I vecchi partiti avrebbero mediato nel pensiero e nel linguaggio, cercato una soluzione capace di senso universale della cittadinanza, e avrebbero censurato pretese e urla degli intolleranti. Ma in una nazione senza guida etica, senza forza culturale e politica, e per di più infestata dal rancore senza misura e senza significato, non poteva che finire così. Che peccato.
Tutti in piazza
di Giuliano Ferrara
Tratto da Il Foglio del 26 aprile 2008
A Torino il trionfo del qualunquismo nella forma spettacolare e come al solito di grande successo della ciarlataneria, che fa ombra sulla cerimonia istituzionale, composta come in una bara su altra piazza, mentre echeggiano gli insulti al sindaco e al presidente della Repubblica.
A Genova i fischi all’arcivescovo Angelo Bagnasco, un sereno uomo di chiesa travolto dall’intolleranza che si traveste da resistenza laica. A Milano polemiche belluine per l’assenza del sindaco Letizia Moratti, maltrattata la volta scorsa insieme con il padre invalido: con quella sciagura da Nobel della famiglia Fo-Rame in lacrime di disperazione per la vittoria di Berlusconi. A Roma i fischi toccano al deportato Piero Terracina, perché la comunità ebraica non sarebbe stata abbastanza vivace e ardente nell’opposizione alla candidatura di Gianni Alemanno. E su tutto l’oscena commistione di liturgia repubblicana e politica elettorale, tra nostalgie per il voto che non fu e inquiete premonizioni intorno al voto che sarà. Una secessione dietro l’altra, secessioni fatte in serie per la giornata della Liberazione. I dementi di sinistra che quindici anni fa hanno preso il posto delle tricoteuses mentre veniva abbattuta la Repubblica dei partiti, e hanno fatto la maglia sotto il patibolo su cui magistrati codini immolavano le classi dirigenti che avevano firmato la Costituzione, provocando valanghe di giustizialismo con argomenti alla Beppe Grillo, ora si lamentano per l’offesa alla memoria nazionale, per la trasformazione ineluttabile di una giornata di festa nazionale in un incubo di divisione nazionale. Occorreva difendere con sapienza una memoria, elaborandola come storia e purgandola delle sue asprezze, e invece piano piano il 25 aprile, tra un’aggressione e un’intimidazione, tra cento mistificazioni di bottega culturale ed elettorale, è stato ridotto a quello straccio che ieri s’è visto. Ciò che con il tempo doveva allargarsi a tutti gli italiani, compresi i leghisti e i fascisti, è stato sequestrato da pochi capifazione ed espulso dal cuore maggioritario del paese, indotto a diffidare di un calendario della patria al servizio di un vecchio ciarpame ideologico. I vecchi partiti avrebbero mediato nel pensiero e nel linguaggio, cercato una soluzione capace di senso universale della cittadinanza, e avrebbero censurato pretese e urla degli intolleranti. Ma in una nazione senza guida etica, senza forza culturale e politica, e per di più infestata dal rancore senza misura e senza significato, non poteva che finire così. Che peccato.
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