mercoledì 23 aprile 2008

OLTRE IL VOTO

E’ proprio questo a dividere i credenti dai non credenti: il significato, il senso del dolore e della sofferenza.
A una donna che sa di avere in grembo un figlio handicappato si può consigliare di non abortire solo se si è disposti a condividerne il dolore e le circostanze concrete, e lo si può fare se si è consapevoli che Qualcuno a quel dolore ha dato e darà un senso. Si può dire a un malato grave “Non avere paura” se sappiamo di non essere soli, perché Qualcuno ci ha promesso “Io morirò con te”, e poi “Io risorgerò con te”. Si può accogliere e condividere la sofferenza solo se si è fatta l’esperienza di essere accolti da Qualcuno che, pur non cancellando i problemi, non delude mai, perché dare significato al dolore permette di attraversarlo senza esserne distrutti.


Perchè è ancor più ragionevole una battaglia per l'umano
di Assuntina Morresi
Tratto da Il Sussidiario.net il 21 aprile 2008



Negli ultimi mesi il dibattito italiano sull’aborto ha fatto discutere moltissimo, arrivando a far parlare di sé anche l’autorevole New York Times.

Eppure la lista “Aborto? No grazie” promossa da Giuliano Ferrara, non ha influito sul panorama emerso dai risultati elettorali, nonostante le profonde mutazioni subite dal quadro politico. Perché? C’è chi ha dato la colpa alla pressione verso il voto utile, chi ha accusato la Chiesa di anteporre la realpolitik ai valori non negoziabili e chi, come lo stesso Ferrara, ha interpretato la sconfitta come la definitiva prevalenza dell’idea che l’aborto sia ormai un diritto.

A una settimana dal voto, vorrei proporre il mio personale bilancio di quella che, nata come una battaglia culturale, si è poi trasformata in un tentativo di azione politica diretta, non riuscendo però a cogliere i risultati sperati.

Appena lanciata l’idea della moratoria sull’aborto, Giuliano Ferrara aveva annunciato il suo digiuno liquido natalizio per far avere un finanziamento al Cav della Mangiagalli diretto da Paola Bonzi, parlando pubblicamente della propria responsabilità nell’aborto di tre sue compagne, in anni passati. Ne ero rimasta commossa, perché significava affrontare il problema a partire dalla propria esperienza di vita, confrontandola con quella di chi, come Paola Bonzi, per trent’anni si era dedicata a una paziente opera di ascolto e sostegno di tante donne che chiedevano di abortire. Un approccio coraggioso perché concreto e personale, che finalmente riapriva un silenzio di trent’anni, nei toni giusti.

Ma la campagna non è continuata così. Innanzitutto è nato subito un equivoco sullo scopo: nonostante Ferrara abbia detto fin dall’inizio e ripetuto fino alla fine, a chiare lettere, che la sua non era una battaglia politica per cambiare la legge, in tanti (amici e nemici) hanno ritenuto che il vero obiettivo fosse proprio la modifica, o addirittura la cancellazione della 194. L’equivoco emergeva nei dibattiti televisivi, nei commenti politici: fino all’ultimo, esponenti di destra (come Daniela Santanchè) e di sinistra (come Vittoria Franco) erano convinti che fosse in atto il tentativo di cambiare o abolire la legge attuale sull’aborto. Ma ne erano convinti anche molti tra i sostenitori della lista: basta scorrere le tantissime lettere pubblicate in questi mesi dal Foglio per accorgersene.

E’ stato il riflesso condizionato di una grande parte del popolo pro-life, per il quale la legge è il grande nemico, la causa dell’aborto in Italia. Anche chi diceva di non volerla cambiare, spesso lo faceva a denti stretti, con un “vorrei tanto, ora non posso, ma quando ci arrivo….”, come se l’aborto fosse nato insieme alla legge, e abolendo la legge se ne cancellasse automaticamente l’esistenza.

Questo equivoco, temo, è la fonte di tutti gli errori politici in cui il mondo cattolico è incorso su questo tema. Gli aborti, anche se clandestini, c’erano già prima della 194: tra centomila e duecentomila all’anno, con “alcune decine di casi all’anno” di donne morte, secondo stime pubblicate nel 1976 da Medicina e Morale, la rivista dell’Università Cattolica, e citate come attendibili da amici pro-life come il Presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini. Sulle cifre, e su come vengono maneggiate, forse è necessario fare un po’ di chiarezza.
L’anno scorso gli aborti in Italia sono stati 130.000, di cui 37.000 circa di straniere.
Questo significa che gli aborti sono diminuiti nonostante la legge, in qualche modo, li legittimi. Non è soltanto la normativa a influire sul tasso di abortività. D’altra parte, se si nega che prima della legge esistesse un numero molto consistente di aborti clandestini, non si può nemmeno affermare che nel mondo gli aborti ogni anno siano 50 milioni, visto che la metà circa sono illegali e quindi clandestini. Questi 25 milioni di aborti vengono calcolati con gli stessi parametri e le stesse formule che si adottano per tutti gli aborti clandestini, quindi anche per conteggiare il numero di quelli praticati in Italia prima della legge.
I pro life, compresa chi scrive, ritengono che la risposta agli aborti clandestini non possa essere semplicemente la loro legalizzazione. Ma oltre a ricordare sempre che le donne che abortiscono non devono andare sotto processo – come succedeva prima della 194 – è necessario riconoscere onestamente che la legge è arrivata in Italia perché gli aborti già c’erano e che, sostanzialmente, abbiamo perso il referendum perché la società non era più in maggioranza cristiana. La 194 è stata una delle tante conseguenze della secolarizzazione della società, non la sua causa, e non si può certo pensare di rovesciare una mentalità diffusa processando e colpevolizzando le donne.

Tra le lettere pubblicate dal Foglio si sono lette testimonianze toccanti e commoventi, ma anche richieste di una qualche sanzione per chi abortisce, ed accanto a riflessioni significative abbiamo visto invettive ed anatemi che non lasciavano scampo.

Nonostante Ferrara abbia ripetuto continuamente di non voler mettere in discussione le scelte personali, di essere al tempo stesso per la vita del figlio e rispettoso della scelta della madre, il dibattito nel paese si è trasformato troppo spesso nella replica stanca di quello della campagna referendaria di trent’anni fa: i diritti del nascituro contro quelli della madre, i pro-life contro i pro-choice. Un muro contro muro ideologico, un modo di discutere che tante donne hanno semplicemente rifiutato; e anche chi un certo ripensamento lo aveva avuto, o comunque cominciava a vedere le cose in modo diverso, si è tirato indietro.

In questo clima l’obiettivo della moratoria, e cioè la battaglia culturale in difesa della vita, insieme alla denuncia a livello internazionale dell’aborto forzato, selettivo ed eugenetico, è diventato sempre più lontano e sfocato.


Con le elezioni anticipate tutto questo si è trasformato in una lista. Una lista che nasceva isolata, in un clima teso, in cui il giudizio di fondo e lo scopo della moratoria erano già recepiti in maniera molto confusa.


Per combattere l’aborto, purtroppo, non basta dire che è un omicidio. Bisogna immaginare leggi e provvedimenti anche molto noiosi, e di tanti tipi: è necessario occuparsi di welfare, per l’assistenza alle famiglie, specie quelle bisognose, di immigrazione, di assistenza alle famiglie con disabili, di aiuto alle donne sole, di tutela di minori, di contratti di lavoro, del problema degli alloggi, di sanità, di educazione, insomma, di politiche di ampio respiro e soprattutto condivise. Per questo, al contrario di quello che è stato detto dagli amici della lista Ferrara, è più adatta una lista non di scopo, ma che abbia una chiara visione della società e della cultura che si vuole costruire.

La lista non è stata sconfitta dal “diritto all’aborto”, tantomeno dal comportamento della Chiesa, che secondo alcuni avrebbe lasciato soli un manipolo di coraggiosi: è stata sconfitta perché nata in un clima di scontro e soprattutto perché gli italiani l’hanno giudicata inadeguata a rispondere a un problema tanto grande e radicato nella storia umana.
Ma c’è un

ultimo aspetto da considerare, quel nodo che lega aborto ed eutanasia, fecondazione in vitro e ricerca sugli embrioni umani, insomma tutti quelli indicati come “temi eticamente sensibili”: è il nodo del dolore e della sofferenza.


Dolore per un figlio tanto desiderato ma che non arriva mai, o che nascerà disabile e lo sarà per sempre, o il dolore di una donna lasciata dal compagno che non vuole quel figlio inaspettato, o la sofferenza per una malattia devastante ed incurabile: i nostri tentativi per cercare di affrontare e risolvere tutto questo prendono via via la forma delle cosiddette questioni etiche.

E’ proprio questo a dividere i credenti dai non credenti: il significato, il senso del dolore e della sofferenza.
A una donna che sa di avere in grembo un figlio handicappato si può consigliare di non abortire solo se si è disposti a condividerne il dolore e le circostanze concrete, e lo si può fare se si è consapevoli che Qualcuno a quel dolore ha dato e darà un senso. Si può dire a un malato grave “Non avere paura” se sappiamo di non essere soli, perché Qualcuno ci ha promesso “Io morirò con te”, e poi “Io risorgerò con te”. Si può accogliere e condividere la sofferenza solo se si è fatta l’esperienza di essere accolti da Qualcuno che, pur non cancellando i problemi, non delude mai, perché dare significato al dolore permette di attraversarlo senza esserne distrutti.
Questa esperienza si estende inevitabilmente anche a chi non crede: l’esperienza positiva di chi quel figlio lo ha tenuto e lo ha fatto nascere, di chi si è preso cura del parente devastato dalla malattia, mostra a tutti che comunque certe scelte possono rendere la vita più umana, possono essere migliori per sé e per chi ci sta accanto, anche se non si dà un nome a quel Qualcuno.
Per questo le tantissime opere di carità nate nel tempo dall’esperienza cristiana diventano di tutti e per tutti: pensiamo a quanti ospedali o scuole o case di accoglienza nati da intuizioni di grandi santi sono poi diventate istituzioni in cui tutti lavorano, credenti e non, e alle quali tutti hanno accesso, trasformandosi spesso anche in modelli per le istituzioni pubbliche.
Quando si attacca la Chiesa, anche dall’interno, accusandola sostanzialmente di un eccesso di realismo, o addirittura di un certo materialismo (meglio i soldi dei valori non negoziabili), non si offende solo la Chiesa, ma si equivoca sulla natura del cristianesimo che è innanzitutto un’esperienza, un fatto concreto. I miracoli di Gesù Cristo riguardavano concretissimi pani e pesci, il vino, la guarigione da malattie. Lui ci ha lasciato veramente il Suo corpo e il Suo sangue, non semplicemente idee originali, sani princìpi e valori morali. La storia e la vita della Chiesa sono fatte di condivisione della sofferenza, sostegno nella necessità, educazione, che sono innanzitutto atti concreti; piccoli e grandi atti quotidiani che poi possono anche diventare opere, e che per esistere hanno bisogno del tanto vituperato denaro (come anche il Cav della Mangiagalli della nostra Paola Bonzi).
Chiamare tutto questo “realpolitik” o addirittura attaccamento al denaro significa non capire con cosa si ha a che fare.


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