giovedì 6 marzo 2008

INTERVISTA AL DOTTOR BIELLINI


Ma se uno elimina il sacrificio si sente meno di niente.


Bellieni: il bambino che ci fa così paura, ma ce l'hanno solo messo in testa!

intervista al dott Biellini

Dal Giornale del Popolo del 31.8.2007

di GIOIA PALMIERI

Fa ginnastica, ascolta la musica, assapora cibi “prelibati”, distingue odori e profumi come farebbero i migliori sommelier, memorizza voci e rumori. Il feto, insomma, non si fa mancare niente e fa di tutto per “allenarsi” alla vita che lo aspetta fuori dalla pancia della madre. Vuole essere un membro della famiglia a tutti gli effetti. Gli studi affettati durante la gravidanza mostrano nel bambino un potenziale comunicativo e di apprendimento sorprendente, capace di cogliere tutti gli stimoli che gli arrivano dell’esterno.

«Il feto non è un’isola, ma una piccola “spia” che assiste a quello che la mamma fa, la ascolta e, (chissà) vorrebbe imitarla», spiega il dottor Carlo Bellieni, da anni impegnato nella ricerca sulla vita e sul dolore del feto al dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena.

Recentemente ha pubblicato un libro particolare: “Godersi la gravidanza... come una volta”, un piccolo volume dedicato alla maternità che raccoglie tanti piccoli “trucchi”, esperienze e osservazioni scientifiche difficilmente reperibili nelle varie pubblicazioni che parlano della gravidanza.

«Quanta saggezza e conoscenza si è persa negli ultimi anni a proposito del parto, della gravidanza, dell’attesa di un bambino», esclama l’autore dalle prime righe del suo libro. «Ora le donne sono costrette ad un-fai-da-te che non può che spaventarle o perlomeno lasciarle perplesse». Per questo lo scopo del libro è quello di «una riconquista ». «In un epoca in cui vigono l’improvvisazione e la solitudine» spiega il dottore, è fondamentale riportare «al centro di tutto la donna con la sua forza, la sua capacità di intrecciare legami e di riconoscere la bellezza anche là dove essa è nascosta e censurata ».

Dott. Bellieni, come si può aiutare i genitori a comunicare con il bambino?

Esistono diverse modalità. E sono la possibilità, da parte della donna, di parlare al feto, di cantare, fargli ascoltare musica, ballare dolcemente in modo che coscientemente si renda conto che sta cullando il bambino. Oppure massaggiarlo attraverso la pancia, in maniera dolce o guidata. Sono gesti in cui è coinvolto anche il padre. Questo aiuta a rendersi conto che c’è un nuovo membro in famiglia. È molto importante perché il bambino percepisce effettivamente queste cose.

In che modo le percepisce?

Il feto acquisisce una memoria degli stimoli che arrivano dai genitori. Un riscontro chiaro lo abbiamo nella suzione: il bambino succhia il latte o il cuccio in maniera diversa se sente la voce della mamma o la voce di un’estranea, o addirittura se ascolta la voce di un estraneo che parla una lingua diversa rispetto a quella della madre.

Il neonato ricorda anche le musiche sentite in gravidanza. Diversi studi confermano che se al bambino in grembo viene fatta ascoltare tante volte la stessa musica, dopo la nascita la saprà riconoscere.

Quando ho frequentato il centro di sensualità fetale a Parigi ho incontrato diverse signore che avevano le casse acustiche attaccate al pancione, dalle quali usciva a tutto volume la “Ninna Nanna” di Schubert.

Il feto mostrava di gradirla perché, dopo alcuni stimoli, diminuiva la frequenza cardiaca, invece di aumentare come succede quando sente dei rumori spaventosi. Stessa cosa per i gusti, l’alimentazione: studi hanno confermato che se la dieta della mamma è ricca di un certo alimento, il bambino lo accetterà volentieri durante lo svezzamento.

Quanto sono importanti questi stimoli per il suo sviluppo?

Il massimo dei neuroni che servono al nostro cervello lo raggiungiamo durante la nostra 28° settimana di vita prenatale. Questi stimoli aiutano quindi a eliminare quelli di troppo, che non servono allo sviluppo. E poi contribuiscono alla formazione psico-socioculturale che è propria del bambino, che si delinea già nella pancia.


E tutto questo quanto aiuta una coppia a “godersi la gravidanza”?

Oggi viviamo in un clima di paura nel quale, di fronte ad ogni aspetto nuovo della vita, facciamo sempre un passo indietro e cerchiamo di mettere tutte le cose a posto, nei minimi particolari, prima di accettare o di decidere qualunque cosa.

La gravidanza è uno degli aspetti in cui questo disagio emerge in modo più lampante. Insisto sul “godersela” perché viene ridotta spesso ad una serie di esami. Non viene più valorizzato il rapporto tra mamma e bambino e né, tante volte tra la mamma e il marito, ma rimane solo l’aspetto medico, quello del rapporto tra la paziente e il ginecologo.

La dimensione sociale, la dimensione psicologica e la dimensione familiare vengono semplicemente ridotte a una serie di esami. Che sono anche troppi, spesso e volentieri voluti per andare alla ricerca delle imperfezioni... E come sa bene, di fronte a una diagnosi di imperfezione, la prassi diventa quella di eliminare il bambino. Godersi la gravidanza significa invece riprendere il rapporto con il proprio corpo e con il corpo del bambino che è una cosa meravigliosa per ogni donna.


E allora come vincere la paura?

Uno dei motivi di “imbarazzo” nei confronti della gravidanza, è che si vedono raramente donne incinta; che non si è mai vissuto un parto, la bellezza di avere un bambino. E quindi quello che rimane è la paura.

È possibile vincerla in due modi: il primo passa attraverso l’informazione. Si deve far sapere che dal momento del concepimento c’è un essere umano nuovo, che questo essere umano ha, giorno dopo giorno, delle capacità e delle possibilità nuove. E poi sul piano culturale, educativo.

Infatti, alla fine del suo libro lei elenca una serie di “diritti” della gestante. Tra questi il più originale è quello che dice: “Avere non solo una preparazione al parto, ma una formazione alla gravidanza che deve iniziare dalla scuola”...

C’è una grandissima censura su questo che non è casuale: i bambini sanno tutto sul sesso e ma su come avviene lo sviluppo del bambino nella pancia della mamma non sanno niente.

Sanno tutto su come si fa ad avere figli e soprattutto come non averli, ma cosa accade durante la gravidanza non è insegnato. Il messaggio che emerge in questa censura è che la gravidanza fa paura, è da evitare.

Se s’insegna che quell’essere in pancia è un bambino diventerà poi difficile pensare che non lo è. Ci insegnano che il feto è un pezzo della mamma o un prodotto del concepimento in balia degli umori del genitore. Il figlio è un figlio sin dall’inizio, non quando decido io che lo diventa.
E quale è la sfida da cogliere in questo senso?

Non è quella di affermare una religione, ma la realtà. Una gravidanza fa crescere la donna nei confronti di se stessa, le dice quanto è forte e quanto è grande la sua capacità di accogliere: che è in grado di non spaventarsi di fonte alla difficoltà, al difetto. È un completamento del suo sviluppo organico, sia dal punto di vista ormonale che psicologico. Un figlio mette i genitori di fronte al fatto di dover fare uno sforzo di immaginazione, che non è una fantasia. Devono prendere coscienza di qualcosa che non si vede, ma è reale e che i genitori possono incontrare. Sentiranno l’attaccamento nei confronti del bambino e tra di loro. Vedranno nel bambino le conseguenze di questo affetto. Il rapporto che s’instaura con il feto predice il livello di attaccamento psicologico del bambino nei confronti del genitore. Alla coppia dice che è in grado di tirare fuori una ricchezza inimmaginabile di risorse. Ma bisogna buttarsi e solo allora si verificherà che quello che gli è stato detto è vero, che ne vale la pena. E si verifica perché si cresce, si cambia.

Quindi per una coppia avere un figlio non è come non averlo?

È ormai un dramma sociale quello delle coppie che hanno deciso di avere tardi un figlio e dopo si ritrovano disperate perché non arriva. I genitori che hanno scelto di avere un bambino da giovani ci testimoniano che non è un’impresa impossibile.

Oggi si ha paura di tutto, dell’inatteso, di qualcosa che non si sa gestire. La vera la sfida è questa: tiriamo fuori tutte le nostre risorse perché non siamo deboli.

Qualcuno c’ha infilato in testa l’idea che noi non valiamo niente, che siamo in grado di gestire solo quelle quattro cose che sappiamo gestire. Ci hanno insegnato che possiamo fare una sola cosa al massimo e per giunta neppure tanto bene.

Ma se uno elimina il sacrificio si sente meno di niente. Ci hanno ridotto ad essere una generazione di malati, deboli. Invece dobbiamo affermare il contrario: che non vogliamo sfuggire dalle responsabilità, dai figli. Il figlio poi è diventato una patologia: non lo voglio se non quando dico io, non lo accetto se è malato, se ha un cromosoma in più. Invece se un figlio è malato devo volergli ancora più bene perché ha ancora più bisogno di me!

Nessun commento: