di Paolo Rodari
Tratto da Il Riformista del 16 aprile 2008
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Giuliano Ferrara ci ha provato. Culturalmente ha fatto centro: teatri pieni, dibattiti infuocati, tante righe sui giornali e un tema, quello dell’aborto, scongelato dal freezer in cui era andato a finire.
Elettoralmente ha fatto cilecca, con quel 4% alla Camera nemmeno lontanamente sfiorato: la sua lista si è fermata allo 0,4%. Tradito, probabilmente, anche da quei tanti cattolici che in questi mesi gli hanno dimostrato in vari modi affetto, vicinanza culturale e ideale.
Vittorio Messori, uno dei principali scrittori cattolici viventi, colui che ha avuto il privilegio di poter intervistare (primo giornalista a farlo) Joseph Ratzinger quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio (le interviste confluirono nel best seller mondiale "Rapporto sulla fede") e poi Wojtyla ("Varcare le soglie della speranza" il risultato, anch’esso un best seller) chiarisce subito al Riformista che «oggi è l’onore delle armi che occorre dare a Ferrara». E ancora: «È un sentimento di gratitudine che i cattolici e la Chiesa dovrebbero avere per lui».
Gratitudine che pure «gli è stata dimostrata in questi mesi quando spesso è riuscito a riempire i teatri italiani verificando sulla propria pelle che moltissimi cattolici erano d’accordo con lui».
Tuttavia, nei seggi elettorali, questa gratitudine non si è tramutata in voto. «Il mondo cattolico - sostiene Messori - sa che il problema dell’aborto è emergente, di una gravità spesso non riconosciuta e sul quale occorre mantenere viva l’attenzione. Ma sa anche che l’aborto è solo la punta di un iceberg di un problema ben più vasto e che prende il nome di una rivoluzione sessuale in atto in tutto l’occidente, rivoluzione macchiata da permissivismo e relativismo. Ecco allora che questo mondo, pur condividendo i contenuti portati da Ferrara, ha ritenuto che la sua battaglia non giustificasse la presentazione di un partito ma, come si diceva ai tempi del ’68, ha valutato semplicemente che il compito della politica fosse di intervenire più a monte. Per i cattolici, insomma, l’aborto fa parte di un problema più ampio e che prende il nome di una sessualità sganciata dalla riproduzione, di costumi che non hanno norme e leggi, insomma di questioni complesse la cui risoluzione non può essere affidata semplicemente a un partito».
Messori si spiega meglio: «Nel cattolicesimo, quando una persona ha un determinato carisma che lo porta a essere un punto di riferimento per altre persone, non fonda un partito, semmai un ordine religioso. Accade, invece, nel protestantesimo, ad esempio in un certo protestantesimo nord americano, che chi abbia un carisma crei immediatamente una Chiesa, una setta potremmo chiamarla, e inizi così a battagliare a livello politico. Ma per i cattolici questo modo di battagliare è poco opportuno. Anche perché non tiene conto del fatto che dietro al problema, a monte appunto, ve ne sono altri più profondi e grandi».
Il consenso che Ferrara ha ricevuto fin da quando ha messo in campo l’idea della moratoria sull’aborto è stato significativo non soltanto nel popolo dei cattolici, ma anche in parte delle gerarchie ecclesiastiche. E poi? «Poi - continua Messori - ha prevalso una certa diffidenza di molti cattolici verso un intellettuale certamente stimabile e valido, ma insieme “instabile”. Nel senso che l’abbiamo conosciuto prima comunista duro e puro, poi con Craxi, ministro di Berlusconi e, alla fine di questo suo errare, impegnato nel tentativo di mettersi alla corte di Benedetto XVI. È un’instabilità tipica di un intellettuale moderno nella quale però si fa fatica a riporre la propria fiducia. E se domani si stancasse? E se domani virasse verso altre direzioni?».
Secondo Messori, nel corso della campagna elettorale, Ferrara ha vissuto «la classica illusione tipica di ogni politico». Cioè? «I politici - dice - vanno in piazza e vedono tanta gente che li ascolta. I teatri si riempiono. I pullman elettorali faticano a farsi strada tra la gente. Pensiamo al pullman di Veltroni: in quante piazze lo abbiamo visto attorniato da folle entusiaste. Poi però arrivano i giorni delle elezioni e ci si accorge che gli italiani sono circa 50 milioni e che quella folla che riempiva le piazze non ne era che una minoranza. O comunque, probabilmente, non era entusiasta al punto da concedere al politico di turno il proprio voto».
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