martedì 18 settembre 2007

NUTRIRE I PAZIENTI LE UMANISSIME RAGIONI

Questi articoli sono di grande interesse non solo perche' ci aiutano a comprendere maggiormente le indicazioni che il nostro papa da ma soprattutto perche'ci educano il pensiero.
Non dobbiamo solo pensare che il problema e' solo di quelli che hanno in casa pazienti in stato vegetativo,.
Il richiamo e' per tutti noi.
La dignita' dell'uomo ,il riconoscerla ci mette quotidianamente in gioco.
"...la dignità della vita dell'uomo, di tutto l'uomo e di ogni uomo, che è sempre una persona, ossia «l'unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa» (Gaudium et spes, 24). Sempre, anche quando la coscienza di questa verità e dignità unica e irripetibile non affiora attraverso la parola, lo sguardo o i gesti, ma resta «chiusa in sé» (locked-in: così gli inglesi chiamano alcuni di questi pazienti)".
L'uomo e' l'embrione che portiamo in corpo e che richiede da subito di essere rispettato e considerato persona quindi non cosa di proprieta' di chi lo contiene.
Persona e' il disabile,l'anziano l'ammalato...
L'ammalato anziano che si ammala e che nelle corsie dell'ospedale si sente chiamare nonno pensate che ne possa trarre piacere?Il giorno prima era magari un professore,un maestro,un dirigente e il giorno dopo il nonno di tutte le infermiere.
Come tanti uomini e donne down che si sentono salutati e trattati come bambini.
Mi e' capitato di assistere alla scena .La mia amica down mi ha detto :"non preoccuparti mi sono abituata ,poverini non capiscono o non vogliono sforzarsi."
Come sempre il Papa ci aiuta a convertire lo sguardo.


Nutrire i pazienti. Le umanissime ragioni
Dopo il pronunciamento vaticano
Roberto Colombo
AVVENIRE 16 SETTEMBRE 2007





Le autorevoli e limpide risposte della Congregazione per la Dottrina della Fede agli interrogativi che la cura, impegnativa e spesso protratta per anni, delle persone in "stato vegetativo" suscita tra pazienti, parenti, amici, medici e infermieri non sono destinate esclusivamente ai vescovi e a tutti i credenti, ma entrano in dialogo con la ragione e la libertà di ogni uomo e donna che, attraverso l'esperienza amara della sofferenza propria e altrui, si apre alla ricerca del senso dell'umana esistenza quando essa non è più vigile e autosufficiente e diventa mendicante di tutto, anche degli alimenti e dell'acqua.
La domanda più incalzante diviene allora: che cosa è bene fare in queste circostanze? La sospensione della nutrizione orale o per vie diverse, quali quella nasogastrica o gastrostomica, non porrebbe fine a quel inutile tormento che è una vita in cui il paziente non è più in grado di decidere nulla e che, invece, decide del tempo, delle energie e delle risorse di chi lo assiste a domicilio o in strutture sanitarie? Le indicazioni della Congregazione allargano l'orizzonte della risposta secondo l'ampiezza di una ragione che non è mero "calcolo" – per dirla con Heidegger – di costi e benefici, ma osa addentrarsi sui sentieri del bene secondo un "ordinamento" e una "proporzione" che hanno come termine di riferimento la verità e la dignità della vita dell'uomo, di tutto l'uomo e di ogni uomo, che è sempre una persona, ossia «l'unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa» (Gaudium et spes, 24). Sempre, anche quando la coscienza di questa verità e dignità unica e irripetibile non affiora attraverso la parola, lo sguardo o i gesti, ma resta «chiusa in sé» (locked-in: così gli inglesi chiamano alcuni di questi pazienti).
In questa prospettiva antropologica è allora possibile comprendere il giudizio etico sulla ordinarietà e proporzionalità della «somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali», che «in linea di principio» è moralmente dovuta «ne lla misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria», lo scopo di idratare e nutrire il paziente per evitargli «le sofferenze e la morte». Cure necessarie per conservare la vita e alleviare la sofferenza, e non terapia futile; la prima opera di misericordia corporale (dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; cfr. Mt 25, 35) e non l'ultimo accanimento terapeutico sul malato.
La ragionevolezza di questo giudizio affonda le sue radici nel riconoscimento della piena umanità anche dei pazienti con lesioni cerebrali che li privano della vigilanza e della autosufficienza, e qualifica il loro abbandono ad un destino di sofferenza e di morte per disidratazione e inanizione come indegno degli affetti più cari dei familiari e della dedizione incondizionata dei medici al servizio della vita dei malati.
Per questo, una volontà presunta o documentata del paziente che vincolasse giuridicamente i congiunti a chiedere o a consentire e i medici ad attuare la discontinuazione delle «cure ordinarie e proporzionate» – incluse l'idratazione e l'alimentazione nelle forme e nella misura in cui sono necessarie al mantenimento delle funzioni vitali e non aggravano il declino oramai irreversibile del quadro clinico che segnala l'approssimarsi della morte – sarebbe in contrasto con l'obbligo morale e professionale di non far mancare all'ammalato ciò gli è dovuto in virtù della sua inalienabile dignità umana che nulla e nessuno potrà mai cancellare


Nessun commento: