domenica 7 ottobre 2007

MEDICO E ORA MALATO POSSO DIRE NO ALL'EUTANASIA


...Ma posso dire fin d'ora che un paziente dopo la diagnosi ha bisogno di essere preso per mano, insieme alla sua famiglia. Dovrebbe poter capire dove andare a farsi curare, al di là di consigli e suggerimenti di amici e parenti.

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Milano, 3 ott. (Adnkronos Salute) - "Da medico, da oncologa, ero assolutamente favorevole a eutanasia e testamento biologico. Oggi, da malata, rivendico il diritto a vivere". E' lucida Sylvie Menard, capo dipartimento di Oncologia sperimentale della Fondazione Istituto nazionale dei tumori di Milano, quando ricorda la 'svolta' avvenuta due anni e mezzo fa. "Quel giorno, era il 27 aprile del 2005, sono diventata io stessa una paziente - dice la Menard, a margine del convegno sull'eutanasia in corso all'istituto - Mi hanno diagnosticato una malattia di quelle definite inguaribili. Ecco, quando ti ammali cambia tutto: quel giorno sono morta, e quindi rinata diversa qualche giorno dopo". "Oggi sarei pronta a chiedere l'eutanasia solo se la mia vita diventasse un peso per i miei familiari o in caso di dolore terribile e non alleviabile. Ma temo che, se la 'dolce morte' fosse legge in Italia, diventerebbe una scorciatoia per evitare di curare il dolore dei malati terminali e di sostenere e assistere le loro famiglie". Insomma, la sanità italiana deve fare di più per i pazienti, piuttosto che offrire loro la possibilità di dire basta.

"Ho il terrore di morire e che la mia famiglia dica: 'finalmente', perché oggi il peso di un malato terminale è sulle spalle dei suoi cari". L'oncologa è critica anche nei confronti del testamento biologico: "Non si può fare da sani, perché in questo caso la morte è qualcosa di astratto, quando ti ammali la prospettiva cambia e oggi io troverei uno scopo anche costretta a letto". La Menard, cattolica credente ma non praticante, si dice "dispostissima a provare qualsiasi terapia che abbia un minimo di razionale scientifico, se dà una possibilità di allungare la mia vita. Anche quando ero ricoverata in camera sterile e vedevo gli amici solo da un vetro, sentivo che quello era un giorno che meritava di essere vissuto".

La malattia ha cambiato anche il modo di lavorare della dottoressa. "Io opero in laboratorio, ma oggi guardo con attenzione l'organizzazione. Ho vissuto sulla mia pelle, e comunque in una posizione privilegiata, file, attese e disorganizzazione in ospedale. Il problema - prosegue la Menard - è che dopo la diagnosi il paziente viene lasciato solo. Ma all'annuncio di un tumore maligno il cervello va in tilt, non si capisce più niente, pensi solo 'sto morendo, sto morendo'. La malattia va spiegata piano, si deve metabolizzare. E' successo a me, eppure ero abituata a parlare con i malati. Ma poi la malata ero io". La Menard, che fa parte della Consulta dei medici ammalati per una medicina più umana voluta dal ministero della Salute, ricorda di essere impegnata con i suoi colleghi in un "censimento per capire cosa, nella nostra esperienza, non è andato bene. Ma posso dire fin d'ora che un paziente dopo la diagnosi ha bisogno di essere preso per mano, insieme alla sua famiglia. Dovrebbe poter capire dove andare a farsi curare, al di là di consigli e suggerimenti di amici e parenti. Il sito del ministero della Salute - dice la Menard - dovrebbe indicare i centri di cura di eccellenza per ogni malattia, con i casi seguiti ogni anno e una descrizione di servizi e attrezzature, un 'bollino blu' ministeriale utile per chiarirsi le idee in un momento così difficile. E' importante anche garantire standard uniformi di cure per tutta la Penisola, per dare la sicurezza al paziente che sta ricevendo le terapie e i trattamenti migliori. Evitando - conclude - penose odissee nella malattia".

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