martedì 23 ottobre 2007

VITA E BIOETICA I LIMITI DELLA POLITICA

. «In situa­zioni estreme, la lucidità di sguardo del paziente verso se stesso e la sua situazione è ben lungi dal potersi con­siderare obiettiva. Si affaccia sempre il rischio che altri di­ventino interpreti di una vo­lontà non formulata».




Settimane sociali • Dalla nascita alla morte dallo sviluppo alla malattia, la riflessione sul «bene più prezioso» D’Agostino: «Il vero pericolo è l’avvento del post umano»
di Giorgio Ferrari

Tratto da AVVRNIRE del 21 ottobre 2007

Tra famiglia e biopolitica è in at­to una guerra epocale. Ma la biopolitica viene da lontano e con essa i pericoli che reca con sé. Dalla «Politica» di Aristotele, pas­sando attraverso il «Leviathan» di Thomas Hobbes, essa è giunta ormai ai giorni nostri mostrando il volto di un paradigma perverso, rischioso per l’uomo e la sua dignità, foriero di im­pensati pericoli e di esiti sconosciu­ti, interpretazioni capziose di volontà astratte, derive che preannunciano - come tanti «post» che hanno scan­dito la fine di un pensiero o di un’e­poca - l’avvento del «post-umano».

Una vera «lectio magistralis», quella di Francesco D’Agostino, tenuta ieri mattina a Pisa nel corso della Setti­mana sociale, che senza adottare to­ni apocalittici o messianici ha in­chiodato la modernità e il tecnici­smo sociale che l’accompagna come un cilioso guardiano alla responsa­bilità severa di fare dell’uomo un og­getto e delle leggi un carcere norma­tivo.

Nell’ispido percorso concettuale che passa dalla sapienza greca all’alie­nazione della libertà individuale hobbesiana fino alla bioetica e alle sue insidie contemporanee, D’Ago­stino, la cui lezione s’inquadrava nel contesto del bene comune, ha am­monito: «Meno si legifera sulla vita e più si rispetta la natura. Il compito che aspetta la nostra generazione è essenzialmente quello di aprire gli occhi sulla realtà di un potere per­vasivo e impersonale che, assimi­lando corpo biologico e corpo poli­tico, toglie al primo la sua identità e al secondo la sua dignità spingendo l’individuo verso un’irrevocabile o­mologazione biopolitica. Talvolta – dice D’Agostino – si legifera addirit­tura in modo che fra uomini e ani­mali non vi sia alcuna differenza».

Parole che al di là della loro necessa- ria complessità non fanno altro che sollevare il velo sul rischio imma­nente che l’uomo d’oggi – molto più che un tempo – corre di fronte alla spinta impetuosa del potere, ossia di quella biopolitica che «giunge a svuotare i concetti di vita e di morte, di salute e di malattia, di terapia e di cura di ogni specificità naturalistica e scientifica, oltre che, ovviamente antropologica». E non solo soltanto i regimi totalitari ad avere disposto della vita e della dignità dell’uomo, poiché «quando questi sono tra­montati, la biopolitica ha potuto continuare a svilupparsi prendendo altre strade, con una pervasività in­quietante, con la pretesa eterna di gestire la nuda vita, autorizzandone l’esistenza o almeno sindacandone la stessa legittimazione sociale».

Sul banco degli imputati, non si fa fatica a comprenderlo, tutte le scel­te che la politica e il legislatore han­no sacralizzato attorno alla tematica della vita. Come l’aborto, «pratica co­mune nella storia e in genere tolle­rata in tutte le società da noi cono­sciute, ma che solo in un contesto biopolitico consolidato ha acquisito un’inedita rappresentazione simbo­­lica, elaborando la pretesa di essere riconosciuto alla stregua di un dirit­to fondamentale». O anche il dibat­tito che si va instaurando attorno al­la pretesa legalizzazione dell’euta­nasia, che «come l’aborto – che si è trasformato da decisione tragica e personalissima di alcune donne in una pratica sociale di regolamenta­zione delle nascite – così l’eutanasia si è trasformata da atto omicida ec­cezionale, estremo, tragico e pietoso in una pratica di gestione burocrati­ca e biopolitica della fine della vita umana». Duro il «j’accuse» di D’A­gostino: «In apparenza i fautori del­l’eutanasia vogliono semplicemente legalizzare quello che essi chiamano il «suicidio assistito» e poiché questa espressione può apparire troppo ru­vida, ecco l’invenzione di opportuni eufemismi. Non so se merita più bia­simo o più sarcasmo il titolo del di­segno di legge, «Norme per regola­mentare l’interruzione volontaria della sopravvivenza», presentato in Parlamento nella scorsa legislatura a firma di diversi senatori, perché, pur nella stravaganza dell’acronimo utilizzato (Ivs, palese ricalco dell’or­mai consolidato Ivs), esso ci aiuta a capire la sostanza biopolitica della questione della fine della vita uma­na. Il fatto che si cerchi di introdur­re l’espressione interruzione della so­pravvivenza, per qualificare la mor­te, indica l’incapacità conclamata del paradigma biopolitico di pensare al­la vita, come ad un bene in sé».

Il vasto fronte della ricerca si schiu­de di fronte a noi. La bioetica, la me­dicina, la politica, la dignità umana: attori tutti sul medesimo palcosce­nico, i cui ruoli però non sono inte­ramente definiti e tutelati.

«Occorre – ha detto D’Agostino – di­fendere la scienza come ricerca pu­ra e disinteressata. Non c’è niente di male nelle ricadute economiche del­la ricerca e nei brevetti; quello che c’è di male è se si fa ricerca solo in ba­se agli interessi economici, come di­mostra il completo abbandono del­la ricerca sulle malattie molto rare, perché il ritorno economico non è ampio, o viceversa la forte pressione sociale verso l’utilizzo della RU486, che avvantaggia l’economia nazio­nale francese». Vi è poi il rischio che il testamento biologico« possa por­tare a una gestione burocratica del­la fine della vita, codificando come legale l’abbandono terapeutico, una soluzione che metterebbe al riparo le strutture sanitarie da ogni tipo di ri­schio legale e fa anche risparmiare sotto il profilo economico».

«Una sola cosa – conclude D’Agosti­no – appare certa: il paradigma bio­politico va decostruito prima che es­so giunga alla soglia irreversibile del­l’implosione, prima cioè che apra le porte all’avvento post-umano».


«Sui valori umani non si negozi»
In assemblea si accende il dibattito sulle frontiere dell'esistenza: «Il criterio della salute perfetta, visione antropologica parziale»
di Francesco Ognibene

Solo pochi anni fa un dibattito sulla bioetica come quello che ha acceso ieri mattina la terza giornata della Settima­na sociale di Pisa sarebbe stato impensabile, tanto un te­ma così tecnico e complesso sembrava estraneo all’azione so­ciale. Ma gli interrogativi sulle frontiere della vita hanno ormai occupato un posto centrale nell’impegno dei cattolici. Lo do­cumentano i mille delegati rimasti per cinque ore filate ad a­scoltare gli interventi, sommergendo poi i relatori con una tren­tina di riflessioni e domande, tanto da far slittare l’ora del pran­zo ben oltre le due.

Con la sua «lezione» D’Agostino ha fatto vibrare la platea che ha poi dato una risposta all’altezza, sollecitata anche dalle al­tre relazioni di una mezza giornata di grande consistenza. La vita accende interessi e passioni, specie ora che la si vede «ri­dotta a oggetto biologico a disposizione degli scienziati», spie­ga Laura Palazzani, che insegna filosofia del di­ritto alla Lumsa di Roma e da pochi giorni è vi­cepresidente del Comitato nazionale di Bioe­tica. Il problema è che ormai «ci siamo abituati a veder considerare come persona solo chi è ca­pace di autodeterminarsi», una visione che «ta­glia fuori intere categorie umane, a comincia­re dagli embrioni». Ma c’è una frontiera etica insormontabile da qualsiasi argomentazione ispirata all’utilità o all’efficienza, criteri che s’in­sinuano nei criteri di giudizio correnti. Laura Palazzani la descrive così: «O tutte le fasi dello sviluppo dell’essere umano sono intangibili o non lo è nessu­na, perché se prevale un qualsiasi accordo convenzionale allo­ra tutto è possibile». Un esempio? L’idea di «persona a inter­mittenza, che è tale solo quand’è cosciente, e dunque non lo è più appena si addormenta». Guai a pensarla solo come una battuta, perché questo ben singolare concetto l’ha elaborato un filosofo iper-citato come Engelhardt.

Cos’è questa se non una «antropologia sbagliata», come la de­finisce il sociologo Sergio Belardinelli? Quello che D’Agostino ha chiamato «paradigma della biopolitica» per Belardinelli si basa sul «primato assoluto della vita biologica» che snobba l’al­tro paradigma, tutto cristiano, della «vita buona che vale non solo per la sua fisiologia più o meno ben riuscita ma soprattut­to perché è capace di valori, come anche sacrificare se stessa per un bene superiore». Invece dilaga «la pretesa della salute perfetta», e se questa si incrina o viene meno allora «tutto è per- duto, perché la città dell’uomo è costruita per i sani, gli effi­cienti, i giovani, i belli, e si capisce che in una comunità così o­gni tecnica è lecita se serve a garantire la conservazione della perfezione biologica». Davanti a questa mentalità è il caso di impuntarsi: «Non consentiamo che siano la medicina, il dirit­to, il potere a dire quale vita ha valore e in cosa consiste la no­stra dignità». Ma tra i giuristi c’è chi storce il naso: «L’interven­to del diritto non è un’espressione autoritaria del potere sulla biologia – obietta Enrica Palmerini, che insegna diritto privato alla prestigiosa Scuola superiore Sant’Anna di Pisa –, perché nelle sue forme inclusive difende l’uomo». Il problema è quan­do questo stile abbandona il diritto positivo pilotandolo in rot­ta di collisione con quello naturale, fondato sulla certezza che «la persona è un fine in sé» e che «qualcuno vale per il solo fat­to di essere», come ricorda Marco Cangiotti, che all’Università di Torino ha la cattedra di filosofia politica. L’uomo continua a nascere com’è sempre stato, certo, ma si è iniziato anche a «fab­bricarlo » in base a un «progetto»: e, si sa, «l’oggetto progettato è totalmente mio», un bene privato che ap­partiene a chi l’ha immaginato con caratteri­stiche ben determinate. Di questa esaltazione della fisiologia si nutre la biopolitica, ovvero – l’efficace definizione è di Cangiotti – «l’irru­zione della sfera pubblica nelle dimensioni pri­vate del concepimento, della nascita e della morte, destinata a produrre un irrimediabile depotenziamento dell’umanità dell’uomo».

A questo punto fioccano gli interventi, e il mo­deratore Franco Garelli riesce nel piccolo mi­racolo di far parlare tutti (tra gli altri Maria Lui­sa Di Pietro, Paola Binetti, Carlo Casini, Egidio Banti, Olimpia Tarzia, Luisa Santolini e Luca Marconi). E la musica è quasi sempre la medesima: ci sono principi che non sono oggetto di alcuna trattativa. Qualcuno obietta: così però si va allo scontro, e la politica è l’arte della mediazione. Lo dice, per esempio, Gior­gio Campanini: «Attenzione a non cedere alla logica del muro contro muro, l’intransigenza è controproducente». D’Agostino è garbato ma fermo nella replica: «Caro professore, ci sono pun­ti su cui non si negozia. Non lo diciamo noi: lo dice la società civile. Qualcuno è disposto a mediare sulla tortura, la pena di morte o la pedofilia? No, vero? Allora trovo curioso che proprio sui temi della vita e della morte si tiri fuori l’argomento dei mu­ri contrapposti. La questione antropologica è diversa da quel­la politica. Sono i valori umani a non poter essere oggetto di trat­tativa non perché cattolici ma proprio perché appartengono a tutti. E tenere il punto, mi creda, non è intolleranza».


«Testamento biologico, il rischio burocratizzazione»
La conferenza stampa di ieri è stata occasione per riflettere su terapia, accanimento e volontà del malato
di Antonio Giorgi

Il testamento biologico? «Attenti, tra i suoi molti elementi di rischio uno non viene mai presentato e valutato in maniera suffi­cientemente approfondita: è quello della burocratizzazio­ne dell’abbandono terapeu­tico ». Ieri, durante la confe­renza stampa, quando è toc­cato a Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del di­ritto a Tor Vergata, tradurre davanti ai rappresentanti dei media gli interventi della giornata della Settimana so­ciale, il discorso, che verteva sui temi elevati della biopo­­litica, si è soffermato sulle te- matiche del testamento bio­logico. Se l’atto in sè – pun­tualizza il professore – rap­presenta la volontà consa­pevolmente espressa da un soggetto che intende rifiuta­re il proseguimento delle cu­re, entriamo nel campo di quella che tecnicamente può definirsi privatizzazione del­la decisione terapeutica. So­lo che c’è un ma. «In situa­zioni estreme, la lucidità di sguardo del paziente verso se stesso e la sua situazione è ben lungi dal potersi con­siderare obiettiva. Si affaccia sempre il rischio che altri di­ventino interpreti di una vo­lontà non formulata».
Cita il caso olandese, D’Ago­stino. Parla dei malati psi­chiatrici che per definizione non sono in grado di sce­gliere e decidere, sicché è il medico ad essere ritenuto «il miglior interprete della vo­lontà del malato». Finisce che un dramma umano di incommensurabile portata viene banalizzato «a proble­ma di gestione burocratica­amministrativa della fine di una vita». E quando, come succede in America e viene riferito dai media locali, le accettazioni ospedaliere in­sistono sui pazienti perché sottoscrivano moduli pre­stampati di testamento bio­logico, la finalità dell’opera­zione è chiara: impedire che l’ospedale debba farsi carico di eventuali «problemi di lungodegenza o di coma persistente».

Questa è la biopolitica che sta prendendo piede. Biopo­litica però è anche quella di certe aziende farmaceutiche che investono somme co­lossali per cercare molecole meno costose in grado di rimpiazzare altre che fun­zionano ottimamente sul piano terapeutico ma han­no il difetto di costare parec­chio. «Non mi si venga a di­re che tutto ciò ha a che ve­dere con la salute del pa­ziente ». Ma in materia di testamen­to biologico ci vuole una leg­ge o no? Il quesito è rivolto alla professoressa Laura Pa­lazzani (Filosofia del diritto alla Lumsa). È importante – chiarisce la Palazzani – di­fendere due principi, il no al­l’accanimento terapeutico e il parallelo riconoscimento del fatto che non si deve at­tribuire a chi non firma la vo­lontà di essere soggetto di ac­canimento.

Ciò premesso, «il no all’accanimento è pro­blema medico, non legisla­tivo. Il vero problema che sta dietro è il no all’eutanasia». Certi progetti di legge pos­sono aprire la strada proprio a questa pratica.

Che futuro avranno le Setti­mane sociali della Chiesa i­taliana? La domanda diret­tamente posta al professor Franco Garelli, preside di Scienze politiche a Torino, trova pronta risposta: «Co­me strumento di elabora­zione culturale dei cattolici certamente persisteranno. Ripensiamo pure la loro for­mula, ma magari solo per ri­confermarla ».



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