lunedì 7 maggio 2007

LA FAMIGLIA LUOGO DI EDUCAZIONE E APPARTENENZA

LUIGI GIUSSANI(gennaio 1987)
Lezione tenuta al corso "Una cultura per la famiglia", organizzata dal Sindacato delle famiglie a Milano.


L'uomo può imparare la sua appartenenza ad un Destino ultimo solo attraverso la guida e la compagnia di altri uomini. La famiglia è il primo spazio di questa scoperta fondamentale per la dignità della persona.


L'uomo può imparare la sua appartenenza ad un Destino ultimo solo attraverso la guida e la compagnia di altri uomini. La famiglia è il primo spazio di questa scoperta fondamentale per la dignità della persona.

1. Tutto è luogo di educazione all'appartenenza.
Ogni rapporto, ogni impatto con la realtà è avvenimento di un approfondirsi nell'essere; è un passo nel cammino di quella adesione, di quell'immedesimazione con l'essere in cui consiste la crescita della persona. Infatti la persona è rapporto con l'essere, è appartenenza al mistero, è relazione con l'infinito (come insegna e documenta l'itinerario descritto nel Senso religioso).
Al di fuori di questa appartenenza al mistero, al di fuori di questo rapporto determinato con l'essere, la persona non capisce più se stessa, cade in balìa di tutto, come la foglia fragile e caduca di cui parlava l'antico poeta. Al di fuori della appartenenza al mistero la comunità si riduce ad una sorta di agglomerato di individui isolati, come granelli di polvere dentro il polverone, in una solitudine senza fine.
Una poesia di Ciudakov, poeta clandestino russo del Samizdat, definisce come incombente pericolo per tutti, quello che egli accusa come situazione normale dell'uomo russo: «Quando gridano "un uomo in mare!" il transatlantico grande come una casa si ferma all'improvviso e l'uomo lo pescano con le funi: ma quando fuoribordo è l'anima dell'uomo, quando egli affoga dall'orrore e alla disperazione, nemmeno la sua propria casa si ferma, ma si allontana».
Come una foglia, come un granello di polvere: chi non riconosce di appartenere a Dio è - come dice il primo Salmo della Bibbia - «come pula che il vento disperde».
Oppure è definito dalla "ubris", dalla violenza, dall'affermazione di sé secondo la reazione provocata dagli impatti con la realtà.
È solo l'appartenenza che stabilisce l'unità della persona; e infatti tutto è convogliato e fluisce verso un destino per cui siamo fatti, destino che è origine carica di tensione e di desideri, alfa e omega, principio e fine. Come dice Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso: «Se io accetto la mia dipendenza, è perché essa costituisce per me un mezzo per significare la mia domanda».

2. La famiglia è il luogo dell'educazione all'appartenenza.
In essa risulta evidente come la persona fluisca da un antecedente che la trama tutta. Nella famiglia è evidente che l'elemento fondamentale di sviluppo della persona sta nell'appartenenza reciproca, coniugata, di due fattori, l'uomo e la donna.
Ed è nella famiglia che la vera appartenenza si rivela come libertà: l'appartenenza vera è libertà. La libertà, infatti, è quella capacità di aderire - fino all'immedesimazione e alla assimilazione - che è resa possibile dal legame. Il primo aspetto della libertà è affermare un legame, altrimenti uno non cresce perché non assimila più; ma un legame che passa attraverso il momento della responsabilità, momento strano, estraneo in un certo senso, perché è proprio l'imitazione dell'infinito, è il tocco del rapporto con l'infinito: la responsabilità plasma il legame secondo la coscienza del destino, e secondo la coscienza dei desideri che il destino, come origine, le suscita dentro.
La famiglia dunque è il luogo dell'educazione all'appartenenza perché in essa risulta evidente che l'origine dell'uomo è una presenza già esistente e che il suo sviluppo è assicurato dall'appartenenza a due fattori: appartenenza "coniugata", legame plasmato nella responsabilità.

3. Una condizione fondamentale.
Per educare a questo senso dell'appartenenza, che definisce la persona umana, occorre quasi un processo di osmosi o, per usare un'altra metafora, un "riflesso esemplare". Vale a dire: questa educazione all'appartenenza accade se la coscienza di appartenere ad un altro è trasparente nei genitori.
Quando nei genitori è trasparente la coscienza che il proprio io è appartenenza, che l'essenza della propria persona sta nell'appartenere ad un altro (così che senza questa appartenenza cadrebbe nel nulla la propria consistenza) ecco, questa coscienza passa ai figli. Non attraverso dei discorsi: senza quella "pressione osmotica", senza riflesso esemplare, i discorsi stabiliscono nella coscienza dell'uditore, del figlio, degli ostacoli. Invece che aprirsi una strada, la parola diventa ostacolo.
Se noi usassimo la nostra autocoscienza fino in fondo, se riflettessimo fino in fondo su noi stessi, non più bambini ma adulti, quale sarebbe l'evidenza più impressionante che ci occuperebbe? Questa: che in quel dato momento, nell'istante, io non sto facendomi da me. Io non mi faccio da me. Perciò in questo momento io sono qualcosa-d'altro-che-mi-fa, sono come fiotto che sgorga da una sorgente.
Perciò dire "io" con totale consapevolezza è dire (non possiamo che usare questa che è la parola più dignitosa e più umana del vocabolario) "tu". lo, in questo istante, non ho evidenza più grande del fatto che io sono tu-che-mi-fai.
Senza abbordare questa esperienza, è come se uno non potesse comprendere che cosa è pregare. La coscienza di sé fino in fondo sta soltanto nell'atto del pregare, cioè del riconoscimento di Colui cui apparteniamo, di Te cui appartengo: Padre Nostro. Dice la Bibbia: «tam pater, nemo», nessuno è così Padre.
Perché il padre naturale dà l'abbrivio iniziale alla creatura, mentre il Padre, che è l'Essere cui apparteniamo, ci genera ogni istante, sta generandomi ora come il primo istante. Per questo io sono totalmente fatto di Lui, gli appartengo totalmente, così che anche «i capelli del vostro capo sono numerati», come dice il Vangelo.
Ma in questa percezione, in questa trasparenza di coscienza, scaturisce l'esperienza più stimolante, più consolatrice, più affascinante della vita: l'esperienza della gratuità totale del fatto che ci .sono. Non c'è niente di più stimolante e di più affascinante: il fatto che ci sono implica la bontà originale, fondamentale e ineludibile dell'Essere, e perciò l'aspetto di dono, di ricchezza positiva, che l'Essere è per tutto ciò cui dà vita.
Ecco, è dentro questa esperienza della gratuità che quella «pressione osmotica" di cui si è parlato prima, quel "riflesso esemplare" può avvenire. C'è una caratteristica di gratuità nel temperamento del padre e della madre necessaria perché l'educazione passi.
E' nell'esperienza della gratuità che il processo di educazione all'appartenenza può realizzarsi tra genitori e figli.
Un'esperienza di gratuità che ha come due flessioni. La prima è la gratuità verso l'essere, verso Dio; la gratitudine - si badi - verso Colui che dà la vita, verso Colui di cui è fatta la vita, che diventa gratitudine per il figlio concepito. Io credo che tutti i difetti più gravi della personalità possano dipendere dalla non gratitudine con cui una donna o un padre hanno aspettato o ricevuto un figlio. Perché la gratitudine verso ciò che nasce è lo stupore della gratuità dell'essere, è la trasparenza della coscienza della propria appartenenza totale.

La seconda flessione è lo stupore, la meraviglia in cui si traduce e quasi si concreta il senso della gratuità ultima del rapporto tra l'uomo e la donna. Senza questo senso ultimo di gratuità, perciò di stupore e di meraviglia, dell'uno verso l'altro, l'educazione all'appartenenza diventa difficile, perché quella trasparenza di cui abbiamo parlato non c'è. Solo il rapporto fra i due è appesantito perché privo di gratuità, se fra uomo e la donna manca questa percezione di gratuità della presenza dell'uno all'altro, allora il "riflesso esemplare" tarda o viene meno.

Dice il Vangelo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ora, amare se stessi non è amare le proprie reazioni (come normalmente accade: questo è l'egoismo); amare se stessi è amare il proprio destino. Perciò non si può amare la propria moglie o il proprio marito, l'altro, senza amore al suo destino (che è identico al mio).
Ma c'è un altro aspetto della gratuità: è il senso del compito comune. Dei due aspetti, amore al destino e senso dal compito comune, il più facilmente presente, il più copiosamente considerevole è questo secondo, anche se il più radicale e decisivo è il primo. Senza la gratuità data dal senso del compito umano il rapporto non tienetutto si disfa come foglie, o diventa "ubris", violenza. Il compito è infatti il confluire di tutto verso il destino comune.

4. Quale atteggiamento occorre avere verso il figlio?
Dovremo ripetere ancora: gratuità, la parola dominante, assolutamente non astratta, per la quale ci sopportiamo a vicenda e per la quale ancora un po' godiamo nella vita.
Si tratta innanzitutto di una gratitudine per la generazione, cioè l'accettazione completa che quel figlio appartenga a sé. In secondo luogo, della riconsegna del figlio all'Altro, a Ciò di cui il figlio è costituito e a cui appartiene in modo totale, sì che questa appartenenza ne costituisca la personalità. Insomma è l'atteggiamento di adesione da parte dei genitori a ciò che costituisce la persona del figlio, il rapporto con l'Essere, con Dio.
Ricordo sempre una delle impressioni più grandi che provai nei primi anni di sacerdozio. Veniva una signora a confessarsi tutte le settimane, ma poi, d'improvviso, non venne più. Dopo un mese ritornò: «Sa, non sono venuta perché mi è nata la seconda figlia». E, prima ancora che io potessi dirle "congratulazioni" o "auguri", proseguì: «Sapesse che impressione ho avuto appena mi sono accorta che si staccava; non ho pensato "è un maschio" o "è una femmina", ma "ecco, incomincia ad andarsene"».
Il figlio se ne va, è uguale a dire: "il figlio cresce", tanto appartiene ad un Altro. In questo processo l'atteggiamento originale di gratuità può vivere la separazione come occasione di riconoscimento del proprio figlio come qualcosa di diverso (sempre diverso da quello che uno si immaginava, e che ogni momento fa diventare diverso). Il figlio diverso è proprio il segno che appartiene a un Altro.
Se invece questo processo non si segue con gratuità, nasce il rancore: man mano che il figlio se ne va, un rancore più o meno sordo pone il genitore nella solitudine.
L'appartenenza del figlio al genitore è reclamata, recriminatoriamente, imprigionata dentro uno schema immaginato.
Il metodo per educare all'appartenenza. Il metodo, che rappresenta tutto il processo educativo, si può riassumere in una parola: esperienza. Che il figlio realizzi l'esperienza del vivere, del proprio io. E l'esperienza che salva l'appartenenza ad un altro dall'essere alienazione, ed assicura perciò l'identità, così che l'appartenenza all'altro è la propria identità.
Questa traiettoria educativa, che si chiama esperienza, ha un dinamismo:
a) La tradizione assimilata. L'appartenenza dei genitori nera sua concretezza assimilata, cioè la proposta. Il primo aspetto dell'educazione è la proposta, e questa è la propria trazione assimilata.
b) Il condurre per mano, cioè l'introduzione in una realtà concreta che il figlio possa assimilare. Questo secondo punto è certamente il più delicato, perché deve identificare l'ambito che costituisca possibile assimilazione per il figlio.
c) L'ipotesi di lavoro. Si tratta di un lavoro umano, perciò si intende un'ipotesi di significato. È la tradizione come ragione: tradizione non solo assimilata. ma assimilata nelle sue ragioni, senso e valori.
d) Il rischio. Che aumenta, che è destinato ad aumentare sempre. Proprio perché l'appartenenza è legame e responsabilità, lo spazio della responsabilità salva la santità e l'umanità del legame.
Assicura la vera appartenenza, per cui la proposta, il condurre per mano e l'ipotesi di lavoro come significato, tutto questo deve essere offerto e realizzato con delicatezza, o con discrezione verso la libertà che si evolve, verso la responsabilità del figlio.
Non credo che, tranne la morte, ci siano momenti così dolorosi per un genitore, nella compagnia che dà al figlio, che lasciarlo responsabile: «messo t'ho innanzi, omai per te ti ciba» (Virgilio a Dante).
e) La compagnia stabile, cioè la fedeltà. Dio è fedele. San Paolo osserva che Dio rimane fedele anche se lo tradiamo. Quindi compagnia stabile ai figli, fedeltà ad essi, discreta, sempre pronta ad intervenire, vigilante. Compagnia fino al perdono, all'infinito.

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