giovedì 13 marzo 2008

IL CAMBIAMENTO SONO IO


Intervista in esclusiva al presidente della Regione Lombardia(LUIGI AMICONI)

Se gli chiedi perché non canta già vittoria, visto che il vento dei sondaggi gli è favorevole, lui si schermisce e guarda fuori dalla sua sala di comando, al trentesimo piano del palazzo della Regione Lombardia.

Il cielo fuori è plumbeo, c’è quasi aria di neve, ma nemmeno la notizia che Walter Veltroni non recupera più nei sondaggi lo scalda più di tanto. Roberto Formigoni è uomo di montagna e, dice, «come le cime dei monti, le vittorie non sono mai facili. Abbiamo il dovere di parlare ai cittadini, di ascoltarli, di andarli a incontrare.




Il rapporto tra popolo e politica è il nerbo della democrazia. Consumare la suola delle scarpe. Lo si diceva una volta per i giornalisti. A maggior ragione vale oggi per noi politici che scontiamo una forte e diffusa di-affezione da parte della gente. E non a torto, visto quel che passa il convento della politica». Formigoni, da tredici anni governatore della Lombardia, è per la seconda volta in partenza per Roma. Capolista al Senato per il Pdl, neanche a dirlo, in Lombardia.

Presidente, come butta?
Butta che le previsioni e i sondaggi dicono che gli italiani faranno la scelta giusta. Però il nostro compito è confermarli nell’intenzione e far capire a chi è ancora incerto che non possiamo far correre il rischio all’Italia di una nuova disastrosa stagione della sinistra dopo il catastrofico biennio Prodi. Però noi non scarpineremo tra la gente per fare flanella. Il nostro non sarà il linguaggio dei sogni. Ma la documentazione di fatti. Almeno per quanto mi riguarda.

Tredici anni di incontrastata leadership in Lombardia. E, anche a detta anche dei suoi avversari, di un governo meritevole di rispetto e di stima. Come mai adesso si ricandida, dopo che due anni fa venne eletto ma decise di rientrare a Milano? Stanco di restare ai margini della grande politica?

Guardi, la grande politica l’abbiamo fatta qui in Lombardia. Voglio vedere cos’altro c’è in giro per l’Italia che somigli anche solo lontanamente alle riforme che abbiamo fatto qui, devo ammetterlo, anche grazie al contributo di un’opposizione riformista e ragionevole.

Dunque questa volta ha deciso di andare a Roma per rimanerci?

Questa mia seconda candidatura è più caratterizzata perché oggi è chiaro per tutti che l’esperienza di buon governo che rappresentiamo ha una fortissima valenza nazionale. Sia i nostri sostenitori del centrodestra, sia gli avversari, sebbene a mezza bocca, adesso riconoscono che se portiamo il modello Lombardia a Roma c’è sul serio il rischio di dare un svolta storica all’Italia.

Che genere di svolta?

Perdoni, ma non è che qui noi facciamo pubblicità progresso, Africa buona per tutti e concerti in piazza. Noi qui abbiamo dimostrato che si può avere una amministrazione veramente con gli attributi, concreta sui problemi della gente, non autocentrata, non autoreferenziale, che mette il cittadino al centro dell’attenzione.

Abbiamo dimostrato che si può pesare di meno sulle tasche delle persone. Oggi la Regione Lombardia costa 40 euro al cittadino, le altre costano mediamente il doppio. Abbiamo ridotto il numero dei dipendenti e quello dei dirigenti, ridotto il numero delle leggi, fatto dei testi unici, fatto regole più leggibili. Abbiamo fatto un’infinità di riforme all’insegna della sussidiarietà.

La Lombardia è il regno della sussidiarietà. Pensiamo al buono scuola, alle liberalizzazioni, alla politica dei voucher, dall’assistenza alla sanità, per gli anziani e per l’accesso alle nuove tecnologie. Siamo una regione internazionalizzata. Pensiamo alle centinaia di missioni all’estero in cui abbiamo portato sui mercati di tutto il mondo non solo la grande impresa, ma soprattutto le nostre piccole e medie imprese, i nostri artigiani. Siamo stati i primi a vendere il riso ai cinesi, ma anche la prima Regione italiana a firmare accordi diretti di cooperazione e scambio con gli Stati.

Abbiamo portato avanti una battaglia sul federalismo all’insegna di un nuovo patto tra Stato e cittadini. Sussidiarietà e federalismo sono per noi una nuova statualità, non la rottura con lo Stato, ma una riforma che converte lo Stato alla misura dei bisogni e delle esigenze dei cittadini.

Ecco, questo metodo che ha convinto i cittadini lombardi che mi hanno votato per tre elezioni consecutive e che, tra tutti i presidenti di Regione, mi hanno indicato come il governatore più amato (non lo dico io, lo dicono gli ultimi sondaggi del Sole 24 Ore: il 63 per cento dei lombardi è con me, il 10 per cento in più di coloro che mi hanno votato)… Ecco, l’avventura della regione più avanzata d’Italia adesso la vogliamo estendere a tutto il paese. La mia candidatura ha questo significato. Solo questo.

Però si dice che lei abbia chiesto a Silvio Berlusconi un ministero pesante.

Io non vado inseguendo una carica istituzionale pur che sia. Non mi interessa una poltrona pur che sia. Nemmeno se si trattasse di una poltrona di governo. Non ho la fregola di andare a Roma, né sono stanco di lavorare in Lombardia. Anzi. Ovvio che sono disponibile ad assumermi responsabilità di governo nazionale. Altrimenti che senso avrebbe la mia candidatura? Ovvio che ho dato a Berlusconi la mia disponibilità. Dopo di che, nella misura in cui il risultato elettorale dimostrerà che c’è lo spazio per il mio impegno, valuterò le proposte.

Certo, a patto che il Pdl confermi di voler impiantare questo metodo lombardo a Roma e perciò mi prospetti un ruolo in questa direzione. E naturalmente a patto che il centrodestra confermi che la Lombardia continuerà a essere governata nel solco tracciato in questi tredici anni.

Però non scioglie la riserva…

Non la sciolgo perché la legge non mi impone di farlo ora. Ho tre mesi per decidere se restare a Roma o tornare a casa mia. Intendo avvalermi di questa opportunità. Dopo di che, qualora decidessi di restare, i cittadini lombardi andrebbero alle urne tra ottobre e novembre. Una cosa alla volta, però. Adesso è l’ora di vivere intensamente il momento fondante di ogni democrazia: la campagna elettorale.

Scusi se insisto, dicono che le piacerebbe andare alla Farnesina. È vero?
Ne parleremo dopo il 13 aprile. Per adesso, ripeto, occupiamoci di trapiantare il metodo Lombardia a Roma.

Che effetto le fa competere con Umberto Veronesi, lei che ha finanziato le fondazioni del professore?
Guardi, io non competo con Veronesi, io sono in giro a parlare con i cittadini. Ma comunque, se proprio lo vuol sapere, io col professor Veronesi ho un ottimo rapporto…

Anche lei in vena di cortesie?

No, forse non ci siamo capiti. Una cosa è il medico, il professore, il ricercatore. Un’altra è la politica. Mi spiego. Io ho messo in piedi una riforma della sanità che ha permesso ad alcune eccellenti istituzioni del mondo privato di crescere, e crescere bene, offrendo i loro buoni servigi ai cittadini. Le benemerite iniziative del professor Veronesi sono state rese possibili da questa nostra legge lombarda e sarebbero rimaste lettera morta in qualsiasi altra regione italiana. E devo dire che quando divenne ministro della Sanità sotto il governo di Giuliano Amato, tutto ciò il professor Veronesi lo riconobbe molto onestamente. Tant’è che la sua prima dichiarazione da ministro fu: la migliore via alla riforma della sanità è il metodo Lombardia.

Ciò gli attirò le ire dei cattocomunisti, ma insomma, do atto a Veronesi che già una volta seppe riconoscere l’eccellenza della nostra sanità. Dopo di che, stima come medico, scienziato, ricercatore. Totale dissenso sui temi etici. Ma ripeto, il mio interlocutore non è il professor Veronesi, sono i cittadini e i problemi del paese.

Fino a qualche giorno fa la campagna di Veltroni viaggiava a gonfie vele e il Pd era dato in forte recupero. Dopo l’uscita di Berlusconi e Fini al Palalido, a sentire il sondaggista del Corsera Renato Mannheimer, pare che faccia un po’ più fatica. Che ne pensa?

Penso che la campagna di Veltroni sia esaurita. Il sindaco di Roma ha scelto questa immagine molto mediatica del nuovo e della corsa solitaria. Adesso però le sue cartucce mi sembrano abbastanza esaurite. Il nuovo s’è visto cos’è, la corsa solitaria non c’è. L’alleanza con Antonio Di Pietro pesa e peserà. L’alleanza con i radicali ha portato contraddizioni pesanti destinate a esplodere nel momento in cui si riproporranno i cosiddetti temi etici. E poi anche le cosiddette candidature nuove sembrano più una lista della spesa, e pure parecchio scollegata, piuttosto che novità. Il fuoco d’artificio è finito.

Adesso dovrà vedersela non solo con noi, ma anche con la Sinistra arcobaleno. Che non mi sembra molto disposta a lasciare la scena a Veltroni e mi pare uscita dall’iniziale afasia facendo qualche iniezione di dinamin (un farmaco anfetaminico, ndr) a Fausto Bertinotti. Per non parlare della questione dei cattolici: li ha spostati alla Camera e circondati di pannelliani in modo che non rompano troppo le scatole. Insomma, per parafrasare il Berlinguer sull’Unione Sovietica che aveva esaurito la sua fase propulsiva, mi pare che anche Veltroni abbia giocato tutte le sue figurine Panini…

E poi, nonostante le dimissioni del Prof dalla politica, non sembra che il Partito democratico sia riuscito ad allontanare del tutto l’ombra del governo Prodi…
Infatti, Prodi incombe come un incubo sul Partito democratico. Non so se nel frattempo oltre ad aver lasciato la politica si sia dimesso anche da presidente del Pd. Non mi risulta. E comunque Berlusconi ha ragione: chi sono questi? Sono i figli di Romano. E dormono ancora nel lettone di papà. I principali capilista del Pd sono i ministri del governo Prodi. E il candidato premier è stato per due anni vicepremier di Prodi. Perciò, per favore, un po’ di dignità.

Però, Prodi, con grande dignità, ha alzato i tacchi e dice che non farà più politica perché «il mondo è pieno di tante cose belle».
Onore a Prodi. Sono stato quasi mai d’accordo con lui, però, devo riconoscerlo: è uno che ha perseguito tenacemente il proprio disegno, sbagliato, ma con una caparbietà e determinazione che gli va riconosciuta. Ma insomma, che l’epoca di Prodi fosse finita era già chiaro da almeno un anno. Il fuoco fatuo è durato un’estate: il primo Dpef e l’illusione della lenzuolata Bersani. Poi è diventato il governo morto che camminava.

A proposito di onore, lei sa che è per rispetto a lei che Giuliano Ferrara ha evitato di portare la sua lista pazza al senato della Lombardia. E poi, per carità di patria berlusconiana, ha spostato le sue liste sulla Camera. C’è ancora simpatia tra voi due?

Come lei sa, nei confronti di Giuliano Ferrara io nutro la massima stima, oltre che una profonda amicizia. La sua è una straordinaria testimonianza di educazione e una grande scuola di ragione. La battaglia per la moratoria sull’aborto mi vede assolutamente al suo fianco. Anche se, come è noto, non ho aderito alla sua lista perché da vent’anni ho scelto di impegnarmi dentro le istituzioni e dentro i partiti per portare avanti le stesse battaglie di Giuliano. La mia è una sfida perché l’Italia sia governata secondo criteri dentro i quali ci siano anche i valori della vita, della maternità, della solidarietà. Credo che le scelte che la Lombardia ha fatto in questa direzione, quando abbiamo dato le direttive per l’aborto terapeutico, i finanziamenti ai Centri di aiuto alla vita e alle organizzazioni di volontariato, le due banche per il latte materno di Milano e Varese, qualifichino la mia posizione di politico.

A proposito di aborto, vita, maternità. C’è chi torna a picchiare sul tasto delle divisioni tra laici e cattolici. Anche nel Pdl.

Vorrei ricordare ai suoi lettori e ai miei elettori che l’unità tra laici e cattolici l’abbiamo fatta noi. Quando ancora quindici giorni fa, a scrutinio segreto, tutto il centrodestra ha votato per affermare che la vita va difesa dal concepimento alla morte naturale, e nell’urna si sono aggiunti anche altri voti, bè questo è stato il segno del superamento della divisione. Mica possiamo illuderci che i politici del centrodestra siano tutti cattolici convinti.

Ma perché votano una risoluzione come quella testé citata sulla vita?

Perché il lavoro di questi anni, il dialogo, l’insistenza sulla ragionevolezza, ha fatto capire anche ai laici non credenti, a gente che ha le vicende familiari più diverse, ha permesso una sintesi tra valori laici e cristiani che ora vogliamo esportare a livello nazionale.

Buontemponi descrivono la Lombardia come un regno infernale di leghisti e ciellini.

Sono vecchi e patetici. Tutti, ormai, in Italia sanno che il presidente della Lombardia è un ciellino. Ma proprio il ciellino e cattolico Formigoni è stato il fattore di dialogo e unità tra laici e cattolici. E non sulle chiacchiere e l’aria fritta dei convegni. Ma sui fatti di educazione, di lavoro, di cura, di solidarietà popolare. Attorno alle battaglie di libertà. Quando nel 1995 sono arrivato per la prima volta alla guida della Regione avevo già in testa le riforme che avrei voluto realizzare. Il buono scuola, la difesa della vita, la famiglia, la sanità. Come sono riuscito a realizzarle? Parlando, lavorando. Prima di tutto con i miei amici di maggioranza. E poi addirittura anche con l’opposizione. Li ho convinti tutti. Bisogna fare leva sulla libertà.

Il buono scuola è diventato una battagli di libertà, non soltanto per i genitori che mandano i figli alle scuole cattoliche, ma per i genitori che mandano i figli dove pare a loro. L’aiuto alla famiglia. Mi ricordo ancora quando due diversi consiglieri regionali vennero da me con le lacrime agli occhi a dirmi: «Formigoni, noi siamo divorziati due, tre volte, però alla famiglia che proponi tu ci credo, la voto con convinzione questa legge». E quando abbiamo inserito nel computo familiare anche il concepito è stata una rivoluzione. Ebbene, tutti i laiconi e i non credenti della mia maggioranza hanno votato insieme a me. E poi, negli ultimi anni, hanno votato con me anche molti che non fanno parte della mia maggioranza. Questo è il miracolo della Lombardia. Questa è la politica dell’unita tra laici e cattolici che vogliamo portare in tutta Italia.


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