sabato 1 marzo 2008

SI PUO' VIVERE COSI' PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ALBERTO SAVORANA

Vittadini 1 febbraio 2008

Canti di introduzione: Il nostro cuore (p. 208)
Inno delle scolte di Assisi (p. 227)
Ave Maria splendore del mattino (p. 183).

Vittadini: La scuola di comunità di quest’anno è incentrata sulla lettura del libro di don Giussani «Si può vivere così?» dedicato alle virtù teologali (fede, speranza, carità) che sono il fondamento di tutte le virtù morali.
In sintonia con le altre scuole di comunità del Movimento, abbiamo deciso di svolgere oggi la presentazione del libro e, a tal fine, abbiamo chiamato il direttore di «Tracce» Alberto Savorana. A lui chiediamo di introdurci alla lettura.

Alberto Savorana:

Sono realmente emozionato per essere stato invitato alla “mitica” Scuola di comunità di Vitta e mi sento un poco come Aronne incaricato di reggere le braccia di Mosé per consentire all’esercito di Israele di avere ragione sui suoi nemici.


Il libro della Scuola di comunità di quest’anno vuole realmente essere una compagnia al cammino da compiere nella nostra vita.

Come evidenzia don Julian Carron nella lettera che ha scritto ai membri della Fraternità di CL, è realmente provvidenziale la coincidenza tra quanto è avvenuto nell’Università «La Sapienza» e la scelta del testo della Scuola di comunità di quest’anno: «Noi siamo i primi a sentire il bisogno di un’educazione che ci consenta di conoscere la realtà fino in fondo, ad avvertire l’urgenza di cominciare un cammino di conoscenza che ci renda familiare il Mistero».

La preoccupazione di chi ci guida è così sinteticamente riassumibile: occorre affermare qualcosa di reperibile nel reale e nella nostra concreta esperienza; altrimenti siamo sconfitti in partenza, alla radice. La mentalità comune e dominante ci toglie la terra da sotto i piedi nei luoghi più interessanti della nostra vita quali possono essere l’ambiente familiare o quello in cui svolgiamo la nostra attività lavorativa.

Attenzione: il titolo («Si può vivere così?») non vuole essere una domanda scettica e disillusa, come potrebbero porsela quelli che – dopo aver provato ogni tipo di esperienza – si rivolgono come ad un’ultima frontiera in cui sperano di trovare qualcosa di indefinito e nuovo.

Don Giussani, in questo libro che ci accingiamo a meditare, ha riversato 70 anni della sua esperienza in un dialogo appassionato e continuo con un gruppo di Memores Domini che avevano deciso di consacrare tutta la loro vita a Gesù.

Questo colloquiare con loro è tutto improntato a capire quale sia la natura dell’esperienza umana, dal suo sorgere al suo compiersi. Emerge, così, il contenuto di quello che è veramente il cristianesimo, vale a dire la risposta ed il compimento ad un’attesa profonda e tipica dell’umano.

Il senso del libro è, pertanto, quello di accompagnarci a fare anche noi una strada che don Giussani aveva in qualche modo prima di noi già percorso e nella quale, convinto della bontà di quello che aveva trovato, invita ad inoltrarci.

Don Giussani ricompone, sin dall’inizio del libro (l’unica parte che mi accingo brevemente a commentare), due cose che da cinque secoli (dall’inizio di quella che viene definita l’età moderna) sono state dapprima contrapposte tra loro e poi l’una contro l’altra armate: l’esperienza umana e l’esperienza cristiana.

Emerge da questo pensiero dominante (che influenza nell’oggi la nostra mentalità ed il modo concreto con cui ci poniamo davanti alle cose nell’affrontarle) che in qualche modo fede, speranza, carità riguardano la sfera religiosa, mentre invece la concreta esperienza umana (quella che inevitabilmente è dato a tutti di vivere) ha a che fare con ben altre e immediatamente più importanti categorie quali la libertà, la giustizia, la ragione, l’amore, l’affetto. Con questi ultimi concetti tutti gli uomini debbono confrontarsi necessariamente perché – come ciascuno intuisce – fatalmente in esse ci si imbatte nella quotidiana esperienza del reale, mentre invece le accennate virtù teologali sono riservate a chi ha un di più (l’esperienza religiosa) ultimamente non sindacabile e rimessa alla sua personale iniziativa.

Ciò che emerge dall’impostazione che da subito don Giussani conferisce al libro è un radicale attacco a questo modo di porsi: si vuole dimostrare come la verità delle parole cristiane è il compiersi di tutto ciò che costituisce il cuore dell’uomo nella sua più intima essenza di desiderio del bene, del bello, della felicità. Vale a dire: esattamente il contrario di chi, dopo aver provato tutto nella vita e rotto ormai a ogni esperienza, cerchi una sorta di una consolazione spirituale.

La fede è, invece, “familiare” alla ragione. Don Giussani non si stancava mai di ricordarci il braccio alzato di un suo alunno il primo giorno che mise piede al Berchet, alla prima lezione, al primo minuto di insegnamento dell’ora di religione: «Professore, è inutile che ci venga a spiegare in cosa consiste la fede. Essa è totalmente separata dalla ragione e non c’entra nulla con essa.

Finirebbe per parlarci di cose che non hanno alcuna influenza sulla nostra vita».

Nella presentazione di «Si può vivere così?» a Roma nel 1994 (quando era uscita la prima edizione del volume), lui era partito proprio da questo ricordo ed insisteva sul fatto che la fede deve dimostrare la propria vicinanza e la propria familiarità con la ragione. Quest’ultima – come ricordava il Papa alla «Sapienza» – è il desiderio istintivo insito nell’uomo di conoscere la realtà che lo circonda ed il significato delle cose. La fede, analogamente, è una passione sincera per la totalità di questa conoscenza in maniera che si tenga conto di tutti i fattori che consentono all’uomo di conoscere il reale.

La ragione, quindi, nella sua essenza è una passione per la Verità.

Ma dire questo significa, ancora una volta, contrapporsi alla mentalità odierna che nega in radice la possibilità per l’uomo di conoscere qualcosa di vero: al massimo sono consentite le opinioni sulle quali, peraltro, ci si scanna a morte senza giungere mai ad alcun approdo sicuro.

Si è rinunciato a porsi il problema della verità e la ragione proprio per questo – come ancora una volta rammentava Benedetto XVI nel testo che avrebbe dovuto leggere alla «Sapienza» mentre gli è stato impedito di farlo – è diventata triste. [Ecco il passaggio del discorso: « L’uomo vuole conoscere, vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra scientia e tristitia: il semplice sapere, dice, rende tristi.

E di fatto, chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste» «Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa». ]

Questa è la sfida lanciata dalla mentalità moderna nella quale tutti noi siamo immersi: la fede non c’entra niente con la ragione e la ragione stessa, del resto, non può conoscere nulla di vero. Una sfida alla quale don Giussani reagisce da subito vigorosamente: «La fede, prima di tutto, non è soltanto applicabile a soggetti religiosi, ma è una forma naturale di conoscenza, una forma naturale di conoscenza indiretta: di conoscenza, però!». Intende affermare che la fede ci fa conoscere cose che non vediamo attraverso un testimone. Tale procedimento è parte integrante della ragione, del metodo che la ragione concretamente impiega nel nostro sforzo di afferrare e comprendere il reale, l’esperienza, quella di tutti i giorni.

Insomma: la fede non è un problema riservato ai cristiani (magari particolarmente impegnati), ma un metodo di conoscenza che tutti utilizzano per vivere.

Io ho ricevuto centinaia di lettere da quando sono direttore di «Tracce», ma non una di esse si è rivelata falsa a posteriori. Di moltissime cose che ho pubblicato io non ho avuto conoscenza diretta; quello che ho appreso di ciò che succedeva nel mondo me lo hanno detto don Giussani prima e Vittadini adesso, particolarmente al loro rientro dai viaggi nei quali hanno incontrato le comunità del Movimento sparse per il mondo.


Al loro ritorno, essi mi hanno raccontato quello che hanno visto e sentito ed io non ho mai nutrito il minimo dubbio su quanto mi hanno narrato; ero sicuro di quegli eventi come vi dico che sono sicuro che il foglio che ho davanti è bianco. Questo non è dovuto al fatto che don Giussani e Vitta sono cristiani oppure che fanno parte del Movimento perché questo metodo di conoscenza viene adottato da tutti, anche da quelli che lo usano ma non ci pensano.


Volete un esempio concreto? Prendiamo la lettera che hanno scritto al rettore de «La Sapienza» 67 docenti di quell’Ateneo.
[Eccola: « Roma, 23 Novembre 2007
Al Magnifico Rettore Prof. Renato Guarini - Sapienza, Università di Roma P.le Aldo Moro, 5
00185 Roma
e p.c. Al Presidente dell’AST, Prof. Guido Martinelli
Al Preside della Facoltà di Scienze MFN Prof. Elvidio Lupia Palmieri
Al Direttore del Dipartimento di Fisica Prof. Giancarlo Ruocco
Magnifico Rettore,
con queste poche righe desideriamo portarLa a conoscenza del fatto che condividiamo appieno la lettera di critica che il collega Marcello Cini Le ha indirizzato sulla stampa a proposito della sconcertante iniziativa che prevedeva l’intervento di papa Benedetto XVI all’Inaugurazione dell’Anno Accademico alla Sapienza.
Nulla da aggiungere agli argomenti di Cini, salvo un particolare. Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso nella città di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un’affermazione di Feyerabend: «All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto».
Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all’avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano.
In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l’incongruo evento possa ancora essere annullato.
Le porgiamo doverosi saluti, Gabriella Augusti Tocco, Luciano M. Barone, Carlo Bernardini, Maria Grazia Betti, Enrico Bonatti, Maurizio Bonori, Federico Bordi, Bruno Borgia, Vanda Bouche’, Marco Cacciani, Francesco Calogero, Paolo Calvani, Paolo Camiz, Mario Capizzi, Antonio Capone, Sergio Caprara, Marzio Cassandro, Claudio Castellani, Flippo Cesi, Guido Ciapetti, Giovanni Ciccotti, Guido Corbo’, Carlo Cosmelli, Antonio Degasperis. Francesco De Luca, Francesco De Martini, Giovanni Destro-Bisol, Carlo Di Castro, Carlo Doglioni, Massimo Falcioni, Bernardo Favini, Valeria Ferrari, Fernando Ferroni, Andrea Frova, Marco Grilli, Maria Grazia Ianniello, Egidio Longo, Stefano Lupi, Maurizio Lusignoli, Luciano Maiani, Carlo Mariani, Enzo Marinari, Paola Maselli, Enrico Massaro, Paolo Mataloni, Mario Mattioli, Giovanni Organtini, Paola Paggi, Giorgio Parisi, Gianni Penso, Silvano Petrarca, Giancarlo Poiana, Federico Ricci Tersenghi, Giovanni Rosa, Enzo Scandurra, Massimo Testa, Brunello Tirozzi, Rita Vargiu, Miguel A. Virasoro, Angelo Vulpiani, Lucia Zanello. » ]


Questi docenti, forse senza saperlo, hanno applicato il metodo della conoscenza per fede. Dimenticando un aspetto fondamentale di questo metodo di conoscenza: la verifica di attendibilità del testimone che esige che io impegni tutto me stesso e le mie risorse con esso.

Cos’è successo in concreto? Che si sono fidati di Wikipedia, una enciclopedia on line molto diffusa su internet ma senza alcun controllo nel senso che ciascuno può metterci quello che vuole; è di un’attendibilità tale che io non la consiglierei a mia figlia di nove anni quando dovesse accingersi ad una ricerca sulle Crociate o sui lombrichi.

Data e luogo sono sbagliati: quella frase il Papa non l’ha detta a Parma il 15 marzo 1990, ma in un altro luogo e momento: il luogo è l’Università «La Sapienza» e la data giusta è il 15 febbraio 1990. Proprio questi errori ci hanno consentito di appurare che la notizia e la frase sono state accertate mediante la consultazione di questo inaffidabile strumento. Hanno consultato la voce “Joseph Ratzinger” ma non hanno avuto onestà e coraggio perché non hanno riportato, dopo la frase di Feyerabend, il commento che appare su Wikipedia: «mostrando quindi che il Papa non condivide le idee di Feyerabend tanto che ha chiesto scusa per il processo che la Chiesa di quel tempo aveva intentato contro Galileo».


Tutti i media (quasi tutti) che hanno pubblicato la notizia hanno applicato il metodo della conoscenza per fede fidandosi di quello che era stato reso noto senza minimamente premurarsi di verificare la fondatezza e la credibilità del testimone” da cui avevano attinto la conoscenza.


Rimane assodato che la conoscenza per fede fa integralmente parte del metodo che la ragione impiega: «Tutto quello su cui noi approfondiremo lo sguardo e approfondiremo l’affezione, tutto quello su cui noi costruiremo è definito dalla parola fede, è il campo della fede, è la realtà tentativamente guardata e tentativamente vissuta nella fede. Quello di cui io vi parlerò riguarda la fede. Ma la fede nostra, la fede su cui si svilupperà tutto il nostro lavoro ha lo stesso sistema di quello che ho detto: conoscenza di una realtà per mediazione. … Noi dovremo usare e sviluppare questa parola fede ad un livello particolare, il livello più importante di tutti i livelli più importanti della vita, il livello più grande della vita: quello che riguarda il destino» (p. 28).

E’ un metodo di conoscenza, quello della fede, che non impegna (come invece altri validi metodi) una sola parte di noi, in quanto coinvolge tutto il nostro essere: «Perché? Perché A, per fidarsi di B, deve impegnare tutto se stesso, non appena una rotella della sua testa, come quando si ragiona con la matematica, è una rotella che va.

Qui invece, sono tutte le rotelle e tutti gli annessi e connessi con il corpo e l’anima … quando dico “io” intendo: ragione, occhi, cuore, tutto» (p. 29).


Don Giussani, a partire dall’esperienza del primo incontro di Giovanni e Andrea con Gesù, traccia i cinque passaggi fondamentali della fede:

1) un affondo sull’incontro, perché tutto parte da un incontro
umano

2) il carattere di eccezionalità dell’incontro con Cristo
3)il primo riverbero di esso: uno stupore
4) lo sbocciare della domanda: “chi è costui?”
5)
quando Lui si dichiara, lo scattare del gioco della responsabilità e della libertà.

L’atto di fede non è irragionevole. Andrea e Giovanni hanno dovuto ammettere l’esistenza di un fattore che non si vedeva (il divino) che, tuttavia, era l’unico in grado di spiegare in maniera convincente quello che avevano sperimentato ed il solo in grado di dare ragione della “stranezza” in cui si erano imbattuti.

Una eccezionalità ha spiegato in maniera convincente perché i primi apostoli hanno deciso di legarsi a Cristo e, tramite questo, essi hanno conosciuto – per fede, appunto – il divino.

E’ da questo, è dalla fede che discendono poi speranza e carità.

Don Giussani ha definito la speranza esattamente come Benedetto XVI nella «Spe salvi», vale a dire non come una generica aspettativa di miglioramento scaricata sul futuro, ma come un atteggiamento saldo fondato su una certezza che si incontra nel presente.

Don Julian Carron (andare a rivedere “Amici, cioè testimoni” de La Thuile) ha fatto leva, per definire la carità, su questa frase: «Ti ho amato di un amore eterno avendo avuto pietà del tuo niente». Dio ha amato me, anche non se io non ho esitato ad odiare Lui.
«Giovanni e Andrea avevano fede, perché avevano certezza in una Presenza sperimentabile: quando erano là, nel primo capitolo di San Giovanni, a casa sua, seduti, verso sera, a guardarlo parlare, era una certezza in una Presenza sperimentabile in una cosa eccezionale, del divino in una Presenza sperimentabile. Poi – aggiungo io – per dormire sono andati a casa loro: da sua moglie, Andrea, da sua madre, Giovanni. Sono andati a casa loro, hanno mangiato a casa loro, hanno dormito a casa loro, si sono alzati, sono andati a pescare insieme agli altri compagni. Quello che avevano visto il pomeriggio antecedente, dominava nella loro testa, sì o no? Sì. Lo vedevano? No.» (p. 309).


E’ la sfida che lancia la Scuola di comunità di quest’anno: rendere conto del cristianesimo come di qualcosa che realizza il vero della mia esperienza umana.
Noi non vediamo più Giussani come, del resto, non vediamo più Gesù ma essi rimangono presenti tra noi.


Intervento (Stefano): Beh, anzitutto un saluto ufficiale al direttore di «Tracce» che io non avevo mai conosciuto di persona sino ad ora: benvenuto alla nostra Scuola di comunità.
Penso anch’io fortemente che tutto nasca da un incontro e, cioè, da una realtà sperimentabile: io, in questo senso, devo ringraziare Vittadini ma soprattutto il prof. Martini perché senza di loro semplicemente non sarei qui con voi.

Mi ricordo ancora che quest’ultimo l’ho incontrato nel settembre del 1994. L’uomo, l’uomo normale è come San Tommaso: non ci crede se non ci mette il naso. Se non fosse per l’esperienza di questa realtà incontrabile e toccabile, noi saremmo come i 67 professori de «La Sapienza»: innocentemente ignoranti (non so se si possa dire di un professore universitario) come loro.

Alberto Savorana: Guarda che non erano ignoranti; semplicemente, non hanno usato bene la ragione, non hanno applicato correttamente la loro ragione con un metodo adeguato.
Non hanno letto la terza premessa del 1° capitolo de «Il senso religioso» quando si accenna alla moralità come condizione del conoscere. La moralità, nel procedimento di conoscenza, significa amare la verità più di se stessi, essere aperti alla verità più del pregiudizio che noi ci siamo già formati sulla realtà. Essi sono stati colpevoli nella loro presunzione e sleali con la loro ragione. Ha vinto il loro preconcetto; l’istinto e la reattività non sono state ordinate.


Intervento (sempre Stefano): Ma, del resto, come si può stare di fronte al vero senza sperimentarlo nella realtà?

Alberto Savorana: Ed in effetti è nella realtà che io sperimento il vero che trattengo.

Intervento (): Qual è la differenza tra lo spalancarsi alla verità e l’arroccarsi su essa?

Alberto Savorana: Il primo atteggiamento presuppone la percezione che io non posseggo la verità perché dipendo in forza di una dipendenza originaria; il secondo atteggiamento inevitabilmente trae con sé l’inimicizia, la violenza, la menzogna.


Intervento (): I 67 de «La Sapienza» dovevano sapere che la conoscenza indiretta può ingannare. Non è un metodo sbagliato, ma è stato applicato in maniera non corretta perché esso comunque esige un forte interesse a conoscere.
A me è capitato di incontrare nuovamente il Movimento attraverso un amico la cui presenza per me è stata eccezionale; lo stare con lui ed il frequentarlo mi hanno messo dentro un presentimento del vero.


Alberto Savorana: L’intelligenza non impazzisce se mantiene il suo rapporto con il reale. Essere presenti a se stessi significa, ultimamente, conservare un attaccamento sincero con quanto accade; è la ragione per cui la frequentazione e la compagnia con un amico “eccezionale” ti desta al vero. L’amico non risolve tutte le questioni della tua esistenza, ma piuttosto ti coinvolge nell’orizzonte della personale verifica che lui sta compiendo su di sé. E’ questa la ragione per cui, dopo sei mesi che non lo vedi, non nasce in te il dubbio di non aver fatto alcun incontro quanto piuttosto la nostalgia della sua lontananza che perdura. E non è nemmeno obiezione la nostra eventuale incoerenza morale: noi possiamo cadere e sbagliare cento volte, ma la verità di questo incontro, la verità di questa esperienza non ce la può levare nessuno.

Vittadini: Faccio io una domanda. Che differenza c’è tra la fede che fa un percorso sulla ragione e una che questo percorso non lo fa? [Guarda verso Savorana]

Alberto Savorana: Sarebbe bellissimo che a questa domanda rispondessi tu stesso.

Vittadini: Vi dicevo la volta scorsa della nostra professoressa di Firenze.
In quella città un ragazzo di sedici anni era morto improvvisamente in uno scontro mentre stava guidando il motorino. Nessuno dei professori e dei docenti di quella classe si è presentato al funerale di questo ragazzo. Questo fatto ha segnato profondamente la classe tanto che i ragazzi hanno rifiutato in blocco i loro docenti e non hanno più voluto seguire alcuno dei loro insegnamenti. Di fronte all’impossibilità di raddrizzare la situazione, il corpo docente ha deciso di abbandonare questi ragazzi.


Li ha letteralmente raccolti una professoressa del Movimento.
Nella prima lezione ha dovuto spiegare cos’è il positivismo.
Il concetto fondamentale di questa posizione di pensiero è che l’umanità avanza nella conoscenza in maniera progressiva sino a ridurre sempre più ed in maniera inevitabile ciò che non conosce, lo spazio dell’ignoto. In sostanza, coincidendo l’ignoto con Dio, il cammino della conoscenza si caratterizza per una fatale e sempre più ampia emarginazione di Dio dalla sfera dell’umanamente rilevante.
Sulla lavagna ha disegnato un cerchio che rappresentava la realtà conoscibile ed ha chiesto ai ragazzi qual era il posto da assegnare a Dio. Si è alzato uno di loro che ha detto: «Manca il Mistero. Per fargli posto cancelli anche Dio».A questo punto si è deciso di comprendere che differenza c’è tra l’ignoto e il Mistero.
La nostra docente ha fatto presente che la mamma del ragazzo di sedici anni avrà sicuramente saputo dall’autopsia che è stata eseguita come è morto suo figlio mentre invece, se la stessa cosa fosse accaduta 3.000 anni fa, la mamma di un ragazzo di quel tempo non avrebbe mai saputo scientificamente la causa della morte. Ma l’una e l’altra madre hanno il problema di capire “perché” è accaduta una cosa del genere e quale sia per loro il significato di quanto è capitato: di fronte a questa domanda (che appare subito molto più fondamentale e decisiva dell’altra) la posizione della madri, adesso come 3.000 anni fa, è assolutamente identica e la scienza non riesce – nonostante i suoi progressi – a fornire alcun aiuto nella risposta.

Il ragazzo ha chiesto alla nostra professoressa: «Lei crede?» ed alla risposta affermativa ha replicato: «Io non più da quando è morto il mio amico. Almeno i medici una spiegazione la danno, ma i preti nemmeno quella».

Lì si è capito che si giocava la questione decisiva.
La nostra prof ha chiesto: «Ma tu vuoi essere amato?» ed il ragazzo ha risposto: «Certamente sì». «E allora», ha proseguito la nostra professoressa, «non ti accontenteresti e non ti sentiresti appagato se ti regalassi un libro che parla dell’amore e lo spiega, perché tu hai bisogno di uno che ti vuole bene veramente. Ci sono domande che non esigono come risposta una spiegazione, ma una Presenza». E lui ha esclamato: «M’ha fregato!»

La nostra prof lo ha invitato a casa sua e lui ha chiesto se era sposata e se aveva figli ricevendo una risposta negativa; da qui gli è stato spiegato chi sono i Memores Domini e perché hanno compiuto la scelta che li contraddistingue. Quando è stato invitato ad una nostra vacanza ed ha visto come vivevano quelli del Movimento che aveva incontrato, si è rivolto alla professoressa che lo aveva inviato chiedendo: «Tutti Memores anche loro?».

Perché è ragionevole il suo atteggiamento? Perché, ad un certo punto di una Presenza incontrata che uno capisce non riducibile alla natura, scatta inevitabilmente la domanda: «Ma tu, chi sei?». Uno ha l’onestà di riconoscere di essersi imbattuto in una Presenza eccezionale che forma il suo destino. Quel ragazzo, attraverso la nostra amica, ha incontrato in maniera ragionevole un fattore eccezionale assolutamente pertinente alla sua vita.
Questo percorso noi lo dobbiamo fare continuamente per scoprire come molte Presenze della nostra vita non possono essere ridotte agli antecedenti umani degli individui in cui noi ci imbattiamo. La constatazione da registrare è la seguente: trascende quello che sono, ma mi corrisponde.


Quel ragazzo ha fatto lo stesso incontro di Giovanni e Andrea: la ragione umana si imbatte in un contenuto eccezionale e si fida della risposta: cominci a credere. Perché, alla fine, il Mistero è una faccia, il Mistero si presenta a te attraverso un volto.

Come ha scritto don Julian Carron nella lettera alla Fraternità di CL: «Soltanto percorrendo quella strada possiamo veramente conoscere, attraverso il testimone, la realtà di cui parla la fede cristiana».

Sul prossimo «Tracce» troverete la foto di don Julian Carron con in braccio un bambino. E’ il figlio di una coppia che vive a casa di Joseph H.H. Weiler un nostro amico ebreo il quale, pur conservando la sua fede, ha chiesto che una famiglia del Movimento fosse ospite a casa sua.

Mi diceva che se ne vanno a maggio di quest’anno e lui è sinceramente sconfortato perché gli verrà a mancare un forte punto di riferimento affettivo, un punto fermo della sua esistenza. Tutto questo è francamente incomprensibile se si pensa che lui è attestato fermamente al suo credo di ebreo.

Tra l’altro si sta impegnando in un “Appello a Gesù” nel senso che studia volumi e volumi per verificare se il processo a Nostro Signore fosse stato correttamente condotte secondo le regole procedurali vigenti in quel tempio nella Palestina. La figura di Gesù Cristo è diventata un chiodo fisso della sua vita di eminente ed autorevole studioso.

La testimonianza che questa famiglia del Movimento ha dato ha permesso a Joseph Weiler di imbattersi in qualcosa di stranamente eccezionale tanto che egli, mantenendo la sua fede ebrea, si è implicato con la presentazione di un libro di don Giussani a New York e, da quando ha incontrato il Meeting, non ci lascia più perché – come dice lui – credeva la prima volta di essere stato invitato ad una conferenza ed invece si è imbattuto in un’umanità nuova.

La Scuola di comunità di quest’anno, quindi, è l’occasione per andare a fondo sul punto di partenza: affrontare la realtà secondo la ragione nella totalità dei suoi fattori. La fede è un avvenimento che deve riaccadere continuamente e ci dà la forza per andare avanti nell’esistenza.
Leggiamo, per la prossima volta, «Si può vivere così?» da p. 21 a p. 27.

1 commento:

Anonymous ha detto...

ma di dove sei?