la prima parola che usa Claudio Risé, psicologo, psicanalista, scrittore e columnist di vaglia, per indicare i «suoi» Esercizi della Fraternità. Parola azzeccata: dice molto di più della ventata di freschezza che pure, a Rimini, hanno sentito tutti. Ri-generare, in fondo, vuol dire «generare di nuovo», «ricreare». Riaccendere l’umano, insomma. «Ero stato molto colpito l’anno scorso da quella virata improvvisa di don Carrón sul cuore», spiega Risé: «Importantissima e molto chiara. Quest’anno è andato avanti. A cominciare da quei cenni insistiti sul desiderio».

Partiamo da lì, allora. Dal desiderio. È l’espressione più vera del nostro io. Eppure, è il fattore umano più censurato, quello che accostiamo con più difficoltà. Perché sembra quasi che ne abbiamo paura?

Forse proprio perché è l’espressione più vera di sé. E quindi, in qualche modo, ti mette a rischio: ti interpella in continuazione, non ti lascia mai fermo. Il desiderio è un “andare verso”: spinge verso un obiettivo, fa mettere a fuoco un oggetto d’amore. In una parola, muove costantemente verso un cambiamento. Quindi ti impegna. È un impeto umano. Solo che deve lottare contro due forze molto potenti della nostra psiche: l’immobilismo e la regressione, la tendenza a stare fermi e quella ad andare indietro. Tendenze che, invece, ti promettono quiete. Meno fatica.


La tentazione dell’immobilismo si capisce benissimo. Quella della regressione un po’ meno. Che cosa intende?.

È una paura di andare avanti che si appoggia alla nostalgia di una felicità, di una pienezza, immaginata o provata nell’infanzia o, comunque nel passato. Nostalgia che spesso trattiene dallo strappo a cui ti spinge il desiderio


Non è la stessa tentazione che a volte viviamo di fronte a Cristo?
L’idea che l’Avvenimento non sia presente, non risponda davvero nel presente: «L’ho incontrato e mi è sembrato vero, ma ora...». Ci si sorprende delusi. “Demoralizzati”, come notava don Giussani.


Sì, è la stessa dinamica. Dovessi usare dei termini tecnici, direi che è una specie di maternalizzazione dell’incontro con Cristo. Un uso nostalgico. Sentimentale. Come qualcosa che ti ha riempito, ma non ti riempie più. Il che, intendiamoci, ha anche un aspetto vero, perché l’incontro è uno strappo continuo. Lo devi continuamente rivivere. «Si vive per amore di qualcosa che sta accadendo ora», ci è stato ricordato l’anno scorso. Non è che una volta avvenuto te lo tieni lì come fosse un tesoretto, tanto per usare una parola orrendamente di moda... Se lo tesaurizzi, è perduto. Morto.


«Non possiamo vincere questa lontananza del cuore da Cristo se Lui non ci “trae tutto”, proprio per l’attrattiva della Sua bellezza», diceva Carrón. È la bellezza a strapparci da questa tentazione di ripiegarci su noi stessi?

La bellezza che, in quanto tale, suscita il desiderio. E quindi rimette in moto la vita come percorso, come andare verso un fatto. Questa bellezza ci tocca dai livelli più alti, spirituali, ai livelli più profondi, e in qualche modo più carnali, dell’istinto. Mi ha colpito molto il modo in cui se n’è parlato agli Esercizi. È stata una rivalutazione davvero rigenerante. L’istinto, questo fascio di forze, è il vero, grande rimosso della cultura moderna e postmoderna. Lo abbiamo sostituito prima con le ideologie, che non avevano niente di istintivo ma erano dei programmi di potere, e poi con dei sistemi intellettuali in cui, in fondo, il corpo e i suoi istinti non c’erano più.


Astrazioni, insomma.
Puro lavorio di una mente disincarnata. E infatti il problema oggi non è tanto lo strapotere del desiderio, l’insurrezione o la deflagrazione degli istinti. È proprio il contrario: l’assenza del desiderio. O meglio: le persone oggi non sanno che cosa desiderano. Non sanno riconoscere i propri desideri. La maggior parte delle patologie contemporanee, dal narcisismo alla depressione, nascono da lì. Se io non so cosa desidero, me lo devo far indicare dagli altri. Vado dietro ai suggerimenti collettivi del sistema di consumo. Che però mi proporrà, appunto, non oggetti d’amore, ma oggetti di consumo».


Percepiamo l’istinto come qualcosa di negativo, anziché come “mezzo”, strumento della nostra umanità: perché?
Lo viviamo come un problema perché abbiamo smarrito la semplicità, sacra, creaturale, dell’esperienza istintuale. Che è un’esperienza primaria, per certi versi pre-intellettuale. È insieme fisica e affettiva, e quindi già spirituale. È l’istinto che ci dà una certa relazione religiosa con la terra e le sue manifestazioni. Con il creato. È istintiva la percezione di una bellezza che ci sovrasta e che ci rimanda a qualcosa che è oltre di noi.


Ma noi possiamo davvero resistere alla bellezza? Voglio dire: dalla verità o dalla bontà in qualche modo riusciamo a “difenderci”. Sappiamo ridurle a una misura nostra. Sappiamo opporre una nostra idea di vero o di buono. È una tentazione costante, no? Ma con il bello non è così. È impossibile. Ci ferisce. Ci lascia disarmati. Com’è che alla fine riusciamo a ridurre anche questo impatto?
Sei disarmato solo se mantieni questa vicinanza con l’istinto, ovvero con ciò che si lascia colpire dalla bellezza. Come succede nel bambino. Se tu incominci a metterci sopra tutte le sovrastrutture intellettuali, anche moraleggianti, dell’adulto, ti allontani da quella semplicità indifesa. Il punto è che l’occidentale medio, acculturato e immerso nel sistema delle comunicazioni di oggi, è molto lontano da questa immediatezza. Il «Se non ritornerete come bambini...» è vero. E vuol dire anche questo. Nel mio lavoro una parte molto consistente è proprio permettere all’altro di ritrovare la semplicità del bambino, collegata all’istinto e capace di una spiritualità autentica, che si lascia ferire dalla bellezza. È come Picasso, che di fronte a un critico che gli diceva «Questo disegno sembra fatto da un bambino», gli ha risposto: sì, ma io ci ho messo tutta la vita a imparare a disegnare come un bambino.


Altro punto focale: «Cristo rivela chi è risvegliando l’uomo, facendo emergere tutti i fattori». E lo fa, notava don Carrón, non con un discorso, ma con uno sguardo carico di stima che fa letteralmente accadere la nostra umanità, come se la facesse esplodere. Perché i fattori dell’umano emergono solo davanti a uno sguardo così?

Noi da soli non possiamo fare nulla. Il nostro io è ricchissimo, c’è dentro tutto. Ma se non c’è l’altro con cui entri in relazione, questa ricchezza va perduta. Cristo è davvero l’Altro. E lo è perché ti ama in modo totale per quello che sei. È l’unico che può fare così, che ti accetta in quel modo. Oggi si parla molto di autostima: concetto approssimativo, ma per spiegare certe cose funziona. Bene: l’incontro con Cristo, da questo punto di vista, ha un effetto istantaneo e fulminante. Cristo ti dà questa stima di te perché lui ce l’ha. Totale. Stima e amore. Per questo è il grande risvegliatore del tuo amore per te stesso. Se non lo incontri, non ti ami. È totalmente amoroso e accettante come nessun padre umano riesce a essere, anche se tutti cerchiamo di esserlo.
Ecco, anche la parola “padre” è venuta fuori spesso a Rimini. Si è detto che Cristo, con quella domanda capitale - a che vale conquistare il mondo se poi perdi te stesso? - supera qualsiasi possibile affetto paterno. Credo che qualsiasi genitore si sia sentito toccato. È la domanda più importante che un padre possa fare a un figlio, no?


Parlando di ciò che Cristo vede in noi e che lo commuove, don Carrón ha osservato: «In questo rapporto con il mistero, con il Padre, Gesù vedeva l’unica possibilità di salvare il valore della persona». Che cosa perdiamo smarrendo il rapporto con il Padre, censurando la religiosità?

Perdiamo tutto. Non solo il senso della realtà che il Padre ha creato, ma il valore di noi stessi. Perdi tutto l’insieme. Anche perché se hai perso il Padre è perché hai perso il Figlio, che ti permette di ascoltarlo. E lo Spirito, che dà vita a ogni momento. E così hai perso la totalità della tua esperienza umana.


C’è un’altra domanda che ha scosso chi era a Rimini: «A che vale la vita se non per essere data?». Perché soltanto quando uno dona se stesso inizia davvero a capire chi è?

Tu scopri chi sei nell’incontro con l’altro. Ma questo incontro prende tutta la sua forza solo nella dimensione del dono. Altrimenti puoi rinchiuderlo nel possesso, nel godimento dell’altro come bene personale tuo. Se succede così, questa esperienza la perdi. Invece dare la tua vita per l’altro è ciò che rigenera continuamente il rapporto; gli impedisce di morire. E quindi ti impedisce di morire. Questo è un fatto centrale, anche se spesso viene dimenticato. Dietro la crisi delle coppie, l’esplosione dei divorzi e tutto questo disastro c’è anche l’aver dimenticato che il rapporto vive nella misura in cui ci doniamo; se no, muore. Cristo, da questo punto di vista, è proprio il segno definitivo della vittoria sulla morte. Che avviene attraverso la morte. Cioè nel darsi totale per gli altri.


Altra immagine con un riverbero forte: «Siamo sempre handicappati affettivamente, siamo bloccati, perché non abbiamo accettato il rischio della verifica di Cristo». Nel suo lavoro di psicoterapeuta lo riscontra spesso questo “handicap affettivo”?

Sì. Ed è molto visibile proprio in questa difficoltà nel darsi, nell’accettare l’idea che l’amore sia quello. Dal punto di vista dei genitori, per esempio, lo si vede spesso nella fatica che si fa ad amare la libertà dell’altro, del figlio. Io sento continuamente madri che mi dicono: «Questo figlio l’ho generato io. Perché intorno ai dieci anni lo devo ridare al padre? Lo voglio tenere per me...». Ecco, questa idea di possesso fa capire che cosa è un handicap affettivo. È proprio il crampo della mano che non si vuole aprire. Il braccio che non riesce a stendersi.


In fondo, siamo di nuovo lì: non accettare il rischio vuol dire ancora non impegnarsi fino in fondo con la propria umanità. Non “lavorare”, si diceva. Perché siamo refrattari a questo impegno? È come se restassimo sempre sospesi...
Non so se sia una risposta troppo storicizzata. Però, forse noi occidentali di questo periodo siamo troppo invasi dagli oggetti. Da cose fabbricate. Che a volte, magari, sono anche idee, modelli culturali; ma restano pur sempre oggetti. Tutta questa roba, questa energia riversata sugli oggetti, toglie spazio e attenzione all’umano, alla vita delle creature, compresi noi stessi.


Gli Esercizi sono il contrario: un lavoro su se stessi che dura tutto l’anno. Per lei perché vale la pena di farlo?
Questo lavoro ti fa vedere le tue parti morte e riattiva quelle vive. Rimette in moto un conflitto che è condizione della vita. Se non riattivi questa lotta, la vita si spegne.



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