mercoledì 21 febbraio 2007

L'AMICIZIA DI CRISTO NON HA STATUTI


Paolo VI, le curie e Dossetti. Il fascino dell'egemonia, la solitudine
di un carisma e il clericalismo antipatizzante. Dal primo passo al liceo Berchet di Milano all'obbedienza alla Chiesa, senza se e senza ma.
Un'inedita conversazione con Luigi Giussani
"«Forse una realtà come la vostra», disse Bartoletti, «non ha bisogno di uno Statuto, perché è la vostra amicizia il vostro Statuto. Non avrei mai creduto che si potesse fare un'organizzazione così stretta e così impavida e così sicura solo per amicizia». Ecco, questo può essere il punto per spiegare cos'è l'amicizia."



Quando inizia questa cosa che poi prenderà il nome di Comunione e Liberazione? È quando tu, don Gius, attraversi il portone del Berchet? O quando scatta l'amicizia di voi seminaristi ancora senza appellativo? O quando si costituisce il gruppo Studium Christi, e quell'amicizia prende un nome?

La nascita di Cl è quando, guardando il piede che andava sull'altro gradino del liceo Berchet di via Commenda a Milano, in quell'ottobre del 1954, dicevo: «Ma per cosa vengo qui?». Per Lui. Dal primo istante, perché davanti a Dio posso aver fatto tutto sbagliato, ma non sarebbe vero che io abbia fatto una cosa non per questo.


Allora 'Studium Christi' era un'altra cosa: una premessa, un antecedente?

No, lo Studium Christi è stato come un sussulto di fronte a uno spunto a cui non potevamo dare totale sviluppo, ma che - analogicamente - ha avuto un certo suo piccolo iter che, dopo, post factum si può intendere come profezia. La profezia, infatti, si capisce sempre dopo che è avvenuta.

Puoi fare la storia della tua autocoscienza rispetto a quello che veniva configurandosi come movimento? Insomma, cosa pensavi man mano che la vicenda si svolgeva?

La risposta è molto semplice. Non c'è stato giorno in cui un determinato sviluppo non mi apparisse ovvio rispetto al giorno prima. Era ovvio il destarsi della coscienza di una Presenza che investiva tutto, implicava tutto, penetrava tutto, giudicava tutto. Non c'era niente che avvenisse il giorno dopo, o il mese dopo, o un anno dopo, che non fosse logica conseguenza, dilatazione di un sussulto di coscienza che poteva essere datato un anno prima. Per esempio, l'idea che la fede, credere in Cristo, implicasse la commozione di un riconoscimento associativo, di una compagnia, di una novità che si stabiliva tra tanta gente. Mi è capitato l'altro ieri, ma è stato impressionante come lo fu ai primi giorni: da via Marochetti ho incontrato sette persone che mi hanno fermato dicendo: «Lei è don Giussani? Lei è come un padre, lei è nostro padre». E io dopo il primo incontro sono rimasto lì un po' impacciato, poi ho detto: «Tre minuti fa eravamo estranei. Pensate adesso, io darei la pelle per voi, e voi il vostro sangue per me!». A tutti e sette ho risposto così. Allo stesso, identico modo, come era identica l'affermazione che facevano loro. Questa è tutta la vita del movimento, eh!

Quando, per la prima volta, hai detto dentro o fuori di te: «Questo è un movimento, una creatura, un figlio»?

Mai! Dico mai perché è stato mai. È un problema che non mi sono mica posto. Era ovvio: quando ho visto per la prima volta a Varigotti quei 350 che eravamo, era identica sensazione di quando quella prima volta ho radunato i sei o sette del Berchet per uno dei primi raggi. E i novemila dell'altro giorno (la cosiddetta 'giornata di fine anno', giugno 1996, al Palatrussardi, nda) non mi dicevano di più. Cioè, dicevano di più della stessa cosa: non di ciò che avveniva sotto i nostri occhi, ma di ciò che era avvenuto con la grazia di Dio. Speriamo di avere buoni vescovi, che ci aiutino di più a far pesare nella Chiesa la grazia che abbiamo ricevuto noi. Per questo bisogna pregare la Madonna, specialmente in questi tempi che sembrano buoni da questo punto di vista, perché ci dia la grazia, anche se non la meritiamo, di vescovi veramente generati e generatori dell'esperienza del movimento.

Quei primi sette, o questi novemila, li hai sempre visti in riferimento alla tua persona, o come qualcosa che poteva conservare la sua natura senza di te? Insomma, quando l'autorità ecclesiastica ha mirato a separarti dal movimento negli anni '60 cosa pensavi? (Qui devo fornire tra parentesi qualche ulteriore elemento. Il cardinal Colombo riteneva che il permanere di don Giussani in Italia potesse consolidare l'esistenza di una Gioventù studentesca della quale apprezzava la valenza educativa, ma che egli temeva potesse creare un dualismo rispetto all'Azione cattolica. Inviò don Giussani, nel 1965, a completare i suoi studi in America)

Pensavo che non fosse una cosa che c'entrasse con me: ero io che avevo ricevuto la grazia di avere a che fare con essa. Se c'è una cosa a cui si può ricondurre tutto lo stupore che la storia del movimento fa nascere è che è come se non ci fosse niente, è come se non ci fosse mai stato niente. Insomma, nessuno ha suonato il campanello per dire: «Son qui, posso entrare?». Nessuno. Non c'è nessun momento di questo genere. Tutto è accaduto come accade il sole: dalle undici, arriva alle quattordici. Tant'è vero che le uniche cose che datiamo con gusto, con rilievo, sono gli scherzi fatti, le battaglie navali sul lago di Como, la pizza mangiata sopra Catania. Ricordo un amico teologo che era con noi a Limone Piemonte, nel '73. A un certo punto commentai la lettera ai Galati. E per la prima volta, lui coltissimo, l'ho sentito dire: «Chissà come fa questo qui a capire queste cose?». Lo diceva perché non avevamo nessuna preparazione, non avevamo avuto nessun Giuseppe Dossetti. Lì cominciò il suo scollamento da noi. Però aveva una tale bontà d'animo. è malinconico non sia rimasto con noi, perché avrebbe vissuto dieci volte più lieto. Perché la letizia non è dei saggi, è dei bambini: la saggezza è di un Altro che appare nella trama della carne umana.

La storia dei tuoi rapporti con l'autorità ecclesiastica?

.bellissima!

Ma durante la crisi, hai mai pensato di rivolgerti all'autorità romana, magari attuando un rapporto diretto e immediato col Papa?

Mai! Mai, non mi è neanche venuto in mente. Come avrei fatto ad osare, io, mettere in mezzo Roma? Se son rose, fioriranno.

La prima volta che sei entrato in contatto con Roma, come è accaduto?

Roma ha cercato il rapporto con noi.
L'ha testimoniato il cardinal Giovanni Benelli l'ultima volta che ho mangiato con lui a Firenze. Io ero seduto alla sua sinistra, e mi ha detto: «Senta, le dico una cosa che non ho mai detto a nessuno. Una volta Paolo VI mi ha chiamato e mi ha detto: guardi per favore a Cl. Non abbiamo mai fatto attenzione a questo movimento, ma non lo perda di vista». Allora mi sono ricordato dell'impressione che ho avuto un giorno quando mi è arrivata una notizia dalla nostra segreteria: mi chiamava la Segreteria di Stato. La Segreteria di Stato! Io vado giù, e penso: «Chissà che ramanzina!». E Benelli, allora sostituto segretario di Stato, mi ha ricevuto immediatamente e mi fa: «Allora, mi racconti un po', come va Cl?». E io: «Benissimo. Ma ha qualche cosa da dire.?». «No, no, non ho nulla da dire, anzi, il Santo Padre si interessa molto a voi». E basta. Da allora, ogni 4-5 mesi, mi chiamava.
Era il '74? Perché quello è l'anno in cui, secondo la testimonianza che ho raccolto di monsignor Girolamo Grillo, arcivescovo di Civitavecchia e allora in Segreteria di Stato, Paolo VI ricevendo Benelli a lui dice accorato, a proposito di Cl: «Ci restano soltanto loro!»
Questa fu la malinconica conclusione della constatazione del vuoto che ebbe attorno a sé in Piazza San Pietro. Ma quello cui si riferisce Benelli accade prima. Prima del referendum sul divorzio. Pochi giorni prima c'era stato un raduno in San Pietro. E a un certo punto Paolo VI ha visto un cartello: 'Clu Firenze'. Allora ha fermato il suo corteo e ha detto: «Ecco il Clu di Firenze. Bravi, siete proprio fedeli a quello che la Chiesa ha sempre insegnato. Salutatemi il vostro fondatore Giussani». Questa fu l'unica volta che un nome fu fatto all'interno di San Pietro. Così scopersi di essere fondatore.


Prima non ti era mai venuto in mente?

Ma va'. Però, c'erano stati due momenti in cui fui considerato in questo modo, un po' come un fondatore. Capitò quando monsignor Costa, capo di tutta l'Azione cattolica italiana dal quale eravamo andati a congratularci (primi anni '60, ndr), fa: «Eh, bisogna stare attenti, bisogna sempre rispettare il ruolo dei laici.». In quel momento suona il telefono, non so chi fosse, ma lo sento dire: «No, quel ministro no! T. agli Esteri sarebbe un delitto! Io ne farei piuttosto un altro per documentare la non ingerenza della Fuci (la Federazione degli universitari cattolici italiani, ndr).». Ma il picco è stato con il cardinal Giovanni Colombo. Lui è il paradosso incarnato. Glielo ha fatto notare Giacomo Biffi: «Guardi, eminenza, non può negare che tutto quello che lei ha detto, l'unico ad averlo preso sul serio è stato don Giussani. Fino a quando ha ripetuto quello che diceva lei, tutto andava bene. Ma quando poi ha cominciato ad affermare le sue idee in pratica, ha avuto come ribrezzo, e non poteva sopportarle». E queste parole di Biffi mi ricordarono come qualche mese prima il cardinale mi avesse chiamato e mi avesse detto: «Senti, Giussani, i tuoi superiori ecclesiastici sono contro Cl». «Mi spiace», gli dissi io. «Perché, vedi», proseguì, «siete buoni, siete giusti, siete generosi, sacrificati, però dove arrivate disturbate». Allora io, che ho avuto un istante di ictus: «Ma si disturbano anche coloro che dormono». Lui ha fatto un suo tipico cenno col capo, faceva sempre così, e poi: «Insomma, secondo i tuoi superiori tu dovresti chiudere Cl». Mi ricordo che con tranquillità gli risposi: «Eminenza, se lei mi dà un ordine e se ne assume tutta la responsabilità - tutta - e perciò mi comanda di chiudere Cl, entro un'ora tutte le comunità di Cl sanno che non devono più esistere come Cl. Ma se lei lascia un millimetro di spazio alla libertà della mia coscienza, a quel che vede la mia coscienza, la mia coscienza vede che questa è la cosa più bella che ci sia nella Chiesa adesso, nella vita della Chiesa di adesso, perciò io continuerò. Tocca a lei dirmi: ti comando, oppure.». Tacque, e io andai avanti. Chi tace, acconsente. Ma avrei obbedito all'istante, sul serio.

Questa storia era già dentro la tua persona oppure quello stesso carisma è anche qualcosa che riconosci al di fuori di te? Per esempio, quando Manfredini pronunciò quella frase: «Che Dio si sia fatto uomo è una cosa dell'altro mondo!», cos'è che ti fa accorgere delle implicazioni di questo riconoscimento?

È una grazia dello Spirito. Manfredini fu il miglior strumento che Domineddio mi diede come compagnia nell'arrembaggio.
Fu il solo, o ci furono altre personalità di questo genere?
Monsignor Pignedoli, l'amico di Paolo VI, che è quello che intervenne salvando la situazione, quando monsignor Costa venne a Milano per ottenere la scomunica per Gs. E Manfredini, che era presente come capo dell'Azione cattolica milanese, era là tremebondo perché tutte le domande che faceva il futuro Paolo VI sembravano essere d'accordo con la soppressione. Alla fine il cardinal Montini disse: «Beh, riassumiamo. Voi mi avete sempre chiesto libertà, avete sempre parlato di libertà e io sono sempre stato d'accordo con voi. E adesso, davanti a una cosa che mi dà dei frutti nella Chiesa di Dio, che commuove giovani, venite qui a dire: sopprima questa libertà? Ma non posso!». Così fu chiusa la questione.
Enrico Bartoletti, il vescovo segretario della Conferenza episcopale. Viene dopo, ma fu un momento importante, no? Esiste un diario in cui Bartoletti parla dell'input che ebbe da Paolo VI perché Cl fosse accolta come si deve nella Chiesa italiana.
Ci furono due conversazioni, una di fila all'altra. La prima di me, da solo con lui, a Roma. Bartoletti mi fece delle domande, io risposi secondo l'entusiasmo che avevo addosso. Lui non arguì niente e disse: «Bene, bene, coraggio». Mi mandò via con questa frase: «Coraggio!». La settimana dopo, parlò a un gruppetto: Negri, Scola, Sante Bagnoli (fondatore di Jaca Book, ndr), io non c'ero, ma lo stesso Negri ha raccontato di una sua frase che è la più bella della nostra storia: «Forse una realtà come la vostra», disse Bartoletti, «non ha bisogno di uno Statuto, perché è la vostra amicizia il vostro Statuto. Non avrei mai creduto che si potesse fare un'organizzazione così stretta e così impavida e così sicura solo per amicizia». Ecco, questo può essere il punto per spiegare cos'è l'amicizia.
Quelli erano gli anni dell'egemonia, della preoccupazione egemonica.
Ma l'egemonia aveva entusiasmato anche me, eh! La gloria di Cristo è qualcosa che è nella storia, perché un minuto dopo la fine della storia non c'è la gloria di Cristo, c'è la gloria di Dio. Comunque la storia di Cl non è la storia di un'ideologia che procede per blocchi, così come non lo è la storia della Chiesa. Perché è come il sole che durante il giorno si ingrandisce, la luce si ingrandisce. È la stessa cosa: così è il piccolo punto luminoso all'orizzonte, e poi è il sole di mezzogiorno. È lo stesso. La questione dell'egemonia è andata così. Io ero inizialmente entusiasta delle posizioni espresse da alcuni nostri intellettuali sull'egemonia. Poi non fu una negazione di questo che condusse avanti le cose. Fu uno sguardo sempre fisso alla stessa cosa, che man mano che il tempo passava diceva altre cose. E questo ha chiarito anche il problema dell'egemonia.


Hai detto un giorno che senza che tu lo potessi prevedere, senza la tua paternità consapevole, un gruppetto di universitari ha ripreso la mossa del tuo ingresso al Berchet. È la prima volta che ti capita di riconoscere questo riaccadere dell'esperienza in termini così vasti senza che fossi tu a comandare esplicitamente le danze? O forse c'eri?

C'è stato un fatto particolarissimo: il ballo di fine anno con il gruppetto della Cattolica (Intiglietta, Fontolan, Giojelli, Amicone, la Cioni.). Quello è forse il momento più tipico dell'ingegnum che lo Spirito ha immesso nella nostra esperienza. «Bello il ballo, suggestiva la musica, che vibrazione di gioia. Pensate. Tra mezz'ora. Voi vi starete salutando sulla porta delle vostre case, e ci sarà una malinconia dentro di voi, che voi non guarderete in faccia, che non vorrete ammettere. Ecco, era questo che mancava alla gioia di questa sera. Manca qualcosa di cui la festa era un segno, una profezia, una profezia incompiuta, tanto incompiuta che andrete a letto con una malinconia strana, più grande e più buona del solito». Carà Beltà, che amore lunge m'ispiri. Che bello!
Questa unità che è segno di Cristo. Il Leopardi del tuo seminario.
E dire che mi ha rimproverato qualcuno, dandomi dell'incompetente su Leopardi, perché non ho la stessa filosofia del poeta: dimentica semplicemente che ho la stessa umanità di Leopardi!


Come giudichi la crisi del '67-'68? Cosa fu?

Fu la storia di una infedeltà, la causa è un'infedeltà. Infedeltà alla compagnia in cui si era colpiti, nati e cresciuti, per una prevalenza di stupore e ammirazione data al fare degli altri, all'attività politica degli altri. Allora si sono viste le due parti, i due fattori implicati nella vita di Gs. Gs diceva: «La fede in Gesù ci fa cambiare la vita». Tutti o quasi si sono buttati sul 'cambiare la vita'. Da noi la vita cambiava insensibilmente; il cambiamento vertiginoso, vorticoso, clamoroso era da parte di quelli che esaltavano l'azione: l'esaltazione dell'azione dell'uomo, governata dalla interpretazione delle cose che l'uomo faceva. Dall'altra parte, quello su cui insistevo io: «La salvezza è Cristo. Non l'azione dell'uomo, ma Cristo è la salvezza». Allora, il discorso che allora facevo spesso nelle prediche era: «Voi fate come i parroci delle parrocchie, che per cinquant'anni hanno parlato del sesto e del nono comandamento (la purità, i puri e forti di Lazzati)». In quel momento, una ideologia nuova impegnata, travolgente, li stendeva a terra. Per questa ideologia le leggi più gravi erano il quinto e il settimo. Non uccidere (eppure uccidevano). Non rubare (eppure si impossessavano di tutto). Il gioco era tale e quale: la salvezza sta nell'osservare la legge. Esattamente come per i farisei. Dicevo: «Per noi la salvezza invece è nella tenerezza con cui Cristo guarda la gente e come ci ha abbracciati nonostante i peccati, nonostante l'incoerenza. La grande questione è osservare la legge oppure è obbedire a quest'uomo». La grande questione ebbe la risposta adeguata solo in questi anni. Il discorso delle due morali accenna l'ultimo passo. La difesa e la descrizione della nuova morale è il punto culminante, dal punto di vista apologetico, della verità della nostra posizione, della verità del Cristianesimo. Chi salva il mondo è una presenza nel mondo, umana: di uno che mangiava e beveva, andava con i peccatori, abbracciava le prostitute, da tutti condannato. Ma chi era colpito da questo Uomo riusciva a cambiare, e tutti gli dicevano: «Sbagli come prima, non hai cambiato niente!». E invece l'unico possibile cambiamento era fissare quest'Uomo. «Chiunque ha speranza in Lui, si purifica come Egli è puro». Lo scopo della storia non è la gloria dell'uomo, la forza dell'uomo, la coerenza dell'uomo, la coerenza morale dell'uomo. Non è quanto predica Norberto Bobbio; insomma non è la moralità: la salvezza dell'uomo è un'altra cosa. È l'incontro e l'amicizia; la compagnia che nasce dall'incontro; il popolo nuovo che nasce dall'affezione a questo Uomo. Si rileggano Paul Claudel e T. S. Eliot. In questo, Claudel più di tutti. Charles Péguy è come un anticipo, ma chi l'ha detto espressamente è stato Claudel, e Eliot ha tratto la conseguenza cosmica della storia come tale. E il dramma incomincia adesso: capire se la morale nasce da un incontro, la morale è resa possibile, esistenzialmente, storicamente attuale da un incontro, da un connubio; o se invece è generata da un'analisi e da una coerenza piena di presunzione. Questione, peraltro, già risolta agli inizi, duemila anni fa: tutto è carità. La virtù è carità, e la carità è amare una presenza umana, di carne e ossa, così che «pur vivendo nella carne, noi viviamo nella fede del Figlio di Dio», che è la frase più riassuntiva, di cui mi sono accorto l'anno scorso.

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