"Metto quest'artricolo soprattutto per la prima frase:quattro sono morti nel tentativo eroico di salvare un amico.
Si e' ascoltato tanto si e' detto tanto ma poco sulla grande solidarieta' dei compagni di lavoro.
Nell'uomo riemerge in alcune situazioni, il suo cuore,i suoi desideri,"DARE LA VITA"
Non hanno pensato a quelli che lasciavano ma sono corsi verso l'amico.
Per le condizioni lavorative poteva essere la morte di un solo uomo!
Quattro vite donate per la salvezza dell'amico.
In questi tempi sono queste le notizie da dare da sottolineare.
Non per sottoivalutare le condizioni lavorative ma per aiutare le persone che restano.
Se si pone l'accento solo sulle mancanze rimane nel cuore di chi piange solo rabbia.
Essere mamma,padre,moglie,figlio,fidanzati di uomini che si sono immolati per un'amicizia sono cose dell'altro mondo in questo mondo.
Il mio uomo e' morto non solo per una mancanza ma perche' si e' donato.
Mi direte comunque sono morti!Si ma da eroi e questo fa una grande differenza."
Lavoro - gio 6 mar
di Renzo Foa
6 marzo 2008
Dei cinque morti della strage di Molfetta, quattro sono vittime dello straordinario e generoso tentativo di salvare il compagno di lavoro, l’amico asfissiato dalla polvere di zolfo all’interno dell’autocisterna. Dell’istinto di solidarietà.
Questa è, ovviamente, una constatazione che non cambia nulla. Non cambia soprattutto il giudizio, finalmente ormai diffuso, sull’emergenza nazionale rappresentata dalla sicurezza nel lavoro, di cui l’Italia vanta un record negativo. Aldilà degli episodi simbolici – prima di questo pugliese, ultimi erano stati il rogo alla TyssenKrupp di Torino e l’incidente nel porto di Genova – c’è infatti uno stillicidio quotidiano costante, spesso trascurato, che coinvolge un po’ tutti, giovani e vecchi, dipendenti e padroni o «padroncini», piccole e grandi imprese e che rappresenta una piaga antica.
Aperta ben prima dell’era della flessibilità del lavoro o dall’atrofizzazione dell’amministrazione pubblica, il cui intervento è considerato inadeguato. Ora, sull’onda dell’emozione e delle polemiche, il governo dovrebbe varare i decreti attuativi della legge approvata dal Parlamento appena sciolto. Servirà? Lo sperano tutti, anche se non sono pochi coloro che dubitano della sua reale efficacia. L’importante comunque è provarci. L’importante è dimostrare che si vuole intervenire. Che finalmente ci s’impegna, dopo anni o forse decenni in cui ci si è abituati al carattere fisiologico di questa emergenza. E soprattutto che non si rinuncia a difendere il valore della vita. Perché c’è in primo luogo proprio questo problema: prima della sicurezza del lavoratore è da tutelare il valore di una vita, della vita di un individuo.
Di una vita in quanto tale. E allora, lo dico senza ironia, sia benvenuta l’indignazione che ieri trasudava dalla prima pagina di Liberazione, con quel titolo straordinariamente eccessivo («Omicidio di Stato») che rappresentava un j’accuse contro il ritardo delle decisioni politiche. Siano benvenuti eccessi ed indignazione, quando si deve difendere la vita. Sono benvenuti quando sono espressi sia da Piero Sansonetti per le «morti bianche», sia da Giuliano Ferrara per la «moratoria sull’aborto» sia, come è accaduto nel 2001, da Oriana Fallaci per le vittime delle Twin towers.
Cerchiamo tutti di non essere ipocriti. Perché se restiamo al capitolo dell’emergenza «morti sul lavoro», quel che si è trascinato finora è stato soprattutto un lamento. Dopo il rogo alla TyssenKrupp ci sono stati a Torino cortei, fiaccolate e cerimonie. Dopo la morte del giovane portuale di Genova – a sua volta figlio di un altro camallo ucciso in un incidente – c’è stato un blocco delle attività di carico e scarico delle merci.
C’è stata una grande attenzione mediatica. Finalmente. Ma lungo tutti questi anni, mentre cresceva la consapevolezza dell’emergenza, quanti scioperi generali per dire «basta» sono stati organizzati dai sindacati? Neanche uno. Nel frattempo, abbiamo assistito a proteste, a cortei, a manifestazioni nel centro di Roma e ovunque per rivendicazioni salariali e contrattuali o contro governi in carica. Da parte di ogni categoria, pubblica o privata. Cosa vuol dire? Essenzialmente che c’è una debolezza di fondo nella cultura sindacale proprio alla voce «difesa della vita», anche solo sul lavoro, che non è stata considerata degna dell’apertura di una vertenza e di una mobilitazione nazionali. Che il problema semmai, caso per caso, era solo quello di difendere l’edile, il portuale, il metalmeccanico, in questa o quell’azienda. Difendere una figura sociale. Non una persona.
Ripeto: cerchiamo di non essere ipocriti. Fino all’altro ieri, fino a quando anche Walter Veltroni si è iscritto al partito della «tolleranza zero», la questione della sicurezza dei cittadini era considerata da una parte della cultura politica italiana – per comodità diciamo quella che ha fatto riferimento all’Unione – una bandiera reazionaria. Xenofoba, quando si trattava di reati contro la persona compiuti da immigrati. Alle campagne contro la criminalità non veniva riconosciuta la dignità di porre la questione della difesa della vita.
Venivano considerate di parte. Insisto: cerchiamo di non essere ipocritici. Ancora qualche settimana fa, quando dei clinici romani hanno posto il problema dell’obbligo della rianimazione del feto, anche in caso aborto terapeutico, si è aperta un’incontenibile polemica sul vulnus inflitto alla 194 e al «diritto della donna». Come se cercare di favorire una vita sia una manifestazione di oscurantismo medioevale e clericale. Come se ci siano esistenze di serie A e di serie B. Come se la scienza che rianima sia una volgarità e quella che manipola i geni la condizione dell’esistenza.
Insisto ancora: cerchiamo di non essere ipocriti. Per anni siamo stati subissati da lezioni sull’orrore della guerra, sul crimine contro l’umanità costituito dagli «effetti collaterali» di azioni militari. In particolare a proposito dell’Irak e dell’Afghanistan. Da ultimo, in questi giorni a proposito di Gaza. Naturalmente nel nome della vita. Ma con uno strabismo: queste lezioni cessavano d’incanto (e continuano a cessare) quando invece colpiva (e colpisce) il terrorismo kamikaze, contro civili inermi o contro bambini.
E si può continuare all’infinito, lungo le frontiere tracciate da culture diverse, si può continuare ad esempio con il fondamentalismo ambientalista per il quale il significato della vita dell’individuo corrisponde essenzialmente ai vincoli da porre al progresso. Attraverso questo setaccio che ho appena sommariamente elencato passano soprattutto figure sociali, segmenti di esistenze, ruoli. Manca cioè quella visione completa, in virtù della quale la vita di un individuo è un tutt’uno dall’inizio alla fine. Così come dovrebbe esserlo la sua difesa.
Oggi è davvero una priorità non rassegnarsi a questa strage che si compie sui luoghi di lavoro, dovuta alla mancanza di controlli e di sanzioni, alle carenze della prevenzione e anche – ma non da ultimo – purtroppo ad abitudini alla piccola illegalità che può avere come ultima conseguenza l’incidente mortale. Negli ultimi anni, ad esempio, ci sono state intense campagne per la sicurezza stradale, la cui violazione è all’origine di un’altra strage quotidiana. Non ci sono stati certo risultati apprezzabili, nonostante divieti ed impegni ad intensificare la prevenzione. Non ci sono state però ondate d’indignazione, se non altro perché è difficile indicare un qualche colpevole.
O perché quando ci sono colpevoli – buche o strade strette o velocità – non vengono chiamate in causa le grandi categorie del mercato o del profitto. I grandi bersagli di un’ideologia. E allora, se è giusto indignarsi e sollevare polemiche, anche di parte, resta sempre la priorità di cui parlavo prima. Non rassegnarsi mai e cercare di sostenere e proteggere la vita di tutti, dall’inizio alla fine. Che sia in una clinica o in un luogo di lavoro o in un altro luogo della nostra comunità. Questa è la vera emergenza con cui dobbiamo fare i conti.
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